Mese: Gennaio 2016

Runners ad Acerra il 6 gennaio

acerradi Vincenzo Giarritiello

La 27° edizione della gara podistica Trofeo della Befana del 6 gennaio a Acerra, organizzata dalla Libertas Atletica 88 Acerra, sta suscitando un vespaio di polemiche sia a causa delle avverse condizioni meteo con cui si è deciso comunque di dare il via alla manifestazione, sia per quelle pessime del percorso di gara, in più punti allagato dallo straripamento di un tratto fognario. Ciò ha costretto i runners a guadare un mare di melma maleodorante, come documentato da un filmato che sta spopolando in rete.

Ascoltando l’audio del video è facile presumere che gli autori della ripresa siano un gruppo di residenti stanchi di una situazione drammatica che si ripropone da anni non appena inizia a piovere, senza che le autorità competenti facciano qualcosa per arginarla. Nel filmato si vedono atleti saltellare nell’acqua o arrampicarsi su un cancello per superare quello schifo. Mentre le immagini scorrono, una voce di donna invita gli atleti a lamentarsi perché il video sarà inviato a Striscia. Quindi le si sovrappone la voce di un uomo che auspica di recapitare al sindaco il filmato affinché si renda conto. Non credo che il maltempo fosse un valido pretesto per rinviare la gara, avrebbe significato creare non pochi grattacapi a livello organizzativo, dar vita a un evento sportivo in un agglomerato urbano sconvolge per qualche ora gli equilibri di un’intera comunità con ripercussioni economiche non indifferenti sul suo intero tessuto economico e sociale. Perciò bene hanno fatto gli organizzatori a non annullare l’evento, chi non se la sentiva di correre sotto il diluvio poteva riconsegnare il chip e il pacco gara.

Quel che non è giustificabile, e di certo non è imputabile all’organizzazione, è lo stato pietoso di alcuni punti del percorso, in più tratti dismesso e allagato fino alle caviglie. Cosa sarebbe successo se un atleta fosse inciampato in un una pozzanghera e si fosse fatto seriamente male? Di chi sarebbe stata la colpa per non aver preventivamente provveduto a garantire l’incolumità degli atleti lungo il percorso di gara? Il Comune ha tutto il dovere di garantire la sicurezza di chi vi transita, sia in auto sia a piedi.

Ma non sarebbe stato meglio se chi ha effettuato le riprese, invece di posizionarsi al di là del guado per filmare i runners nelle loro evoluzioni acrobatiche, si posizionasse prima segnalandolo? Magari levando le barricate impedendogli di proseguire per difendere la loro incolumità? Comunque, nei tratti allagati, compreso quello filmato, non c’era né una pattuglia dei vigili urbani né della protezione civile.

Dopo tutto questo, soggiungo: lo so, agli occhi di molta gente noi runners sembriamo dei folli.

Del resto, come dargli torto visto che i primi a ammettere di non avere tutte le “rotelle” a posto siamo proprio noi? Chi avrebbe il coraggio, se non un folle, di sottoporsi a allenamenti massacranti, macinando centinaia di chilometri all’anno, correndo a qualsiasi orario e con ogni condizione meteo, anche le più proibitive, solo per il piacere di stare fisicamente bene; a volte partecipando a qualche gara, non disdegnando una maratona, per dare senso agonistico a quella fatica che ci costa tempo, fatica e denaro? (partecipare alle gare tra iscrizioni, spostamenti e, in alcuni casi, pernottamenti in albergo e pranzi in ristoranti ha dei costi non indifferenti).

Eppure quell’apparente follia testimonia non solo un indole fuori dagli schemi e narcisista – sì, ammettiamolo, noi runners siamo anche, un po’ (?), narcisisti!- ma prima di tutto una personalità che si vuole bene e ama la vita e le emozioni che regala correre all’aria aperta, tipo i colori dell’aurora o di un tramonto sul mare o dietro alle montagne! Infatti, seppure al mondo i folli non scarseggino, non tutti hanno la forza e il coraggio di alzarsi la mattina prima dell’alba o rientrando a casa a tarda sera, dopo una stressante giornata di lavoro, indossare la tenuta sportiva, calzare le scarpette e scendere quando il mondo sta ancora dormendo o sta apprestandosi a andare a letto, per macinare la propria dose giornaliera di chilometri su strada.

Così come non tutti i folli, non dovendo a andare a lavoro, la domenica mattina o un qualsiasi giorno di festa, anziché approfittarne per dormire un po’ di più, si sveglierebbero comunque presto per macinare almeno una ventina di chilometri, da soli o in gruppo, (tecnicamente questo tipo di allenamento è ribattezzato “medio” o “lungo” a seconda se la distanza da percorrere è inferiore o superiore ai 20 km).

Essendo la follia una patologia mentale, agli occhi di molte persone noi runners saremmo dunque dei malati mentali. Ma lo siamo davvero? Può definirsi malata di mente una persona che finalizza parte della propria esistenza alla cura del proprio fisico e al piacere emotivo che le procura correre? Se così fosse, malati mentali non saremmo solo noi runners bensì chiunque pratichi sport al fine di stare bene, di piacersi e di piacere! Che male c’è a avere rispetto e cura del proprio corpo? A godere delle emozioni derivanti dal gesto sportivo?

Mi si risponderà che non c’è nulla a patto che tutto ciò non diventi una mania. E se anche diventasse una mania, chiaro sintomo di una patologia mentale, se chi fosse preda di essa, vivendo in maniera alienante lo sport, starebbe comunque bene con se stesso in quanto avrebbe trovato la ragione del proprio esistere senza arrecare alcun fastidio a terzi, per quale motivo dovrebbe rinunciarvi? Solo perché agli occhi degli altri appare strano, folle?

Personalmente potrei – l’utilizzo del condizionale è d’obbligo – reputare folle chi, appena sveglio, la mattina, mette la macchinetta del caffè sul fuoco perché deve crearsi il pretesto per fumare la prima sigaretta della giornata, o chi spende un mare di soldi tra beauty farm, centri di benessere, creme rassodanti e quant’altro al fine di piacersi e di piacere.

Essendoci nella vita un limite a tutto, come diceva Aristotele la virtù sta nel mezzo, anche la passione per la corsa va amministrata con equilibrio e saggezza al fine di evitare che sfoci davvero in patologia mentale inducendo chi la vive a stravolgere quelle che sono le priorità esistenziali tipo gli affetti familiari, il lavoro e tutto, ponendo all’apice la corsa. Se davvero vogliamo parlare di follia, ai miei occhi folle è chi, pur praticando un qualsiasi sport a livello amatoriale, non si fa scrupoli di assumere sostanze dopanti per mostrarsi superiore agli altri in gara, o anche solo in allenamento. Ma questa è tutta un’altra questione.

W MM giarri runners

Consumo dunque sono. Il nuovo Imperativo filosofico dell’era moderna

Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman

i shop-i amdi Anna Irene Cesarano

“Consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza del nostro desiderio. E’ una guerra silenziosa e la stiamo perdendo”.

Di certo Bauman quando si esprime così si riferisce alla nuova società dei consumi e alla conseguente decadenza che questa ha comportato in tutte le sfere umane da quella emotiva, sessuale, affettiva, sociale. Ma perché l’individuo ha bisogno di consumare? Per una reale esigenza? E quando desideriamo, lo facciamo perché davvero spinti da un desiderio o influenzati da pressioni sociali? Non è forse vero, che ad esempio anche quando desideriamo la cioccolata, diciamo “oggi ho voglia di un Kit Kat o di un Ferrero Rocher “ e non di cioccolata?

E’ la società con il suo “imperativo categorico capitalistico” a indurre nell’individuo il desiderio di quel bene o anche di altro fornendo dei bisogni falsi, le persone si illudono di raggiungere la felicità ottenendo quel bene o merce, ma una volta comprato il desiderio svanisce per lasciare il posto ad un altro e così via. Nell’incessante ricerca del piacere materiale l’essere umano perde di vista i reali bisogni e consuma senza accorgersene, come ben esemplifica Bauman, cosicché in questa eterna lotta il consumo ci consuma e il desiderio non è altro che espressione della società nella quale viviamo: “Labora et consuma”.

Fiumi di inchiostro sono stati versati sul perché gli esseri umani consumano, il fior fiore di sociologi si sono espressi su questo punto. Ci sono stati alcuni come Thorstein Veblen per il quale il consumo era, in linguaggio sociologico, vistoso modo funzionale all’affermazione dell’individuo, perché attraverso esso poteva mostrare alla società nella quale viveva chi era, che gradino occupava della scala sociale, quindi la spesa non era spreco di denaro ma un modo per dire agli altri “Io sono”. Così l’agiatezza vistosa non era uno spreco di tempo, ma appunto serviva ad affermare e riaffermare, nonché ostentare, “lo status quo” della persona.

Lo stesso Georg Simmel con la sua teoria del trickle-down, o anche effetto trickle-down (in italiano: “effetto sgocciolamento dall’alto verso il basso”), nel suo saggio La Moda, ci fornisce una spiegazione della diffusione del fenomeno delle mode e più in generale del consumo. La moda e soprattutto alcuni modelli comportamentali e abitudini, nella società moderna, scivolano come per effetto di uno “sgocciolamento” dalle classi più alte a quelle più basse, che imitano le classi più elevate per costruirsi un’identità all’interno della compagine sociale e per sentirsi parte di un mondo del quale non hanno fatto mai parte.

Dunque consumano, imitano di esse usi, costumi, abitudini, stili di vita, ed è proprio attraverso la moda che lo fanno, perché, si sa, il modo di abbigliarsi è un grande indicatore del livello economico di una persona. All’inizio dell’Ottocento gli individui usavano l’abbigliamento per mostrare e ostentare la propria posizione nella scala sociale, in qualche modo ostentare era funzionale alla costruzione di un’identità.

E come non citare il gigante dei saperi sociali, Karl Marx per il quale il consumo era un’esigenza strutturale dell’economia capitalista ne costituiva il cuore, al punto che i bisogni degli individui vengono generati e fatti crescere incessantemente dalla manipolazione dei desideri nei confronti delle merci, che farebbe del consumo un atto totalmente dipendente da fattori esterni.
E’ il sistema produttivo che detta le regole del desiderio degli essere umani, arrivando alla paradossale necessità di consumare per produrre e non del più logico inverso. Allora i consumatori non sarebbero più in grado di capire cosa è davvero utile e cosa non lo è, e finiscono per consumare merci la cui unica utilità è quella di arricchire coloro che hanno organizzato la loro produzione e circolazione sfruttando manodopera a basso costo.

La società raccontata da questi sociologi è espressione di una realtà sociale –politica -economica che non ha più la sua ragione d’essere, tra Bauman e Marx c’è un secolo e mezzo che li distanzia. Sarebbe anormale se non ci fossero stati dei cambiamenti e transizioni. Oggi c’è chi, come Giampaolo Fabris sostiene che siamo entrati nell’era postmoderna, che vede come protagonista un consumatore ex novo che ha radicalmente surclassato il tradizionale consumatore dell’era industriale. Agli inizi del secolo scorso infatti, fiorirono molte teorie che vedevano l’individuo come mero bersaglio, passivo, inerte, di una relazione comunicativa. Il messaggio “sparato dai media viene “iniettato” direttamente dai media nella pelle del ricevente, il quale subisce senza controbattere. È questa appunto la teoria del proiettile magico o bullet theory o teoria ipodermica. Già a metà Novecento era ormai chiaro che questa teoria aveva fatto il suo tempo, infatti, da nuovi studi emerse che il soggetto di una relazione comunicativa non solo riceve, ma decodifica il messaggio, elabora una risposta, adotta strategie comunicative, pianifica il processo comunicativo. Se nel primo Novecento la relazione produttore consumatore P = C era sbilanciata a favore del primo, ed era quindi verticistica, nel secondo Novecento e nel XXI secolo la relazione diventa diadica, cioè tra due soggetti che hanno parte attiva nel processo comunicativo e hanno eguale voce in capitolo.
Il consumatore diventa più esigente, scaltro, selettivo, autonomo, competente, pragmatico, proattivo, infedele alla marca. Ma sta riscrivendo radicalmente il nostro sapere sul consumo. Che, accanto ai suoi significati tangibili, va ampliando i suoi aspetti di segno, comunicazione, scambio sociale. Un nuovo linguaggio, quello del consumo, con una sua grammatica e sintassi che è indispensabile conoscere. Un nuovo consumatore che ha cambiato pelle in cerca di esperienze più che prodotti, di emozioni e sensazioni più che valori d’uso. Generando inediti modelli di consumo, più simili al patchwork che alla linearità/prevedibilità del passato, di cui è necessario apprendere le regole. Le nuove tendenze del marketing (relazionale, estetico, tribale, esperienziale) prendono avvio proprio da questa nuova realtà. Nella postmodernità il consumo assume una crucialità simile a quella riconosciuta alla produzione nella fase della modernità. Il rischio, per chi produce e vende, è non cogliere le straordinarie opportunità che la nuova centralità del consumo offre (Fabris, 2003).

W MM cesarano consumo dunque sono