Edgard Morin, Sull’estetica, Cortina 2019

di C. Gily Reda

Morin e Gily al convegno OSCOM sulla formazione estetica, IISF 2008

Da leggere subito la traduzione del libro di Edgard Morin Sull’estetica, Cortina 2019, edito in francese nel 2016, sulla scorta di lezioni alla Maison Des Sciences. Anche OSCOM, nel 2008, pubblicò subito le sue parole sulla formazione estetica (atti del convegno; il testo è in questo numero di Wolf). Come si vede dalla foto, all’IISF Morin disse la sua sul tema, e si commosse pensando all’importanza che nella sua vita ha la musica, come il cinema. Una passione costante che negli anni ’50 pareva un populismo, a sinistra c’era aria di eresia quando disse di gradire i western. L’ha raccontato nell’autobiografia topografica, La mia Parigi, che ricostruisce i milieu del suo vivere, posizionandosi negli appartamenti successivamente abitati.

“L’estetica è un dato fondamentale della sensibilità umana”; conta nella moda e nella poesia, che è anche canzoni, serial, promo… il novantottenne ragazzo ha la passione per il cinema che lo apre alla cultura contemporanea nel suo insieme. La magia della musica sta nel suo sentimento di comunità, ed è anch’essa bella e sublime, non necessariamente ossessiva. Ogni artista vuole la comunità del riconoscimento, perciò occorre combattere la tendenza ad insularizzarsi, dice Morin, con linguaggi esoterici in stretti confini tra artisti e critici – oggi è peggio di sempre, l’arte non si è mai legata ai committenti come ora, per l’esaltazione economica che l’affligge. Così ricade nel vizio dell’arte per l’arte, evitando di saper parlare linguaggi, cioè medium di comunicazione, oltre che di espressione. Legarsi ai committenti e ai loro ordini, era forse meno castrante al tempo dei principi rinascimentali, di quanto lo sia oggi coi critici del mondo delle aste – a loro fa gioco l’incomprensibilità dell’arte, agli artisti non sospinto da demoni lavora in modo più ‘facile’. Ne soffre il fondo sacro dell’opera, il suo potere rivelatore del senso del tempo e della cultura, che rappresenta per l’artista il pericolo della maledizione quotidiana, del non saper addivenire a compromessi. Coltivare questo particolarissimo ‘piacere’ però, disse Kant, significa conquistare un vero e proprio universale, una conoscenza propriamente umana e creativa: il mondo umano l’artista indirizza rendendolo attento a quel che vale, col suo universale diverso, ma di pari rigore scientifico, il giudizio di valore. Cioè la bellezza e il fine.

La bellezza, ricorda Morin, ebbe nell’800 l’urto capitale del riconoscimento dell’importanza del brutto; ma non bisogna sottovalutare che allora nasceva la nuova era, col crescere delle comunicazioni terrestri e della cultura popolare, ferrovie e giornali. Si pensi a Giuseppe Mazzini, che ovunque andava fondava giornali e movimenti politici. Nasceva il tempo della velocità e del quotidiano che poi ha trionfato nel ‘900, con la vittoria dell’istantaneo su ogni altra cosa, donde il privilegio della catastrofe – non a caso Jean Baudrillard, un intellettuale ch’è piuttosto un artista, diede una patente estetica al crollo delle Torri Gemelle, il 9/11 del 2001. Un’Opera d’arte che dice nel modo più chiaro (donde la qualifica di ‘artista’) uno dei problemi dell’oggi, la scellerata confusione tra virtuale e reale… se il virtuale è il lievito della vita, esso rischia di diventare orrore, se si prescinde dai valori umani. Sono essi gli eterni Dei, molto più dei ‘diritti’, direbbero i giusnaturalisti, se potessero rinascere oggi. Il senso del diritto cui essi di appellavano, era in realtà un valore tanto oggettivo da valere come un codice di leggi – ma era solo in realtà uno di quegli indubitabili asserti che la ragione pratica di Kant riconosce in sé.

Le belle arti frequentano la bruttezza di necessità, altrimenti non saprebbero ragionare del bello … la coppia dei contrari qui come altrove va a delimitare il campo delle categorie dell’arte. Ma i problemi estetici sono oggi diventati centrali perché l’estetizzazione del mondo ha camminato veloce mettendo in crisi molte letterature tradizionali, tra cui quella giuridica. Pensare, nel mondo dell’immagine, va per figure, non per parole – ma le parole furono inventate, e poi perfezionate, per evitare confusioni. La figura è ricca, dicevano i trattatisti rinascimentali della memoria, impressiona con marchio indelebile la memoria primaria. Ma da quando nel 1700 la camera oscura, che i pittori adoperavano dal Rinascimento, diventò principio della fotografia, iniziò un processo più chimico che immaginario – e ciò richiedeva una riflessione, ma rispose solo un poeta, Baudelaire. Di lì partì l’estetizzazione del mondo, nel mondo dominato dalla scienza e dall’economia. Frutto, concluse Benjamin quasi un secolo dopo, della riproducibilità tecnica, del moltiplicarsi meccanico delle opere d’arte e delle immagini del mondo. Era nato frattanto il mondo del design, che traduce il gusto dell’artigianato nella produzione in serie, esempio visivo di quel che nel sapere accade col cinema, che fa capire a Bergson il procedere dell’intelligenza rispetto all’istinto; che ha costruito la cultura di massa ch’è di tutti i testi in immagine, la cultura popolare, che vuole istantanea l’intelligenza delle cose. Come sapeva chi inventò la parola, l’istante ignora il significato profondo, se non in soggetti ben preparati.

Tutto ciò è detto in chiave pessimistica del miracolo dell’oggi, se lo si guarda rispetto alle ere passate: solo, occorre esserne degni, cioè capaci di non perdere nell’oceano quel che governava il mare, non mandare perso il timone nella corrente del Golfo, che può impadronirsi della rotta e portare dove non si vuole andare. Mentre le Accademie continuano ad operare con sistemi adatti ad epoche antiche – tanto per dirne una, non c’è un’educazione all’immagine appena al passo coi tempi, nelle scuole e nelle università.

L’estetizzazione del mondo è quel che ha tolto peso alla bellezza, nella sua statura tradizionale: basta leggere qualsiasi testo dei pittori antichi e moderni per vedere quanto siano distanti ad esempio dai Diari di Warhol. Ma non si annulla la Bellezza, solo occorre capirne le categorie diverse, come dissero bene Warhol e Cassirer al principio del ‘900 – ma il territorio resta ancora in attesa del suo Kant. La bellezza nel cinema, in televisione e nella rete, vive di vita labirintica, ben intricata com’è al mondo della complessità – appunto la parola chiave di Edgard Morin dagli anni ’60 del secolo scorso, che ormai è diventata un paradigma, concetto da tutti accettato. Il mondo dell’Uomo inizia dal Logos: dire con Morin che il termine ‘complessità’ è parola problema, cioè indefinibile, disse da sola che era nata una nuova era, i cui campi di specializzazione sono tutti da ridefinire. Si pensi al diritto d’autore, al diritto di voto, all’originalità delle produzioni culturali e via dicendo.

L’uomo si deve sempre occupare del mondo dell’uomo, anche se poi persino dalla fisica viene rilanciato un ‘sistema degli oggetti’ concepito più o meno come fece anni fa Baudrillard, cioè un sistema fatto di consumi invece che di materie… il ‘pettine’ perde, sostenne lui, ogni capacità di districo dei capelli per diventare un oggetto colorato e vincente. Come in economia, così in fisica si dissolve ogni materia: i fisici paiono non accorgersi che sono crollati I Vestiti dell’Imperatore, per dirla con Andersen, e tutti si accorgono che il re è nudo. Ma se quell’astrazione che fonda le fisica, nelle sue tante fasi, fu fatta appunto per dominare il non misurabile, gli ectoplasmi che solo alla fine di processi astratti divennero oggetti; e si riuscì grazie al processo della fisica a conoscerli ed a produrli con facilità… lo stupore di oggi è immotivato. È quello di chi si stupisce dell’esito efficace di uno strumento costruito appunto a quello scopo. Perciò, per capire questo mondo, per seguitare a parlare dei valori, della bellezza in primis, è importante riprendere quest’ottica della complessità, che riporta il cammino al punto di partenza, il caos originario. Di qui, lentamente, il percorso può ripartire, se si intende la lezione.

Il mondo di oggi si capisce nell’interrelazione, nell’intreccio delle competenze. Questo termine, ‘complessità’ è una delle chiavi dell’oggi come quello di intelligenza collettiva, in esso sta lo spazio del problema centrale della confusione dell’oggi tra virtuale e reale. Quando Pierre Levy nel 1995 titolò a questa nuova intelligenza, i computer non erano in tutte le case né i cellulari in tutte le tasche. Morin ebbe però allora e prima di allora a centrare il suo discorso senza tornare una volta di più sul problema dell’Io. Ecco l’importanza di questo libro di Morin oggi, peraltro così ben scritto da essere leggibile nei tempi minimi del lettore di oggi: potrebbe avere un ottimo effetto riequilibratore. Puntare ancora una volta il riflettore sull’Io, come ancora fece l’Intelligenza collettiva… è nell’alveo dei due secoli appena trascorsi, che hanno esaltato e distrutto l’Ego sino a farne un SuperEgo e un SuperUomo che aspira per lo più al suicidio; nel caso che non abbia tendenze omicide. Nato per contestare la religione e i suoi eccessi, l’Io con la maiuscola spaventa tutti, tanto da ridurli a lungo andare al silenzio mistico: sia nelle vesti dell’Io degli idealisti tedeschi, passato da Fichte ed Hegel a Gentile, ma poi nascostamente anche ad Heidegger, Husserl e Freud… in modo sempre diverso – ma sempre in trascendenza ottusa.

Molto opportunamente, invece, il discorso di Morin si spostò subito sulla complessità, evadendo anche il cosmo marxista, su una linea battuta allora solo dai costruttivisti – ancora privi di questo nome unificante e chiarificante. Ciò interrompe la domanda sul perché –che è la domanda più vera dell’Io – ma solo dell’Io – che agisce sempre per un fine, sceglie il suo scopo. La complessità pone invece la domanda nel labirintico presentarsi della Vita: la domanda che inizia nel Rinascimento, per orientare la filosofia a uscire nel mondo ragionando nelle diverse materie iuxta propria principia, senza ragionare religiosamente anche di astri e belve. La scienza deve intendere che la vita è piena ed organica, che la mente non deve vincere il corpo ma conoscerlo. La materia non è peso che blocca le ali: come la famosa colomba kantiana che crede di lottare con l’aria che la blocca – ma se la potesse toglierla, cadrebbe subito, senza librarsi leggera.

Morin entra così nei percorsi della complessità mentre il mondo degli esistenzialismi marxismi e fenomenologie resta al soggetto, con le stesse domande di sempre per definirlo. Morin diventa un eroe della resistenza, discute di cinema, e invece di parlare dell’Io discetta di sette intelligenze dell’uomo, come Gardner, altro costruttivista – non si è solo scienziati o letterati, le due conoscenze che la scuola riconosce; parlare di sette intelligenze significa determinare il mondo dell’uomo dai punti di vista che lo formano con reciproco limite. Questa è già l’ottica dell’estetica, che non costruisce sistemi ma Opere raccolte in biblioteche e musei; i paradigmi dell’estetica sono nella contaminazione dei mondi, e renderebbero necessaria una grande riflessione; il problema è che contemporaneamente il mondo della velocità svilisce il pensare lento nel suo rigore, e se ne va perdendo il metodo. Forse la bellezza salverà il mondo, ma potrà accadere, ricorda Morin citando Souriau, seguendo Baudelaire e Rimbaud, poeticizzando il banale: “si avanza in un tempo in cui la differenza tra profano e sacro, misterioso e familiare non sarebbe altro più che estetica” (p. 29). Un secolo fa ciò fu innovazione; oggi sarebbe estenuazione da cui prendere le distanze. Perché l’attributo della sacralità è un segno di valore, anche nel banale, che però non deve dimenticare la propria natura: i gesti delle commesse di un negozio di moda sono preziosi e sacri se chi guarda è Baudelaire, o Pirandello… per lo più non hanno sacralità, né bellezza.

Nel valore della creatività bisogna riconoscere l’ingegno di Vico, che sa vedere l’eterno nella storia… l’arte imita la natura come il bambino imita l’adulto – ma cosa imita? Si chiede Morin con Paul Klee: “le forze che hanno creato e creano il mondo” (p. 40) – non la configurazione esterna, il mezzo per dare corpo alla citazione che il pittore vuole comunicare; si imita quel che si è scelto come essenziale, il gesto esemplare, capace di evocare in tutti una memoria e un pensiero. Capito questo, non c’è nulla di diverso nel potere sciamanico del cinema, che evoca con tutta la pienezza di una magia ed ha saputo porre lo spettatore in platea per meglio immergerlo nel fascino misterioso dell’altro occhio che guarda e scrive.

Perciò Morin parla del cinema con la profondità di sempre, non senza venature paranormali come quando argomenta questa virtù conoscitiva ed espressiva come una semitrance: la “capacità analogica che permette la mimesi” (p. 42) e quindi la comunicazione che retroagisce su di essa; di possessione addirittura, se si pensa che Ejzenstejn parlava di regressione al pensiero primitivo – e sentirsi in “uno stato di profezia sociale” è cosa comune a molti artisti, che si sentono sempre un po’ sciamani. Non a caso le musiche rivoluzionarie inducono stati di trance, “quando si è rivoluzionari, o piuttosto quando si era rivoluzionari, perché ormai non lo si è più” (p. 82). Antichi fascini sempre vivi nel cuore…

Questo perché l’immagine (in figura e in parole, diceva Giordano Bruno, e, ovviamente, in musica) è un doppio simulacrale, uno specchio di presenza ed assenza, di mimesi e metessi che richiama alla mente tanta letteratura e cinematografica. In entrambi i casi va distinta la prosa, denotativa (parla di cose, di fatti, di oggetti), dalla poesia, ch’è invece connotativa e soggettiva: il poema “è tradotto dal silenzio” (p. 61) e la veggenza s’impadronisce di chi parla. Il cinema crea così arte dalla non arte; grazie alla statuificazione dello spettatore lo fa attento alla comprensione, in simbiosi con la surrealtà del mondo reale (p. 69). La semi possessione protagonista Morin esemplifica con Buster Keaton, che in un film agisce come le avanguardie teatrali, confondendo scena e platea – ma la mimesi nel film si esaspera fino a diventare alienazione ipnotica (p. 73), una partecipazione che diverte col suo oblio chiaroveggente… le storie che si ripetono sempre uguali danno un tocco mitico a tutto il processo, culminando nelle serie

Se la pittura è diventata commercio e la musica resta il mistero supremo, è “nel ritratto umano (che) questa mimesi può cogliere attraverso l’espressione, la psicologia profonda del personaggio di cui si fa il ritratto” (p. 75) celebrando lo sforzo di Rembrandt di far trasparire l’anima e l’esistenza nel procedere del tempo dei suoi autoritratti – un modo di conoscere e di conoscersi. Oggi l’arte è questo, la fotografia non è più l’immobilità del ricordo ma, come disse Bourdieu, l’arte aperta a tutti, con piccoli apprendimenti necessari ad aprire il percorso creativo alle classi medie, che partecipano così anche se non diventano artisti di professione. Morin ricorda il grande storico dell’arte Francastel: “l’arte è l’espressione più elevata del gioco” (p. 103) estetico e ludico nelle feste costruiscono cerimoniali, un primo stato poetico, cui seguono nell’ordine: 2 creazioni ed emozioni estetiche; 3 Stato poetico; 4 Stato estetico: spettacolo, condotta umana, opera d’arte… ecc fino allo Stato sacro e infine estatico). L’estetica estatica si congiunge alla vita dell’Eden, ma parte da emozioni comuni, che legano l’individuo agli altri. Disse Thomas Eliot che l’uomo non regge alla realtà e perciò ricorre alla bellezza, perché “A thing of beauty is a joy for ever” (John Keats): nel nostro mondo, la cultura è nel supermercato, nei Centri commerciali, nelle serie TV: occorre accettare il mondo.

L’arte e l’uomo non artista accetta e comprende con la mimesi: ad esempio nel gioco infantile del Facciamo-che-io-ero (definizione di Umberto Eco), il gioco di tutti bambini del mondo. Mimesi vuol dire imparare, la necessaria premessa per approfondire e poi cambiare le cose, e certo l’arte in tutto ciò fa la sua parte. Tra le belle citazioni con cui Morin gratifica il lettore c’è la più bella, la più adatta ad oggi, benché detta due secoli fa da Wordsworth, “il senso della vita non è altro che la vita stessa… Poetry is the first and last of all knowledge”. Basta saperlo dire, insomma, e il mondo umano è qui davanti, come sempre.

GF Gily Edgard Morin, Sull’estetica, Cortina 2019