CAPOLAVORI? Il tempo dell’Iconic Turn

di Gily Reda

Una mostra del 2010 (recensione in Wolf IX, 9)

Fountain, R. Mutt 1917 (Marcel Duchamp)
Fountain, R. Mutt 1917 (Marcel Duchamp)

Tutti conoscono Fountain, l’opera presentata, a firma di «R. Mutt 1917» (Marcel Duchamp), alla mostra che la Society of Indipendent Artists aveva organizzato al Grand Central Palace di New York. Non fu accettata; eppure il suo allora anonimo autore, Marcel Duchamp, era tra i fondatori della società. Da allora, molte sensibilità si sono intrecciate intorno all’oggetto: che pure fu esposto alla Mostra di Ravello del 2006, in una mostra organizzata da Achille Bonito Oliva. Esposto in similare, non in originale – l’originale era andato perduto, rottamato da chi smontò la mostra, non identificando l’opera come arte – un giudizio che poi fu confermato da De Crescenzo nella notissima battuta in proposito di Bellavista, un film divenuto un cult: si commentava che nell’ipotesi di un ritrovamento tra le macerie, dopo secoli, dell’antico rudere – chi avrebbe capito ch’era opera d’arte? La battuta torna in mente quando si vuole definire cosa sia un capolavoro: lo ha proposto la mostra estiva al Beauburg di Lione, dal titolo: Capolavori? Qualche spinto di riflessione si può trovare in un’intervista rilasciata al “Manifesto” da Arthur Coleman Danto a Giuliano Battiston nel 2007 (in rete) ci aiuta con un parere rilevante. Danto è un filosofo analitico che si occupa di estetica, è il critico d’arte di “The Nation”, è vissuto a New York negli anni Sessanta, nella Manhattan di Andy Warhol, Robert Rauschenberg e John Cage. Molto vicino agli artisti ed artista lui stesso, delinea una estetica basata sulla tesi della fine dell’arte; il suo libro più famoso è La trasfigurazione del banale (tr.it. L’abuso della bellezza, Laterza). Nell’intervista racconta di essere stato giovane frequentatore del Museo di Detroit, con la madre; si appassionò tanto dell’espressionismo astratto da trasferirsi a New York, e vi espose con successo – ma poi preferì lo studio della filosofia. Perché inizi. A riflettere sull’arte, vedendo su “Art News” un fumetto di Roy Lichtenstein – giudicato come un’opera d’arte – questo shock lo portò a riflettere che l’arte non dipende dal suo oggetto, visto che sono due oggetti diversi, un fumetto e un’opera d’arte, ma la duplicità dipende solo dal modo di considerare la stessa cosa. Idea certo condivisa da Andy Warhol. Un oggetto d’arte può essere ogni cosa, se considerata nella giusta cornice. Dagli anni ’60 la tradizione d’arte si dissolve nella contemporaneità – quella appunto iniziata da Duchamp, inventore del ready made, che trasforma in opere oggetti comuni – trasfigurando il banale grazie al modo di pensarlo. Quel che in Duchamp era la rivoluzione grazie ad una intuizione, in Warhol è già coscienza della fine dell’arte. Danto giunge a questa definizione negli anni ’80: dopo una visita al Whitney Museum definisce la fine dell’idea di progresso nell’arte, il rifiuto che il futuro superi il presente; non serve dare giudizi di valore, basta pregiare gli artisti e argomentare il senso dell’opera presente, senza pretendere una definizione d’arte. Danto si definisce filosofo dell’arte, rifiuta l’estetica perché individua virtù tossiche nel bello (e nel sublime) come pensato dalla letteratura ottocentesca. La storia dell’arte finisce con le avanguardie, prima all’inizio del ‘900, poi col riflusso degli anni ’60. Conta l’arte fredda, che non esprime e non appare:un disegno espressivo e comunicativo, che studia oggetti d’uso comune, sperimenta e ricerca. Se l’arte si pensa come mimesi capacità di indicare un ideale, denuncia da sé la sua povertà, non porta alla bellezza; l’arte intellettuale di Duchamp non chiede appagamento sensoriale, salta in avanti rifiutando la tradizione; ciò prepara la filosofia dell’arte di Danto, che indica nell’arte “caratteristiche pragmatiche, in contrasto con le semantiche”, che risultano allo sguardo fenomenologico, un romanzo della coscienza hegeliano che è una polemica costruzione d’arte – è vero che l’avanguardia fece lo stesso, ma è ormai vecchia: qui si attua “l’esperienza della bellezza (che) può essere opzionale per l’arte, ma per la vita è una necessità. Anche questo libro è necessario, proprio come la bellezza.” Nel presentare la traduzione italiana del lavoro di Danto, si argomenta questo percorso dell’oggi: “Un secolo fa, la bellezza era considerata quasi all’unanimità lo scopo supremo dell’arte e persino sinonimo d’eccellenza artistica. Tuttavia, oggi la bellezza è vista come un crimine estetico e gli artisti sono spesso messi all’indice dai critici se le loro opere sembrano mirare al bello. Negli anni più recenti, alcuni artisti, critici e curatori hanno iniziato a considerare la bellezza sotto altri punti di vista. La discussione che ne risulta è spesso confusa, con eruditi che guardano talvolta alla bellezza come ad un tradimento del ruolo autentico degli artisti, altre volte si lavora duro per trovare la bellezza in ciò che apparentemente è disgustoso o grottesco. Il critico d’arte e filosofo Arthur Danto spiega, in questo libro, come sia stata messa a punto la ribellione contro la bellezza e come l’avanguardia modernista l’abbia spodestata. Danto sostiene che i modernisti avessero ragione a negare che la bellezza fosse vitale per l’arte, ma è anche vero che la bellezza è essenziale alla vita umana e che non fosse necessario escluderla per sempre dall’arte”. La strada del nuovo si presenta quindi dal ripartire dall’immagine, quel che Belting chiama Iconic Turn. La volta dell’immagine consiste nel ripartire dalla bellezza, dal suo valore pragmatico, affettivo, simbolico, dalla sua capacità di comporre il mistero dell’indicibile in verbis – o in figure. Oggi e sempre l’immagine fonda nel gusto; le sperimentazioni, le ricerche, hanno senso se sanno suscitare condivisione sulla bellezza che l’opera costituisce in forma, in evento dell’arte. Il gusto non può identificarsi col mercato d’arte, il committente che si è sostituito al mecenate, accentuando la sua prepotenza commerciale. Il mercato non coincide col gusto, le aste possono consacrare mercantilmente opere, che il senso comune seguita a non accettare, che non assumono perciò lo statuto di capolavori. La misura dell’arte sta nel costante legame dell’artista al gusto – che non è quantitativamente la parte prevalente del pubblico, ma qualitativamente; il gusto decreta la bellezza di un’opera, a volte stenta a farlo subito, quando l’opera è davvero originale, ma c’è sempre in esso una capacità innovativa che nel tempo impara a decrittare la nuova idea di bellezza che si presenta in qualcosa che eccede il suo tempo; e il giudizio di bellezza nel mondo del gusto ha queste varie armonie, che almeno in parte si accorgono delle dimensioni del futuro – della bellezza – anche se l’arte e la storia dell’arte possono essere oggetto di critiche e sviluppo, la bellezza si presenta sempre con una sua prepotenza nella valutazione del gusto. L’artista non lo ignora, e quando crea muove da un colloquio perenne, da una comunicazione cui aspira, anche quando la difficoltà che lo suggestiona è troppo in là rispetto al suo tempo. Altrimenti, il narcisismo predomina – e la bellezza si allontana. Se è sempre un valore condiviso, un riconoscimento che accomuna un mondo di amanti della bellezza, nel compiacimento che si avverte intorno ad una misura riuscita, ad una forma compiuta. Che non è presenza, non è apparenza, non è imitazione – è l’infinito dell’arte, un predicato, un giudizio che mostra la sua perenne funzione nello schiudere senza svelare.

Parlare di capolavori? – una parola, si apprende proprio parlando di questa mostra, scomparsa dai dizionari d’estetica – è segnalare lo stato della questione. Che è un questione di sostanza, perché se non si può definire il capolavoro, l’evento della bellezza, c’è da dubitare del criterio sulla base della quale si fanno le scelte degli artefatti da mettere in mostra – come fare storia della filosofia senza sapere di filosofia – qual è il criterio che guiderà la scelta? Cosimo Laneve parla di formazione ai beni culturali sottolineando come, se nella dizione rientra molto del patrimonio culturale dell’umanità, non tutto e solo mondo della bellezza, ma della cultura, dell’antropologia e via dicendo: occorre poi fare spazio alla bellezza, alla grande arte, nel progettare questa formazione. Il capolavoro, diceva Heidegger, restituisce il quotidiano a se stesso. Le scarpe del contadino rotte e consumate, ritratte da Van Gogh, sono un oggetto disprezzabile, se considerato nella loro realtà oggettuale, pronte per la pattumiera. Ma se invece si ragiona su quelle scarpe pensando all’origine dell’opera d’arte, si scopre che se incatenano l’attenzione di chi guarda il quadro di Van Gogh è perché, coi suoi colori e le sue enfasi, il genio è ruscito a renderle istante rivelatore, una pausa nella storia e nel progresso, un silenzioso avvicinarsi alla terra ed alla quadratura cosmica cui essi alludono, col pieno di operosità e consumo, col sole e la fecondità cui esse hanno assistito – assumendo la loro vecchiaia, la loro consunzione, come un segno, come l’impronta della storia. La grande arte: un riflettore che apre il silenzio introno ad un punto della scena del mondo; che sa convincere ad assistere al mistero, a meditare, a porsi in un difficile esercizio spirituale di avvicinamento al mistero, al disvelamento: ognuno allaccia un suo percorso di riflessione, conquista un altro orizzonte, si sottrae al quotidiano, cammina sull’abisso dell’ontologia. L’opera d’arte schiude il senso dell’essere. Senza la grande arte, sappiamo vedere la bellezza? Colpisce la natura, il sole, la figura dell’amato: ma cosa ci porta a dire queste cose belle, a parte il nostro semplice piacere di godere queste cose? Può, quindi, sopravvivere l’arte, se cancella dai suoi vocabolari il termine capolavoro? È quel che svela il senso della bellezza – la definizione può essere superflua: ma il suo senso?

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