Croce ed Einaudi

di Carlo Augusto Viano

Nel 1950 Einaudi ricordava che il primo a parlargli di Croce era stato Salvatore Cognetti de Martiis, che lo aveva descritto come un “erudito meraviglioso e infallibile”. Ma il primo incontro avvenne a Torino. nello “squallido ufficio” che Einaudi aveva alla “Gazzetta piemontese”. La prima lettera di Einaudi a Croce è del 1902 e avvia lo scambio tra la “Critica” e la “Riforma sociale”. Poi si parla dì libri, degli incontri torinesi di Croce. di storiografia economica, di marxismo, e c’è qualche suggerimento a Croce, diventato ministro della Pubblica istruzione nel governo Giolitti del 1920-21. Soltanto il 27 ottobre 1928 una lettera di Croce avvia la discussione su liberalismo e liberismo.

Sulla “Riforma sociale” Einaudi aveva discusso la tesi crociana, esposta tra il 1927 e il 1928, che il liberismo è l’applicazione della libertà in un campo specifico, mentre il liberalismo è l’affermazione della libertà in tutti i campi: pertanto il liberismo non può diventare una «legge suprema della vita sociale» senza generare un conflitto con il liberalismo, perché non ci possono essere due leggi supreme. Il liberismo elevato a regola suprema sarebbe diventato una «illegittima teoria etica,… una morale edonistica e utilitaria… che è poi… la soddisfazione del libito individuale». Il liberismo economico potrebbe essere vantaggioso, ma provvedimenti che i teorici dell’astratta economia classificano come socialisti potrebbero essere introdotti in un regime liberale e si potrebbe parlare di un “socialismo liberale”.

Fino a un certo punto Einaudi era d’accordo, perché anche lui considerava il liberismo una «regola empirica», cui indebitamente gli economisti avevano dato, spesso inconsapevolmente, valore di legge. Ormai però tutti riconoscevano che l’economista sceglie la soluzione che nelle condizioni date sia «la più adatta a raggiungere certi fini che possono essere economici, morali, demografici, politici, fini la cui graduatoria deve essere stabilita sulla base di una data concezione generale della vita».

Nella lettera del 1928 Croce mostrava una condiscendente soddisfazione per il riconoscimento della superiorità della sull’economia e non dava segno di avvertire la sottile ritorsione di Einaudi: quando mai gli economisti si erano proposti «il procacciamento dei beni materiali»? domandava Einaudi. Gli economisti, da Smith a Marshall e oltre, erano mossi da ideali morali, come lo erano pedino i popolarizzatori tipo Bastiat, l’unico di cui Croce facesse il nome, di solito però gli economisti non stabiliscono principi e lini, e si limitano a mostrare che certi mezzi sono inadeguati per raggiungere í fini che i politici sí propongono: in questa funzione il liberismo era stato particolarmente efficace nel mettere in guardia i politici contro i mali del protezionismo.

Croce non avvertì le riserve dí Einaudi sulla sua interpretazione dell’economia, e nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 affermò, tutto compiaciuto, che la “Critica” aveva ispirato tutto quanto di concreto sí era fatto allora in Italia nella filosofia dell’economia. Einaudi ci rimase male e osservò che la filosofia crociana dell’economia con l’economia c’entrava poco, perché gli economisti si astenevano dal fare filosofia in pubblico, e se, come Pareto, ne facevano, non tenevano conto delle teorie crociane. Croce aveva costruito la propria filosofia dell’economia confrontandosi anche con Pareto. Come lui aveva sostenuto che il marxismo era una teoria economica sbagliata, non ricuperabile risalendo alle sue matrici hegeliane, come pensava di fare Labriola. Quella di Marx era una regola per cogliere nella realtà storica il momento economico, che è perseguimento dell’utilità, cui mira la politica, intesa come forza: in questo senso Marx era il nuovo Machiavelli. Anche Pareto svincolava l’utile da giudizi morali, ma facendo dell’utilità una grandezza misurabile e costruendo una “meccanica” delle relazioni economiche. Per Croce ci voleva invece una teoria filosofica che facesse dell’utilità l’«oggetto di una volizione», e non una grandezza da misurare.

A Pareto si era rivolto Einaudi nel 1897 per perfezionare i calcoli contenuti nel suo studio sulla Distribuzione della ricchezza nel Massachusetts, poiché riteneva di avere trovato un riscontro alla curva paretiana della ripartizione della ricchezza. Pareto gli aveva suggerito di ricavare una curva dai dati che aveva raccolto, ma Einaudi aveva trovato la cosa troppo difficile. Nella Rendita mineraria del 1900 Einaudi si cimentò ancora con analisi marginalistiche e Pareto, in una recensione positiva, rilevò alcuni errori teorici. Anche Einaudi, come Croce, messo di fronte alla teoria economica, si ritirò. Pareto aveva raccontato la resa di Einaudi di fronte alla matematica a Giovanni Vailati, che avrebbe recensito gli Studi sugli effetti delle imposte del 1902. Ne apprezzava l’impostazione metodologica, che attribuiva all’economia il compito di accertare gli effetti di provvedimenti economici, e sperava che Einaudi si sarebbe dedicato alla «scienza pura», lasciando perdere il giornalismo.

Vailati, allievo di Giuseppe Peano e studioso di logica e filosofia della scienza, forse si augurava che Einaudi trovasse in Pareto gli strumenti per liberarsi dall’«ammasso di cretinerie e di nonsensi» che — scriveva a Pareto — aveva trovato in uno scritto di Loria. Einaudi non gli diede retta e non abbandonò il giornalismo. La sua “militanza” lo aveva portato a collaborare, oltre che alla “Gazzetta piemontese”, alla “Critica sociale di Filippo Turati. Le idee socialiste erano di casa nella cultura torinese, da Peano a Cognetti de Martiis, che aveva iniziato Einaudi agli studi economici. Cognetti de Martiis era un positivista e non era attratto dalla nuova economia marginalistica, ma era molto interessato a indagini concrete sui modi nei quali si organizzava il lavoro nelle società industriali. Nel 1893 aveva fondato a Torino il Laboratorio di economia politica, in cui si conducevano inchieste sugli scioperi, sulle otto ore, sul contratto di lavoro, sulle malattie nervose dei lavoratori, su salari e prezzi, sul lavoro femminile. Qui Solari, che aveva esordito con una ricerca sui Salari e i prezzi in Italia, negli Stati Uniti e in Inghilterra, avrebbe incontrato Einaudi, che pubblicava La distribuzione della proprietà a Dogliani, L’esportazione dei principali prodotti agrari dall’Italia dal 1862 al 1892 e La crisi agraria. Il giovane Einaudi, che apprezzava l’impostazione storica di Achille Loria e le posizioni degli economisti protezionisti tedeschi, non mostrava allora nessuna simpatia per la dottrina liberistica e sosteneva che si adottano pratiche liberistiche protezionistiche secondo gli interessi dei gruppi dominanti.

Paradossalmente la “Critica sociale” fu il luogo in cui Einaudi diede inizio alla polemica contro il protezionismo. Non che fosse diventato un teorico del liberismo , perché usava schemi liberistici per mostrare gli effetti perversi del protezionismo. Ma il prudente liberista pragmatico non nascondeva la preferenza per la proprietà terriera diffusa per I impresa industriale non troppo grande, l’avversione alla nazionalizzazione delle ferrovie e alla partecipazione dello stato agli utili delle imprese, l’interesse per lo sviluppo di un proletariato che non nascesse dalla degenerazione del ceto contadino. Tutte cose che andavano al di là degli umili compiti che Einaudi assegnava agli economisti sotto la superba sovranità dei filosofi di stile crociano.

Nel 1950 Einaudi avrebbe detto che soltanto Labriola e Croce, protagonisti, accanto a Bernstein e Sorel, della «autocritica del marxismo», avrebbero aiutato gli economisti a liberarsi dalla «analisi teorica raffinata, in cui Loria eccelleva»; ma era vero? Non fosse stato per gli ostici numeri di Parete, Einaudi avrebbe sostituito le teorie di Loria con quelle dei marginalisti. La revisione del marxismo era stata una faccenda più grossa dell’erudizione che Cognetti attribuiva a Croce. Però quella revisione mirava a spostare il marxismo dalla teoria economica alla metodologia storiografica; e anche Einaudi, lasciando perdere le suggestioni paretiane, continuava a cercare nella storia, come avevano fatto i suoi maestri economisti, da Loria a Cognetti de Martiis, le indicazioni economiche. Croce, hegeliano, si riferiva alla storia in tutt’altro modo di Einaudi, perché il laboratorio di Cognetti, ospitato in via Po, in locali messi a disposizione dall’Istituto di patologia di Guido Bizzozero e dall’Istituto di medicina legale di Cesare Lombroso, era immerso nella Torino positivistica, in cui, fioriva la cultura scientifica, dalla matematica alla fisica e alla biologia, e da cui proveniva il Vailati che aveva sperato di fare di Einaudi un teorico. Non era la sua strada, ma egli non era neppure coinvolto nella rivolta contro il positivismo, e non ricacciava il sapere positivo nel limbo degli pseudoconcetti, né considerava i fenomeni economici, come quelli politici, pure manifestazioni di forza.

Diventato la personalità dominante della “Riforma sociale”, soppiantando Francesco Saverio Nitti, ne tenne lontana la teoria pura, ma anche l’ideologia democratica e statalistica, richiamandosi al liberismo pragmatico, che aveva incominciato a delineare. Più che i marginalisti lo interessavano i classici dell’economia politica, soprattutto inglese, da Smith a Marshall, con particolare attenzione contro le bardature doganali, contro l’alleanza George: da questa matrice derivava la polemica industria protetta e agricoltura parassitaria. Einaudi estendeva a ogni reddito parassitario la critica ricardiana della rendita e sferzava contro i monopoli, pubblici e privati, per Ricardo, e gli ideali agrari alla Henry Giolitti, colpevole di non smantellare il protezionismo doganale. Lo stato non doveva neppure ridistribuire reddito o ricchezza con le tasse, che dovevano soddisfare al principio di uguaglianza solo evitando che qualcuno, tassato due volte, sul capitale e sul reddito, pagasse più tasse degli altri: era meglio tassare i consumi. E andava al di là dello studio degli effetti, assegnato agli economisti, perché sosteneva che vanno tassati i consumi improduttivi, facendosi promotore di un programma politico.

Su tutto ciò si abbatté la prima guerra inondiate. Nonostante tutto, Einaudi si schierò a favore dell’ingresso dell’Italia a fianco dell’Intesa, ma diventò definitivamente un moralista: nel 1920 raccoglierà gli articoli del periodo bellico sotto il titolo di Prediche. Contrariamente a ciò che pensavano molti interventisti, la guerra doveva rafforzare i comportamenti sani dei tempi di pace: sprecare meno, risparmiare, amare il lavoro, evitare i consunti non necessari. Era uno sforzo estremo per salvare “il mondo di ieri”, un mondo distrutto; ed Einaudi dovette prenderne atto. La guerra, più che la politica fiscale, aveva ridistribuito i redditi, messo il denaro in mani che non sapevano impiegarlo, fatto aumentare i salari, mentre proprietari, impiegati e risparmiatori erano stati sacrificati, e i costumi erano peggiorati. L’economia di guerra, sopravvissuta alla guerra, era la caricatura di un’economia socialista, che liberali democratici e statalisti come Nitti non intendevano smobilitare.

Einaudi non avvertì subito le novità del comunismo e del fascismo, che anzi nel 1922 considerò un movimento liberista: la politica di Alberto De’ Stefani, ministro delle finanze di Mussolini, gli sembrava un buon antidoto alle tendenze di socialisti e liberali democratici. Anche Croce vedeva nel fascismo un freno al socialismo e ai fermenti ereditati dall’interventismo: era insomma un elemento di forza, come la politica deve essere. Nel 1924 Einaudi incominciò a pensare che gli industriali avessero sostenuto il fascismo per tornaconto; nel dicembre in Senato votò contro lo stato di previsione del ministero dell’interno e nel maggio 1925 sottoscrisse il manifesto degli intellettuali antifascisti. Frattanto Albertini dovette lasciare il “Corriere della sera” e De’ Stefani fu sostituito da Giuseppe Volpi.

Il fascismo aveva indotto Croce a immettere nella politica vincoli etici. Per Croce era difficile mettere d’accordo l’idea che il progresso, da lui attribuito alla storia, è un miglioramento etico, con l’interpretazione della politica come forza, non subordinata alla morale, ma dopo il 1924 egli prese a identificare il bene universale, oggetto della volontà buona, con la storia stessa nel suo svolgimento eterno, la storia intesa come libertà e indipendenza da ogni condizionamento. La libertà diventava la manifestazione di uno spirito assoluto e oggetto di una “religione della libertà”. Ma Croce non invocava i “principi dell’89” e il suo era un liberalismo ideale, che non si riconosceva in nessuna forma storica particolare e che, contrariamente alle ideologie socialiste e fasciste, non ammetteva nessun momento finale della storia. Croce non rinunciava però a rivendicare l’autonomia della politica da regole tecniche e principi scientifici.

Einaudi riaprì la discussione del 1928 quando Croce nel 1931 incominciò a pubblicare la Storia d’Europa nel secolo decimonono, in cui sosteneva che un regime liberale non poteva «rifiutare in principio la socializzazione di questi o quelli mezzi di produzione». Per Einaudi era un’ammissione «spaventevole» perché, se è vero che un economista «non può essere mai né liberista, né interventista, né socialista ad ogni costo» e non può nutrire una «concezione religiosa del liberismo», costituita dalla «identificazione dell’interesse individuale e dell’interesse collettivo», tuttavia «giova moltissimo che, di fronte all’andazzo di tutto chiedere allo stato, di tutto sperare dall’azione collettiva, si erga fieramente il liberista ad accusare di poltronaggine l’interventista e di avidità il protezionista». Il liberista diventa una «figura morale», che si erge «nella vita pratica e politica di mille cubiti al di sopra dei suoi oppositori». Adesso Einaudi capovolgeva il gioco: aveva strappato a Croce il riconoscimento che il liberismo non è un principio economico e ne approfittava per farne un avvertimento morale.

Croce era stato imprudente quando aveva detto che il liberalismo potrebbe promuovere la socializzazione dei mezzi di produzione, se il corso storico provasse che il capitalismo e la proprietà privata potrebbero «danneggiare e scemare la produzione della ricchezza». Per Einaudi ciò equivaleva a ridurre il liberalismo a utilitarismo. Nel ’28 Croce aveva sostenuto che il liberismo diventa un principio filosofico generale solo quando si appella all’utilitarismo, e ora Einaudi poteva ritorcere l’accusa contro il liberalismo crociano. Muovendo dal proprio liberismo etico Einaudi tracciava il quadro di una società liberale diversa da quella che aveva in mente Croce. «La libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre… Lo spirito, se è libero, crea un’economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita, capaci di vivere, se occorre, in povertà, ma senza dover chiedere l’elemosina del vivere ad un’unica forza, si chiami questa stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio intollerante delle fedi diverse da quella ortodossa». Finché si trattava di generici schemi filosofici, la subordinazione dell’economia alla filosofia poteva andar bene. Ma ora Croce aveva riscoperto lo stato come forza, che provvede a una chimerica utilità comune, mentre Einaudi additava i pericoli ai quali andava incontro la società moderna con i suoi protezionismi e monopoli, con la formazione di un proletariato urbano potente, con la ridistribuzione violenta di ricchezza e redditi dovuta alla guerra. Non si trattava più di liberismo e liberalismo, ma di due forme di liberalismo.

Einaudi era preoccupato di ciò che accadeva perfino in un paese come gli Stati Uniti, dove «l’assalto odierno rooseveltiano contro la Corte suprema… è indizio di uno stato d’animo il quale non tollera… alcun ritardo all’attuazione di piani economici voluti da un gruppo di uomini, definiti “sapienti” o “periti” e fatti accettare a milioni di elettori dal fascino di un capo… La libertà americana vede le sue sorti affidate non ai parlamenti ma all’esito della lotta fra il conformismo della stampa gialla, della radio… dei diversi spacciatori di ricette sociali… delle vetture automobili utilitarie, della propaganda volontà e simili macchine stritolatrici della volontà umana ed il tenace non conformismo. di uomini che vogliono vivere nella a propria casa’ interpretare da sé la bibbia, creare la propria scuola, sovvenire la propria chiesa dissidente dalle altre, rischiare la vita nella creazione del proprio affare». Si dice spesso che il liberalismo einaudiano era di ascendenza anglosassone. In realtà Einaudi aveva riserve nei fronti della società anglosassone, in particolare di quella americana. Si era sentito vicino al Keynes interprete della prima guerra mondiale e della pace, ma diffidava sia delle sue teorie economiche sia dei suoi programmi di politica economica. Questi ultimi gli facevano venire in mente Roosevelt e i suoi saloni, all’opera in una società prigioniera dell’uniformità di gusti e di giudizi. La crisi successiva alla pace era stata perfino più rovinosa della guerra. Le proposte positive alle quali Einaudi teneva di più, quelle fiscali, sembravano destinate a rimanere lettera morta, dopo che nelle società industriali le esigenze dello stato stavano crescendo e gli stati democratici e rappresentativi avevano bisogno di politiche fiscali ridistributive. Caduta la possibilità di realizzare quella che Einaudi considerava l’«ottima imposta», le idee che l’avevano ispirata si trasferivano sul piano morale. Einaudi aveva ereditato da Mill, Marshall e Pigou l’idea che gli economisti dovessero anche educare i loro concittadini, e avrebbe voluto farlo con un programma fiscale pedagogico, che mirava a frenare i consumi improduttivi e a spingere i contribuenti a comportamenti virtuosi, all’amore del lavoro e al risparmio. La tassazione doveva avvenire non sui redditi reali, ma su quelli imputabili, e doveva così tracciare una specie di società ideale verso la quale avviare i cittadini. Dopo la guerra non smise di rimpiangere e di riproporre un mondo che non c’era più, additando nei modi di vita americani e nelle politiche keynesiane le minacce ereditate dalla pace. E si mise a predicare comportamenti che sarebbero stati eccezionali perfino in tempi più tranquilli.

Per difendersi dalle minacce ideologiche, Croce ed Einaudi si erano forgiati armi ti diverse: Croce tratteggiava il corso generale o della storia servendosi di metafore filosofiche, mentre Einaudi preferiva guardare alle autonome della vita associata e immaginare una società non ancora contaminata dall’urbanizzazione, dalla grande industria, dalla uniformità dei cos consumi su larga diverse: rappresentativa, la scala. Entrambi diffidavano della democrazia rappresentativa, ma guardavano ad alternative diverse: Croce alla grande borghesia meridionale, che aveva dato l’intellettualità all’impresa’ risorgimentale, Einaudi alla borghesia di medi proprietari e di medi imprenditori e agli operai non ancora del tutto proletarizzati, che incontrava nei suoi studi storici e che potevano sembrare gli eredi dello stato cavouriano. Di lontano, sulle riviste, Croce ed Einaudi discutevano su queste cose, con eloquenza e altezzosità il primo, in modo più dimesso ma puntiglioso il secondo. Chissà se quando si incontravano ne discutevano a voce. Sappiamo poco di ciò che si diceva nei circoli torinesi visitati da Croce. L’impressione è che non ne parlassero molto. Parlavano molto di libri, spesso di libri del passato, accomunati dalla passione che poteva sembrare antiquaria. Nel 1931 Einaudi entrò per la prima volta a casa di Croce a Napoli, per sottoporgli un grave problema: doveva giurare fedeltà al regime fascista o rinunciare all’insegnamento universitario? Non è rimasta traccia del consiglio di Croce. In compenso nelle lettere che seguirono tutto l’interesse è per il Breve trattato di Antonio Serra, che Einaudi aveva visto nella biblioteca di Croce e che aveva guardato con avido interesse. La figlia di Croce se ne era accorta e ne aveva parlato al padre, che aveva indotto Benedetto Nicolini, figlio di Fausto, a regalare la propria preziosissima copia a Einaudi. Nelle lettere Einaudi sembra più emozionato per questo dono che per la parole udite da Croce sulla questione del giuramento.

1) in Critica liberale, gennaio 2004, pp. 21-25

GF Viano Croce ed Einaudi