Il convento di Sant’Angelo in Palco

di Vincenzo Curion

(molte altre foto nel PDF allegato)

In occasione delle giornate Europee del patrimonio, a Nola, si sono accesi i riflettori dell’annuale iniziativa “Settembrarte”, che quest’anno ha offerto a numerosi visitatori un evento unico nel suo genere. Due giornate di apertura straordinaria del Convento di Sant’Angelo in Palco che sovrasta la città.

Posto su di un piccolo rilievo della collina di Cicala, che si prolunga fin nel territorio del limitrofo comune di Casamarciano, il complesso conventuale, un gioiello la cui fondazione sarebbe datata tra il 1436 e il 1440, deve la sua nascita alla famiglia Orsini. “Fratello” del complesso conventuale di San Giovanni del Palco iniziato nel 1383 da Nicola III Orsini, che si trova nei territori del comune di Taurano, l’ex convento francescano di Sant’Angelo è da diversi anni abbandonato, in quanto non ospita più frati conventuali. La struttura conserva tuttavia bellezze artistiche di inestimabile valore e fattura, che meriterebbero di essere riscoperte ed apprezzate. Altri reperti che originariamente erano conservati presso questo convento, sono ora ospitati presso il Museo provinciale campano di Capua. 

Fu Raimondo Orsini, pronipote di Nicola a volere la costruzione della struttura nolana, per devozione alla causa francescana. La grande devozione per il santo poverello testimoniata in tutta l’area nolana lauretana, nasceva dalla Santificazione di San Ludovico di Tolosa, frate francescano, fratello di Roberto d’Angiò, re di Napoli.

Gli Orsini, che servirono gli Angioini e, in seguito gli Aragonesi, seppero conservare l’area della Campania Felix fino al 1528 quando Ludovico perse la contea nolana dopo 238 anni di signoria, iniziata con Romano Orsini, detto Romanello, genero di Guido di Montfort, già conte di Nola per volere di Carlo II d’Angiò, per il valore che l’inglese dimostrò nella Battaglia di Tagliacozzo. Tuttavia la famiglia rimase nell’area nolana fino al 1533 quando venne a mancare Enrico Orsini ultimo discendente.

Raimondo Orsini, signore di Vicovaro, Roccagiovine, Bardella, Cantalupo, Avella, Forino, Boiano, Nettuno, primo conte di Sarno e Atripalda e Signore di Palma dal 1426, dopo aver ceduto a papa Niccolò V Nettuno e Astura, primo Principe di Salerno e Duca di Amalfi dal 1448, investito di Ottaiano e Pomigliano nel 1419, nobile Romano e patrizio Napoletano, giustiziere del Regno di Napoli, sposò nel 1418 in prime nozze, Isabella, figlia di Francesco Caracciolo e sorella di Sergianni Caracciolo Gran Siniscalco del Regno di Sicilia. Egli divenne conte di Nola nel 1420. Successivamente, nel 1436 in seconde nozze, Raimondo diventa consorte di Eleonora d’Aragona, figlia di Giacomo Conte di Urgell e di Isabella Infanta d’Aragona. Abile uomo politico, consigliere del re e diplomatico, seguendo le orme del suo avo, Raimondo comincia i lavori per la costruzione del complesso di Sant’Angelo in Palco, a qualche miglio di distanza dalla città di Nola, sulla collina di Cicala. In un primo momento si era deciso a restaurare un’antica cappella dedicata a San Lorenzo, posta a valle rispetto all’attuale complesso. Stando però alle notizie leggendarie tramandate, una serie di eventi ritenuti prodigiosi suggerirono una nuova costruzione più imponente e articolata. Un convento che avrebbe ospitato i Frati Minori dell’Osservanza. Dopo essersi consigliato con il vescovo di Nola, sua eccellenza Flaminio Minutolo, il conte inizia i lavori sulla collina dove fu rinvenuta un’immagine di San Michele. Le fonti indicano che nella zona, agli inizi del 300 vi fosse già una chiesa consacrata all’arcangelo. È probabile dunque che l’effige leggendaria fosse materiale di quella precedente costruzione. L’impianto originale della cittadella francescana era strutturato secondo moduli tardo-gotici e durazzeschi, ravvisabili ancora in molti elementi superstiti, come gli archi posti sul fianco sinistro della chiesa e l’arioso portico d’accesso, costituito in arcate in piperno poggianti su colonne e capitelli di spolio tardo-antichi e medievali.

Raccontano le cronache che un primo rinnovamento del convento si ebbe intorno al 1514, per opera di padre Giovanni Infanzio – vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo – che promosse, come riporta lo storico cinquecentesco Ambrogio Leone, l’ampliamento e l’abbellimento del cenobio. Sul finire del cinquecento, come riporta in maniera dettagliata il cronista della provincia osservante nella seconda metà del XVII secolo, padre Teofilo Testa, altri importanti lavori, furono eseguiti, sotto la guida di padre Crisanto Cosciuto da Nola. L’edificio non fu solo una sede monastica ma un vero e proprio centro culturale e seguì le vicende della famiglia francescana e quelle del Regno di Napoli. Proprio sotto l’ultimo provincialato di padre Cosciuto, nel 1626, passò nelle mani dei padri riformati di Napoli. Annota Teofilo Testa che, tanto fu grande il dispiacere degli osservanti di aver perso tale cenobio, che alcuni di essi, approfittando dei moti di Napoli del 1647, assalirono di notte il convento nolano cacciandone i riformati. I frati osservanti, però, sconfessati dall’autorità ecclesiastica e dai loro superiori, dovettero sgombrare il convento che tornò nelle mani dei riformati, che lo mantennero fino al 1866 quando, in seguito all’emanazione della legge di soppressione degli ordini religiosi del 7 luglio del 1866, la struttura passò prima nelle mani del Fondo per il Culto per essere poi ceduto il 15 novembre 1869 al comune di Nola.

Originariamente la chiesa, posta alle spalle di un porticato ed adiacente al portone del chiostro, prevedeva una pianta a singola navata con cappelle laterali da ambo i lati, di piccola profondità secondo l’uso francescano. Recenti ricerche hanno rivelato che, in quel lato sinistro della chiesa, adiacente al campanile, vi fosse anche la cappella gentilizia della famiglia dei Mastrilli, voluta da Gabriele Mastrilli, cavaliere, nobile di Nola, consigliere di Raimondo Orsini, famiglio di Alfonso V Re d’Aragona, Maestro Razionale della Zecca, Giudice della Gran Corte Vicaria, Consigliere Regio del Tribunale di Santa Chiara, Consigliere a latere di Re Alfonso V, a cui prestò anche danaro, secondo Signore di Comignano e Selice dal 1461.

Successive modifiche hanno condotto all’ampliamento delle cappelle sul solo lato sinistro della navata ed alla sistemazione del monumento funerario di Raimondo Orsini all’ingresso della chiesa, mentre le lastre che tumulavano gli appartenenti alla famiglia Mastrilli sono ora collocate nel pavimento alle spalle dell’altare.

Delle cappelle che abbellivano il lato destro della navata, son rimaste solo delle rientranze. Infissa sulla parete destra la breve di Papa Urbano VIII, con la quale il Pontefice autorizza l’uso dell’altare in luogo delle cappelle che erano poste sul lato sinistro e che venivano usate per celebrare messe ai defunti.  Stando alle fonti, un violento terremoto nel 1631, probabilmente ricollegabile all’eruzione del Vesuvio di quell’anno, determinò il rifacimento di molte parti della fabbrica monastica. Lo stesso chiostro, cardine di tutto il complesso, fu ricostruito e modellato sull’esempio di altri chiostri rinascimentali della provincia francescana, tra cui quelli di Avella e di Marigliano.

La chiesa, coperta da capriate lignee, presenta un ciborio seicentesco di fattura napoletana. Il ciborio seicentesco è incastonato in un altare del ‘700. Alle spalle un crocifisso ligneo. Lo spazio dell’altare è separato dallo spazio riservato ai banchi da una balaustra di marmi policromi, secondo l’uso del barocco napoletano che testimonia uno dei restauri effettuati alla struttura nel XVIII secolo.

Nel paliotto dell’altare è raffigurato San Michele Arcangelo intento a combattere un demone con sembianze umane e coda di serpente. Le figure sono realizzate in madreperla e in marmi policromi Oltre l’altare si accede ad un piccolo coro con bancate tutte in legno datato 1752. Un secondo coro, più ampio, si trovava al di sopra della porta d’ingresso ed era, secondo le fonti locali, opera di Giovanni Merliano.

Dal coro retrostante l’altare, si accede ad un disimpegno ed alla sagrestia, infine al magnifico chiostro di pianta quadrata con al centro un pozzo a pianta ottagonale. Il chiostro offre all’ospite un semplice colonnato e porticati tutti affrescati con immagini della vita di san Francesco. A partire dalla metà del XVI secolo la decorazione pittorica a fresco che correva lungo le pareti fu rinnovata e, successivamente coperta nel 1849 da scene della vita del Santo di Assisi. Dell’originale decorazione sopravvivono solo pochi frammenti, individuati sulla porta in legno intagliato che conduce alla sagrestia e, dal lato opposto alla porta che mette in comunicazione la chiesa con il chiostro, vi è una nicchia che conserva un affresco con pregevoli accordi cromatici raffigurante San Michele Arcangelo che combatte contro un dragone. Tale affresco del XV secolo di autore ignoto, raffigura San Michele Arcangelo che si staglia su un insolito paesaggio lagunare.

Questo affresco ha un’origine alquanto misteriosa. Secondo la leggenda tramandata, gli i pittori avevano disegnato il corpo dell’Arcangelo ma non il volto. Una sera, un povero viandante aveva bussato per chiedere ospitalità al convento. I frati gliel’avevano concessa anche se l’uomo non aveva nulla per pagare. Fornitogli un accomodamento per la notte ed un frugale pasto s’erano ritirati nelle loro stanze. L’indomani andando a bussare per svegliare l’ospite, il viandante non c’era più nel convento, il suo piatto era intonso e l’affresco nella nicchia era stato completato. Il volto del Santo appare di una giovinezza primigenia, quasi quella di un adolescente, rispetto al corpo che invece mostra fattezze più da adulto.

Lo stato di conservazione dell’opera è discreto. Non altrettanto si può dire degli altri affreschi che corrono sulle pareti dei porticati. L’umidità ed i segni del tempo in qualche punto hanno già pesantemente aggredito le opere sbiadendole pesantemente. Lasciato il chiostro, la visita è proseguita attraverso i locali del refettorio, cuore della vita comunitaria. Si tratta di una grande sala coperta da ampie volte a crociera e riccamente decorata da affreschi, realizzati da maestri diversi. Qui si sovrappongono tre epoche diverse. Un solo affresco è datato verso la fine del quattrocento. Quest’opera, raffigurante una flagellazione di Cristo, Cristo alla colonna, fu dipinto da un anonimo maestro di formazione umbro-marchigiana. Tale opera è emersa durante successivi restauri. In precedenza, quest’affresco era coperto da un altro raffigurante il martirio di San Daniele con un leone. Di stile molto semplice, questa flagellazione ha accanto una seconda flagellazione, molto più verosimigliante, di fattura cinquecentesca come lo sono tutti gli altri affreschi che corrono sulle pareti del refettorio. Gli affreschi ricordano le scene della passione di Gesù. I riquadri sono pensati per gli spazi delle finestre che si aprono lungo una sola delle pareti. Opposta alla parete con le due flagellazioni l’una accanto all’altra, è possibile vedere, sulla parete occidentale, tre raffigurazioni, una la Crocifissione di Cristo,

l’Ultima Cena e la Lavanda dei Piedi. Tali opere presentano la stessa complessità di lavorazioni che si ritrova nella pittura napoletana a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Napoli, infatti, a metà del XV secolo, divenne il maggior centro di confluenza di una cultura mediterranea. Qui giunsero artisti di scuola franco-fiamminga prima e ferraresi, umbro-toscani e romani poi. La data, che compare in una delle decorazioni alla base delle due grandi raffigurazioni della parete, indica l’anno 1503. In quell’anno gli Orsini erano ancora i Conti della città di Nola e della vicina Sarno, dove il figlio naturale di Raimondo, Daniele, ampliò il castello con nuove fortificazioni-tuttora una delle torri di vedetta ha il nome di “Torre Orsini”, o “Torre dell’Orso”-, ma il feudo sarnese sarebbe passato nuovamente in possesso alla corona nel 1462.

Raimondo, che morì nel 1459, non prese parte alla difficile battaglia tra le truppe aragonesi del re Ferdinando I di Napoli e le truppe angioine a servizio del duca Giovanni II d’Angiò Lorena, figlio di Renato d’Angiò che rivendicava il trono di Napoli con l’appoggio del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini Del Balzo che si tenne il 7 luglio del 1460 nell’allora selva di Longola, lungo la sponda destra del fiume Sarno.

Il duca Giovanni, avvalendosi delle sue manovre belliche, puntava a conquistare il Castello, punto strategico che apriva le vie interne del regno. Dalla Torre superiore, detta dell’Orso, subiva però gli attacchi tremendi delle truppe avversarie. Malgrado ciò la fortuna volgeva a suo favore e aveva messo fuori combattimento gran parte dei soldati di re Ferdinando, il quale, sconfitto, fu costretto a scappare con soli venti cavalli, rifugiandosi a Napoli. Ma una sorpresa era destinata alle truppe di Giovanni II. Inaspettatamente, da dietro al Castello, uscirono cinquecento cittadini armati, provenienti dalla città di Cava, i quali misero in scompiglio il campo angioino facendo cambiare il destino della battaglia. Il Duca Giovanni da vincitore rimase vinto, e dovette ritornare sui propri passi.

La magnificenza del chiostro è completata dal soffitto con volte a crociera decorate a grottesche. Questa decorazione deve la sua diffusione agli scavi della Domus Aurea di Nerone iniziati a fine quattrocento a Roma, dove furono rinvenuti degli ambienti sottoposti, simili a grotte -di qui il termine grottesche- che avevano il soffitto affrescato, come era in uso nella Roma augustea.

La notizia di questi ritrovamenti e i numerosi artisti che ne trassero ispirazione praticandola come decorazione,- tra gli altri Filippino Lippi, il Pinturicchio, Amico Aspertini, gli artisti della bottega di Raffaello Sanzio che rielaborarono il genere aumentandone le richieste-, fecero sì che la decorazione a grottesche si diffondesse in tutta la penisola alimentando e perfezionando il genere fino a consolidare l’uso, nei secoli successivi, di dipingere variamente i soffitti con scene, tipicamente di tema non religioso, bensì fantastico bizzarro o inconsueto.

Negli affreschi parietali del refettorio non mancano i riferimenti agli Orsini ed alla storia dell’epoca. Tra due riquadri, è raffigurato San Gregorio Magno, mentre due figure, rappresentate come persone del XVI secolo si trovano ai lati dei due grandi affreschi della parete orientale, a testimoniare come, secondo il gusto dell’epoca, i committenti fossero essi stessi “compartecipi” delle scene che venivano dipinte. Non mancano poi i riferimenti ai santi Antonio da Padova, il più grande Santo francescano, canonizzato in meno di un anno da papa Gregorio IX nel 1232; e a Santa Caterina d’Alessandria.

Quest’ultima, sepolta presso il monte Sinai, nel convento che prende il suo nome, sembra abbia subito la trafugazione di una reliquia ad opera di Raimondo Orsini Del Balzo, principe di Taranto, conosciuto anche come Raimondello. Raimondello, secondo figlio di Nicola Orsini (1331-1399), terzo conte di Nola, recatosi in pellegrinaggio presso il monastero egiziano, nell’atto di baciare la mano del corpo mummificato della Santa in segno di venerazione, avrebbe sottratto un dito della salma staccandolo con un morso e nascondendolo in bocca fino al suo rientro in Italia.

Tale reliquia è conservata presso la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, struttura che Raimondo Orsini del Balzo cominciò ad edificare verso la fine del XIV secolo. Della Basilica non ne vide mai la fine poiché morì nella difesa di Taranto, assediata dal re Ladislao d’Angiò-Durazzo il 17 gennaio 1406. Fu poi la moglie Maria d’Enghien che proseguì l’opera del marito facendo riempire di affreschi la chiesa di Santa Caterina con nuove maestranze da Napoli. Dopo la sua morte i lavori vennero proseguiti dal loro figlio Giovanni Antonio Lasciato il refettorio, attraverso una scala interna si accede al piano superiore. Qui è visitabile l’antica biblioteca, aperta nel 1695. Si tratta di un ambiente con le pareti ricoperte da scansie ed armadi di metà settecento. Il convento, non era solo luogo di preghiera ma anche di formazione dei frati. Contrariamente all’immagine popolare, anche per i discepoli del poverello d’Assisi esisteva un impegno allo studio così come accade per i frati Domenicani. Tuttavia, il loro studio era meno formalizzato, rispetto a quello di altri ordini monastici, ma al contempo più complesso di quanto si possa pensare comunemente.

L’apertura allo studio e alla cultura era sì contemplata, ma non v’era alcuna regola circa la raccolta delle opere. Di fatto le biblioteche dei conventi francescani nascevano più come punti di raccolta di volumi che venivano trasferiti da altri conventi che chiudevano, per mancanza di vocazioni o perché troppo fatiscenti per poter essere ancora abitati, che per volontà di conservare e tramandare sapere. Ciò non toglie che diversi conventi fossero centri culturali di prim’ordine. In merito al convento di Sant’Angelo, la biblioteca è rimasta attiva fino al 1859, con confronti tra dotti laici e frati dedicatisi alle scienze.

Sembra anche che il convento fosse dotato di moderni strumenti per lo studio dell’elettromagnetismo e delle scienze in genere. Tali strumenti e gran parte dei volumi sono andati dispersi o trafugati fin dal 1866, anno in cui il convento, dopo l’Unità d’Italia, fu espropriato all’ordine francescano ed affidato prima al Fondo per le Opere di Culto e poi al Comune di Nola che lo mise a disposizione di un’opera pia. Quest’ultima, non riuscendo a gestire la struttura, fece sì che essa tornasse nella disponibilità dell’ordine francescano. Attualmente la struttura è di proprietà dell’ordine provinciale francescano di S. Chiara di Napoli. Recentemente, alcuni volumi dei preziosi volumi che erano raccolti nella biblioteca della struttura nolana sono stati identificati nelle raccolte conservate a San Pietro ad Aram e nel Convento adiacente alla Chiesa della Santissima Trinità alla Cesarea.

Sitografia e Bibliografia

PDF https://drive.google.com/file/d/1xFkYirDJPgMeE9dZIiYeCNMvAGFaNJJ1/view?usp=sharing