Giorno: 22 Febbraio 2016

Umberto Eco

di Gily Reda, Editoriale

La biblioteca de Il nome della rosa
La biblioteca de Il nome della rosa

Un giorno di commozione questo: tutti ricordano Il nome della rosa, con lo splendido Sean Connery da Baskerville che sovrasta le parole di un magico romanzo, che per molti è stato l’ingresso nella celebrazione del Medio Evo, allora ritenuto ancora oscuro.

Ma Eco non lo considerava un punto d’arrivo, se subito iniziò a scrivere – la domenica, come diceva – Il Pendolo di Foucault (Bompiani, 1988) andando al punto capitale, l’incontro col diavolo. Allora lo recensii,[1] anche perché quasi in contemporanea lo stesso tema era protagonista dei Versetti Satanici di Ruschdie – dove però diavolo ed angelo erano in alta uniforme, l’uno bianco e biondo, l’altro con fetore, coda e corna.

I due bestsellers implicitamente criticano il mondo della scrittura breve con le loro oltre cinquecento pagine, che d’altronde occupa anche Tolkien, che molti ragazzi dicono di aver letto, mentre stentano a leggere un articolo di giornale.

Criticano inoltre il mondo degli anni ’65 – ’75, così felicemente floreali da ignorare il nuovo cupo volto del male, riemerso nel decennio 75-85. Arimane, Re delle cose, autor del mondo, arcana /malvagità che Leopardi divide con Zarathustra, si preparava al successo che oggi arride a tutte le presenze malefiche nelle serie TV. Era infatti, oltre che protagonista di capolavori, di tanti libri ed articoli sul Satan. A Torino, nella Piazza Statuto cara ai filosofi perché sede della celebre rivista di Augusto Guzzo, “Filosofia” (ricordava F. Barbano curando il libro Diavolo, diavoli, Torino e altrove, Bompiani 1988), nasceva invece un vero genere letterario rigoglioso, a proposito dei culti esoterici (A.M. Di Nola Il diavolo, Newton Compton, 1987).

Liberatore dal mondo beghino l’aveva cantato Carducci; ora il Diaballo, il Separator dei filosofi, libera invece dall’illusione ingenua dei Figli dei Fiori e medita la nuova vita quotidiana computerizzata: Eco lo incontra per chiedergli quale sia la definizione del linguaggio nel tempo dei files. Dopo aver analizzato il linguaggio nella semiologia/semantica, averlo cavalcato con scioltezza nel romanzo, si confronta quindi col punto capitale – la massa di parole. Nel Pendolo di Foucault si accumulano i files del lungo racconto dei solitari Cavalieri della cultura che vanno per lo stesso cammino attenti a non ascoltarsi, a stratificare informazioni. Sembra già cominciato il mondo del tweet, coi sedicenti cinguettanti che celano l’abbaiar dei cani sotto lo sberleffo.

Lunghe pagine composte da Bembo allacciano i fili sottili del file ‘Abulafia’ ai dati degli altri Cavalieri: dati su dati, accumulati in pagine di Eco senza chiave di volta: sette, affiliati, piani segreti, iniziati, congiure, vittime. Nel mezzo di tante parole (che somigliano non a diabolici piani segreti ma all’enciclopedia delle riunioni di condominio) il miserabile mistero si sposta a ogni momento; il verbalizzatore seguita a registrare e capisce sempre di meno. È scomparso Il Logos: lo dice chiaro Diotallevi, il secondo Cavaliere. L’essere leggero (non ancora liquido) è scherzo: ciò che non accumula polvere non ha spessore, la storia è diventata un effimero vivere decadente.

L’inutile sogno idealistico d’inizio ‘800, già denunciato dal nichilismo di fine ‘800, apre su una mediocrità quotidiana senza intelligenza – la Lettura, la Legge, sfugge all’uomo ed al suo linguaggio. Diotallevi, morente malato terminale, conclude: “Abbiamo peccato contro la Parola, quella che ha creato e mantiene in piedi il mondo (…) per manipolare le lettere del Libro ci vuole molta pietà, e non l’abbiamo avuta (…) La parola della Torah si rivela solo a colui che l’ama. E noi abbiamo cercato di parlare di libri senza amore e per irrisione (…allo stesso modo il cancro manipola e crea) cellule mai viste e senza senso, o con sensi contrari al senso giusto. Ci dev’essere un senso giusto, e dei sensi sbagliati, altrimenti si muore” (ivi, pp.445-7). Elencare analisi e notizie non ha dato morale alla favola. L’irrazionale male resta indomato, come già in Thomas Mann, non rivela quel che doveva, l’enigma della vita, diceva Faust. Ma Dante e tanti altri hanno avuto risposte: chiedevano con speranza, Eco accerchiato lo riconosce.

Cavallo brado era il linguaggio; non lo si poteva domare riponendolo in files. Il Logos dice l’intero, il mondo dell’uomo in tutte le sfumature perché ascolta ed esprime, la dolcezza e perdizione, l’inguaribile e maledetta pesantezza: indica la luce quando c’è la sgroppata e la caduta, l’evento della vita. Umberto Eco in due gialli ha mostrato due diverse volontà di affabulazione, prima il dominio dell’enigma delle passioni tra i libri, poi la ricerca per trovare il nome dell’enigma insolubile dell’eterno tentatore, che trasforma sempre il reale in Caso.

Eco ha sceneggiato l’incontro col diavolo, per darne il nome, in un wargame di possessioni e sette, a metà tra Far West e Palinsesti, Cartapecore e Grandi Vecchi nel gran volteggiare di cappe e croci. Ne risulta una teoria della cospirazione – CHI detiene il potere organizza il mondo come lo spirito di Laplace, abolisce il Caso dandogli forma – visto che a domanda giusta oggi (dice Popper) non è quella del perché e del chi ma del come: ecco, dai files viene fuori che il come è chiaro. È il Potere dell’affabulazione (oggi si dice story telling): cioè: “se inventando un Piano gli altri lo realizzano, il Piano è come se ci fosse, anzi ormai c’è” (p.490). E allora va detto che “Bembo così aveva creato il principio di realtà” (p.417). Bembo si è divinizzato, è autore di sé stesso nel Grand Jeu del Globe.

Intellettuali che non credono in nulla, muovono nel mondo vuoto di credenze. Ciò trasforma in scherzo l’interpretazione e l’azione conseguente. Pur di evitare il procedere discontinuo della storia con una fede, s’inventa una qualsiasi filosofia della storia. Il pendolo diventa l’organo di questa maledizione che individua l’Onfalo, l’Ombelico del mondo, il Luogo privilegiato del Cosmo ove avverrà l’incoronazione del Re del Mondo, se infine giungerà al luogo fatale: ciò indicano menhir, obelischi, statue dell’isola di Pasqua: e perché no, Statua della Libertà e Tour Eiffel. Eco ridacchia con gli ‘scopritori del marchingegno – che, però, si rivela VERO.

Perché comunque sono riusciti ad avere un segreto. Ed ecco che il mondo comincia a ruotare nel fumo d’una nebbia, sogno e meraviglia, e si conforma al VERO. Bembo cade, vittima sublime e sacrificale del suo stesso sogno. Casaubon, il terzo cavaliere, il sopravvissuto narrante che aveva trovato per esorcismo l’erba scacciadiavoli (pp.345-6): la donna, il figlio, il sapore di pesche / maddalene, la chiave del Regno (p.508) – non è stato trattenuto a lungo in questo “essere così vuoto e fragile” (p.493) e torna alla caduta libera, alla leggerezza del significato.

Al di là del vestito da Grand Guignol di Ruschdie, il Tentator loquace di Eco recupera l’immaginario collettivo in un fitto gioco di sadismi e satanicherie, con mille colori medievali, con tante tante parole per dirlo. Non c’è in questa lunga via la ricerca appassionata e acuta di Proust, Musil, Joyce, Woolf, di riscoprire il valore della parola.

Divertimenti nichilistici, scherzi della disperazione, delineano questa parola fine a se stessa che è una nuova Orgia, insensata ed impudica, spensierata e cattivante, che chiede bagni di sangue più ancora che di vino, per sentire ancora un po’ del dimenticato gusto della vita.

Scrivere tanto più che una ricerca è la bandiera del filosofo semiologo, che ha raggiunto la sua conclusione: la verità non si raggiunge con “il sogno della scienza, che di essere ve ne sia poco, concentrato e dicibile, E=mc2. Errore. Per salvarsi sin dall’inizio dell’eternità è necessario volere che ci sia un essere a vanvera. Come un serpente annodato da un marinaio alcoolizzato. Inestricabile. Inventare, forsennatamente inventare, senza badare ai nessi, da non riuscire più a fare un riassunto. Un semplice gioco a staffetta tra emblemi, ma che dica l’altro, senza sosta. Scomporre il mondo in una sarabanda di anagrammi a catena”(p.416).

Ma affabulare si può senza un senso? Dai files di Bembo deriva solo l’angoscia del leggere, una gran confusione per nulla – o meglio per niente. Perché il nulla è una cosa seria, dicono gli orientali, è il tutto da cui viene ogni cosa, il mistero fecondo, che però ovviamente non può essere rivelato da Satan, né dal Pendolo di un aut aut che non sa costruire. Andando sempre avanti per questa via non si trova che il mixage, come appunto accade nello story telling. I grandi narratori sanno esprimere l’unità, il loro vero, una sola parola racchiude il senso di un’opera filosofica, diceva qualcuno, è la chiave d’oro per capire. Quando Arimane, il nemico di Zarathustra, si asside potente nel suo odierno trono, rivela nel silenzio il suo nome, il vuoto del senso di mille parole.

Il nichilismo così si ripropone all’interno del linguaggio, nella perdita di senso della parola: non resta che offrire sacrifici a Mitra o a Baal. Marte più che Dioniso domina la nuova faccia del niente.

 

[1] Eco, Ruschdie e dintorni, in “Il Cristallo”, XXXII, 1990, 2, pp.59-66 – Umberto Eco mi inviò un libretto che pubblicava per gli amici. Qui ne riprendo il tema: ma il libro chiave per me, oltre ai filosofici, è La Misteriosa fiamma della regina Luana, in cui Eco riflette da par suo sull’immagine.

W editoriale 2-16 Umberto Eco

Un costruttore di Pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro.

di Francesco Villano

Aldo Moro
Aldo Moro

Il libro così intitolato, scritto dal Prof. Gennaro Salzano ed edito da Guida nel 2015, fa riferimento ad una fase della politica estera italiana, che va dal 1969 al 1974, e ad un grande statista, Aldo Moro, che di quella fase, in qualità di ministro degli esteri, a parte la parentesi di Giuseppe Medici nel secondo governo Andreotti, fu l’indiscusso protagonista. Un periodo in cui il nostro Paese dimostrò di avere la “schiena dritta”, in particolare rispetto alle due superpotenze, gli Stati uniti e l’Unione Sovietica; una fase della storia recente che ci vide all’avanguardia nella ricerca, formulazione e attuazione, per quanto possibile, di una nostra, indipendente e “originale” politica estera, in particolare per quanto riguarda il Mediterraneo e la Palestina. Un agire ispirato sia dai più alti valori della nostra tradizione culturale, cristiana e laica, e sia dall’interesse nazionale. Una politica caratterizzata non da un continuo braccio di ferro, da un costante contrapporsi, ma dalla ricerca del bene comune, della prosperità e giustizia per tutti i Paesi, in un clima di crescente fiducia e rispetto reciproci, in una fase della storia mondiale caratterizzata tra l’altro dalla fase finale della decolonizzazione e acquisizione di sovranità da parte di tanti Paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Come ci ricorda l’autore, il periodo della permanenza di Aldo Moro alla Farnesina vide la sua fase più critica nell’ottobre del 1973, con due eventi cruciali per gli equilibri internazionali. Il primo: dal 6 al 25 ottobre si ebbe la cosiddetta guerra dello Yom Kippur, o dell’espiazione, perché scoppiata nel giorno del perdono, una delle più importanti feste religiose del popolo ebraico e che vide l’Egitto e la Siria aggredire Israele, in quello che sarà il quarto conflitto arabo-israeliano, a partire dalla fondazione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 maggio del 1948. Il secondo, direttamente conseguente al primo: il 17 ottobre i Paesi produttori di petrolio (OPEC), con l’Arabia Saudita in testa, decisero di aumentare il costo dell’oro nero, fino a quadruplicarlo, e di attuare un embargo verso quei Paesi che sostenevano Israele nella guerra in corso. Il petrolio divenne un vero e proprio strumento di pressione nel conflitto in atto, ma determinò anche una nuova presa di coscienza nei Paesi “consumatori”, che si accorsero improvvisamente che il combustibile del motore del loro sviluppo economico e industriale era in mani ostili. Moro, in tale frangente, impresse alla politica italiana notevoli impulsi, tali da marcare una posizione nettamente autonoma rispetto all’alleato americano (giova ricordare che l’Italia era ed è un membro della NATO, dell’Alleanza Atlantica), sì da darle un ruolo centrale nello sviluppo del successivo dialogo con il mondo arabo e soprattutto una strategia che rese il nostro Paese uno dei più acuti protagonisti del dibattito sul futuro del Medio Oriente. In realtà Moro si poneva alla sequela di una linea politica filo-araba e mediterranea che era stata già caratteristica di Amintore Fanfani, uno dei padri della Democrazia Cristiana e grande statista della prima repubblica, ma che aveva capisaldi politici e culturali in Giorgio La Pira, Enrico Mattei e Giovanni Gronchi. La Pira, il celebre sindaco di Firenze che negli anni cinquanta, oltre ad aver fondato la prima Amicizia Ebraico Cristiana d’Italia, organizzava, profeticamente, gli ”Incontri mediterranei”, dove intellettuali, giornalisti e politici, sia di diverso orientamento che di diversa nazionalità e credo religioso potevano incontrarsi e discutere. Quindi si sperimentava anche un dialogo interreligioso ante litteram, ben prima degli esiti del Concilio Vaticano II (1962-1965), ed in particolare della Dichiarazione Nostra Aetate, pietra angolare del nuovo corso della Chiesa Cattolica rispetto non solo agli ebrei, ma a tutti i seguaci delle altre religioni. Enrico Mattei, il “padre” dell’ENI, che tanto si era battuto per rompere la logica neocolonialista attuata dalle ”sette sorelle” a discapito sia dei Paesi arabo-islamici produttori di petrolio, sia dei nostri interessi nazionali. Ancora oggi, in Iran, grande è la stima del nostro “ingegnere”. Giovanni Gronchi. l’ex presidente della repubblica, fondatore della D.C. e leader della corrente di sinistra del partito. Bisogna ricordare anche che quelli sono gli anni della nascita dei grandi movimenti pacifisti in occidente, gli anni che avevano appena visto l’azione profetica di Papa Giovanni XXIII e quella carismatica di John Fitzgerald Kennedy, gli anni in cui Paolo VI emanò l’enciclica Populorum Progressio (1967), sul sottosviluppo ed emancipazione del terzo mondo. Il problema della pace e della cooperazione tra popoli, civiltà e culture nel Mediterraneo, ma non solo, era, in quel periodo, al centro dell’attenzione della parte migliore dell’intelligenza cattolica. A questo filone di idee, a questa matrice politico-culturale Moro apparteneva pienamente, per formazione e convinzione. Inoltre questa visione si sposava completamente con la sua concezione dell’area mediterranea con la quale, attraverso una serie di viaggi, aveva iniziato a tessere una fitta rete di rapporti, con alti e bassi (esproprio dei beni italiani in Libia) sin dal 1970. Egli auspicava una comunità solidale tra i Paesi delle due sponde (Nord-Sud), che facendo corpo unico con la Comunità europea, si inserisse nella dialettica, nella contrapposizione tra Est e Ovest, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, cifra della guerra fredda. Contrapposizione che tendeva, spesso riuscendovi, a determinare le sorti, le aspirazioni, le aspettative di buona parte dei Paesi del mondo. Si doveva avere la forza e la determinazione di portare avanti e promuovere tale rivendicazione all’interno dell’Alleanza Atlantica, quindi non come opposizione ad essa, ma come allargamento della visione geostrategica della stessa. Nel discorso che fece all’ONU, alla XXIV sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è esplicitato chiaramente il punto di vista di Aldo Moro, in quella che fu definita: “la dottrina italiana per la pace”: “…la costruzione della pace non può più, infatti, ridursi al controllo dei conflitti armati, ma comporta anche la progressiva eliminazione di squilibri economici, sociali e tecnologici che operano come fattori di instabilità e di disordine nella vita internazionale. Ritengo che, partendo da questa concezione integrale della pace, si dovrebbe promuovere un rafforzamento delle Nazioni Unite, sul piano istituzionale, organizzativo e metodologico”. Insomma, un altro protagonista della politica mondiale che andasse ad affiancare le due superpotenze. Parallelamente a ciò, in un periodo storico che, mutatis mutandis, sembra per tanti versi una fotocopia di quello che stiamo tuttora vivendo, egli auspicava l’indispensabile unità politica dell’Europa, l’unica che potesse dare la forza di attuazione ad un’autonoma visione geostrategica. La forza economica, da sola, non portava e non porta lontano! Ed ancora, come ci ricorda Salzano: Moro, con grande lungimiranza, quasi capacità profetica, richiamava l’attenzione sul fatto che non si sarebbe mai potuto avere un’Europa sicura senza un Mediterraneo sicuro, e quindi senza un accordo con il mondo arabo. Concretamente si trattava di indire una Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo, sì da far riprendere a pieno ritmo, così com’era accaduto per secoli, i contatti e i traffici tra i popoli delle diverse sponde di questo mare. Non ci dimentichiamo che fino alla scoperta dell’America e poi con il successivo spostamento del baricentro politico dell’Europa verso il centro nord del continente, le due sponde del Mediterraneo avevano condiviso per secoli un comune dato antropologico.

Si evince facilmente come tali posizioni andassero a scontrarsi con la linea politica portata avanti dagli Sati Uniti ed in particolare da Henry Kissinger, prima come Consigliere per la sicurezza nazionale e poi come Segretario di Stato dei presidenti Nixon e Ford. Il suo privilegiare costantemente lo scontro, il confronto frontale delle posizioni, nella logica dei blocchi contrapposti era alquanto lontano dalla ricerca dei punti di convergenza e dialogo dell’agire di Moro. Dal 1973 in poi il conflitto assumerà dei toni accesi e la scintilla sarà data dal rifiuto italiano di concedere le basi italiane della Nato per far attuare un ponte aereo che permettesse di rifornire Israele. Per chiarezza e completezza bisogna ricordare che il conflitto con gli americani riguardava sì la diversità di vedute ed azioni per il Medio Oriente, ma anche e soprattutto aspetti della politica interna al nostro Paese: il dialogo con la seconda forza politica italiana, il Partito Comunista, con il quale invece Moro riuscì a stabilire un’unità di intenti nell’agire dell’Italia in politica estera, sia per quanto riguarda il Medio Oriente ed il Mediterraneo, sia per la nuova presa di coscienza che stava maturando rispetto al popolo palestinese e che prese la denominazione di: “Questione Palestinese”, al centro della quale c’era la richiesta di attuazione, fino ad allora sempre disattesa, della risoluzione ONU n° 242 del 22-11-1967, con la quale si intimava allo Stato di Israele di ritirarsi dai Territori Occupati con la guerra dei sei giorni del giugno del 1967. L’Italia riconosceva in questa non attuazione una delle cause della guerra in corso. La posizione dell’Italia era mediana rispetto al conflitto. Né a favore, né contro l’uno o l’altro dei contendenti, ma operante “nel mezzo”, per una ricerca di una pace giusta. Oltre a dissentire da questa strategia, per Kissinger e soci il timore più grande era rappresentato da un eventuale ingresso dei comunisti al governo, cosa che andava assolutamente evitata!

Proprio Kissinger, come ci ricorda Salzano, in un ricevimento a Villa Madama svoltosi in quel periodo, ebbe a dire: ”Dovrà forse venire il giorno in cui sarà necessario convocare l’ambasciatore Volpe e dirgli: caro Volpe è giunto il momento di inviare un generale al posto tuo?” Un’affermazione da non prendere assolutamente sottogamba, dato che a farla era chi aveva sostenuto in Cile la fine dell’esperienza del governo socialista di Salvador Allende (con la sua uccisione), l’11 settembre sempre di quel fatidico anno, il 1973. Kissinger più di una volta aveva sottolineato le affinità tra la situazione cilena e quella italiana. E’ del 1974, invece, dal ritorno dagli Stati Uniti dove aveva accompagnato il Presidente Giovanni Leone, una confidenza fatta da Moro alla signora Eleonora, sua moglie, (testimoniata da quest’ultima alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio del marito), sul tenore della quale, di cui il marito non le precisò l’autore, c’è da rabbrividire: “Onorevole lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare quella cosa o lei la pagherà cara”. Del resto Kissinger riteneva Moro un eterodosso dell’atlantismo oltre che uno troppo amico dei comunisti!

Queste sintetiche considerazioni sul pregevole lavoro del prof. Salzano, che mi ha molto arricchito, sono solo degli spunti di riflessione che ovviamente rimandano alla lettura del testo, denso per quantità e qualità di temi trattati (vedi tra l’altro i capitoli su: “il dibattito parlamentare sulla guerra”, che ci da uno spaccato della vivace e variegata realtà politica italiana del tempo; e su: ”l’Europa nel dibattito sulla guerra dello Yom Kippur”, che evidenzia il proporsi dell’idea di Moro di un’Europa come terzo polo politico sullo scenario mondiale). Nella seconda parte del libro vi è un’Appendice nella quale sono raccolti, tra l’altro, alcuni dei più significativi discorsi tenuti da Aldo Moro nel periodo in questione.

GF recensioni VILLANO Un costruttore di Pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro.