Immagini a confronto: Luigi e Fausto Pirandello (2)

Fausto Pirandello, Interno di mattina
Fausto Pirandello, Interno di mattina

di Federico Reccia

Adriano Tilgher nel 1922 pubblicò Studi sul teatro contemporaneo, opera che pose le basi della critica pirandelliana, in cui Tilgher vi dedicò al drammaturgo siculo un saggio sull’intendimento del dialettico in Luigi Pirandello. Nel saggio critico egli presentava l’universo entro cui orbita il mondo pirandelliano, imperniato intorno ad un modus vivendi di una Vita che, come “potenza ed influsso mentale”, è dilaniata da una totale disposizione antinomica secondo cui la Vita è, al contempo, costretta a realizzarsi (seppur per un solo attimo fugacissimo) in una forma e, per un medesimo obbligo vitale, non può perseverare in alcuna forma unica ma deve seguitare da una forma all’altra. E quasi tutta la laboriosità di Pirandello pare moderarsi in questa famigerata, e teorica, legge naturale del diadico divenire dialettico dello spirito antitetico di Vita e Forma, o realtà e finzione, o altresì di “arte e anarte”.
Il rapporto-asse Tilgher-Pirandello diventò infuocato; Pirandello era allora un’inarrestabile fucina di idee (e Tilgher non voleva risultare da meno) tanto che si può dire, sul loro conto, di sentire, fra la loro impervia autonomia della natura umana, «l’ondeggiare caldo di un’equivalente vampa oscura, cavernosa, di quelle fiammate vulcaniche che colano fra le elevate falde montagnose di due individualità esplosive». Pirandello stesso dovette sopportare la forza quasi carismatica dell’influenza dell’esegesi tilgheriana, e quasi interamente la sua rimanente attività teatrale fu distinta sfavorevolmente dalla traccia critica del pirandellismo soprattutto quando, a partire da quel 1924, Tilgher e Pirandello si distaccarono a causa delle discordanti preferenze storico-politiche della loro epoca (il fascismo).
Dalla critica tilgheriana sorgeva una norma di “decomposizione delle assolutezze storiche della realtà” che si poteva denominare “pirandellismo” ma che più adeguatamente andrebbe giudicata una ricostituzione dei meriti (e dis-valori) della vita sociale, dell’incoerenza del riportare ad una sola verità le diverse e disparate realtà e verità che diversificano i «grandi e multiruolo mascherati della modernità più contemporanea di fine Ottocento fino a quella di buona parte del Novecento».
Al di là di ogni recensione sulle teorie di Pirandello e di ciascuna fisionomia sindacata, resta sicuro il merito del supremo contributo pirandelliano alla esplicita messinscena del decadente costume filo-borghese che è un’illuminazione sulla società nuova. Rinnovata organizzazione societaria, questa, composta da individui (ma tutti personaggi) che si possono limitare a una sola manifestazione e ad una sola intransigenza: la risposta reazionaria a tutto quello che, “in forma borghese”, coagulato in seno alla società, è senza più contenuto vitale.
Vi sarà tutto un dibattersi dell’io concettuale di Luigi Pirandello, sulle sue teorie convalidate dal caos travolgente della vita raccontata nella sua praticità (pragmatismo), della mostruosamente umoristica rivelazione del tragicomico e dell’algido dramma esistenziale continuamente in agguato in noi. Nella Weltanschauung pirandelliana (Weltanschauung che tradotta dal lessico filosofico tedesco sta a significare «la concezione del mondo») e nella società tutto appare relativo, perfino la nostra persona (o a volte il nostro personaggio), molteplicità di atti e gesti continuamente mutevoli, che, per quanto si faccia è impossibile cogliere e saldare per sempre in una forma poiché ciascuno di noi è al contempo uno e centomila, e quindi poi, in pratica, nessuno.
L’arte (e l’estetica quindi) che rispecchia una simile visione del mondo è definita da Pirandello “umoristica”; l’umorismo è l’espressione, quell’atto innaturale e grottesco già di sé scenico, che “stacca” il sintomo plurimo e contraddittorio della realtà, rappresentandola da una sfalsata successione caratteriale di piani consci ed inconsci, che permette in definitiva il riconoscimento della corrispettiva porzione infelice e miseranda dell’uomo “ombrata” dal baluginio della comicità immediata, irriflessa. Pirandello stesso risolve similmente la sua arte permeata dal senso estetico come in genere l’arte novecentesca, coscienza di un mondo in cui i razionalissimi moduli d’ordine sono stati a buon diritto “straziati”. Nella sua globale “creazione istintiva ed immediata” del mondo campeggia l’idea del crollo d’identità del singolo individuo che va ricreata oltre la scomposizione della personalità, oltre lo sbigottimento, oltre la critica, oltre il dato ironico e soprattutto al di là del conformismo e di un’identità unica, che egli assicura non esserci più perché forse, in fondo, non v’è mai stata.
Per Luigi Pirandello l’uomo contemporaneo riscontra nel “salotto mondano” della società filo-borghese un mondo (che nel XX secolo si mostra ancora molto ottocentesco) che vuol costringere, alienando, a rinunciare ad una vita autentica imponendo le corbellerie delle convenzioni sociali, conformismi che amalgamano fino ad omologare.
Tuttavia alla drammaturgia Luigi Pirandello, approdò quasi controvoglia, relativamente con ritardo, dopo aver scritto romanzi e centinaia di novelle. Nel passaggio al teatro non si trattò, nella sua fattispecie, di un mero procedimento tecnico, di una “descrizione” delle novelle; esso si spiega, piuttosto, come una chiarificazione interiore che lo conduce ad una dimensione creativa nuova e più elevata, il cui perno è costituito dal rapporto tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, tra normalità e anormalità. E questo poiché Pirandello si è sempre caricato di figure, trasportandole di continuo appresso senza fatica, perché egli ha perfezionato psicologicamente il teatro fin dalla sua prematura esposizione, fin dal giorno in cui si è interrogato, da quando ha amaramente sentito e poi soppesato ciò che la vita offre, i “drammi del comune relazionarci” che lo circondavano e attanagliavano.
La concezione della sua arte innova e si innova con la distruzione dell’illusione scenica tradizionale, presentando la rappresentazione teatrale come dibattito e scontro di contestanti (e possibili) interpretazioni del reale, dell’oggetto filosofico. Il concetto cardine del suo pensiero estetico sfociava nel convincimento che la vita fosse “una carnevalata in maschera” , una finzione molto simile a quella che si svolge sulle tavole del palcoscenico e quindi l’attore coincide con l’uomo comune così come la finzione con la realtà (simulata e non). Dunque il binomio inseparabile realtà-forma applicato al teatro diviene il binomio persona-personaggio: l’attore, un uomo precario e labile come tutti, diviene fisso ed immutabile quando riveste il ruolo affettato del personaggio. Così, Pirandello constata che il personaggio è sottratto all’indeterminatezza dell’esistenza e prefissato eternamente in una maschera, «in una ostentata recita continua» che, contrariamente alle “parti teatrali” dell’universo quotidiano, è spesso alta o nobile. Secondo la sua visione, la macchina drammaturgica si deve presentare come una continuità del fluire incoerente della vita quotidiana e non più come una finzione scenica improntata al rigore tecnicistico degli “addetti ai lavori”: entrando nella sala del teatro poco prima dell’avviamento dello spettacolo, gli spettatori troveranno il sipario alzato, il palcoscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al buio, vuoto per creare così fin da principio l’impressione di uno spettacolo semplice, non preparato. Fu in primo luogo con la drammaturgia che il suo scetticismo trovò una particolare corrispondenza negli animi dei reduci al primo conflitto mondiale, che accolsero in pectore le sue angoscianti opere teatrali degli anni 1916-22 (“Sei personaggi in cerca d’autore” e “ Enrico IV “ tra le più commemorate). Nel 1926, incitato da questo suo boom nel mondo dello spettacolo, dalla reputazione e dalla agiatezza economica, egli poté fondare e programmare una sua compagnia teatrale (il Teatro d’Arte) – vivificata particolarmente dall’attrice Marta Abba – per trasmettere ufficialmente in Italia ed ufficiosamente in territorio straniero (il suo teatro giungerà persino in America) il suo repertorio così espanso.
Se dici Pirandello si evoca, nella maggioranza dei casi, nell’immaginario collettivo subitaneamente il nome del grande drammaturgo italiano e invece esistono molti Pirandello, parecchi suoi figli e discendenti con lo stesso cognome adombrati dall’immagine diffusa del primo Pirandello, Luigi, che passò alla storia. Un suo figlio, Fausto Pirandello, non potrà che ereditare culturalmente (nel modo di pensare a tratti psicologico) dal padre la ricerca del dramma del tempo a cui appartiene, riportandola, in “un atto unico”, dalle sperimentazioni dei drammi della teatralità all’atemporalità dell’eternità delle forme pittoriche. Luigi e Fausto Pirandello, quali uomini e artisti, saranno la stessa persona, lo stesso universo psichico orbitante attorno al medesimo immaginario visibile e invisibile. In pittura Fausto Pirandello si dimostra attento all’individuo, alla sua angoscia di uomo solo, umiliato e offeso dagli altri e dalla vita, piuttosto che ad una pittura topografica d’ambienti siciliani e romani. Fausto, ancor prima di “scoprire i pennelli”, compì al ritorno dalla fine della prima guerra mondiale un breve alunnato come scultore; ma fin dal 1920 il coinvolgimento è tutto per la pittura, che gli pare un approccio più congeniale e veritiero per la rappresentazione non mediata della realtà. Fausto sceglie di rappresentare la quotidianità dimessa della vita avvalendosi di un «realismo sintetico ed espressionistico», di uno stile essenziale e disadorno, che stravolge la tradizionale “bellezza delle forme” per sostituirvi “la disarmonia dei corpi” sfociando nell’inestetico. Quale pronto e riflessivo osservatore, Fausto, con la sua pittura, ha sempre mirato a qualcosa di ben più inconfessato e duraturo che la superficiale celebrazione della modernità italica. Per tale motivo egli, usava il paradosso e l’assurdo come occasioni costanti nei suoi dipinti, esperibili quali “immagini fiatanti” che esprimono in figure quello che la prosa e la teatralità paterna avevano dichiarato per circa un quarantennio, caratterizzati da prospettive fortemente scorciate, mai accondiscendenti o tranquillizzanti, sempre aperte all’inaspettato e al dissonante.
L’identità della persona, che è ciononostante il progetto pilota di quasi tutto il suo studio narrativo e pittorico, nelle tele fa parte di un insieme di preparata dipendenza da metafore con significati che non vengono chiariti per una arzigogolata predilezione dell’autore. È in siffatta distinta dimensione che può collocarsi l’incompatibile atmosfera metafisica di Fausto Pirandello, che fa da cerniera fra l’apparente narrazione realistica e una simbologia atemporale (arcaicizzante) inspiegabilmente allacciata ad un contesto esteriore di simboli e di contrassegni allegorici che nella relazione formale e narrativa si alienano per voler proferire altro, senza sapere però cosa. Occorre prestare attenzione e interesse al senso inenarrabile che trasuda in ogni suo dipinto, quello che è detto e scritto con quelle immagini e parole, sapendosi frenare ai limiti minimamente consentiti e invalicabili degli enigmi pirandelliani, che non sono altro che il suo viscerale palesarsi dei suoi nodi emotivi più subcoscienti esplicitati, sfogandosi, per mezzo della “bella sponda” della pittura.
La vita personale di Fausto si distingueva nella meditazione, quasi sempre chiuso nell’esercizio artistico a rincorrere i suoi fantasmi, riservato nei rapporti con la gente e restìo addirittura con i colleghi d’arte; stabilì contatti minimi, quelli che poteva sostenere spontaneamente senza dover fingere ogni volta indossando la maschera di un altro individuo: pochi ma onesti gli amici, rade le frequentazioni pubbliche, i musei, Venezia per la Biennale, vagabondaggi saltuari. Così, isolandosi, Fausto riflette la dichiarazione di una recessione del binomio vita-arte dalle conformità statali, attestabile finanche nei suoi quadri e nelle stesse pagine diaristiche che sono vere e proprie «macchiettature di parole sognanti ribadenti il ricolmo e inventivo vocabolario da cui si attinge ma in modo particolare si riscrive, si poeteggia, si rielabora, si rilegge, si comprende, si interpreta nuovamente la pittura». È poi ben noto il suo carattere problematico e travagliato, nel quale di certo parte non secondaria ha significato il non facile rapporto col padre Luigi, di cui – tra pulsioni affettive e rifiuti nevrotici – sono lucida testimonianza molti documenti epistolari.
Ma di tutte codeste problematiche ancora coincidenti con la nostra società si è già proferito e in tutta questa inquietudine dell’essere i due Pirandello seppero liberare la dignità originale dell’uomo, la stessa che lo schiaccia per farlo chinare senza molta riverenza sulla sua stessa pena, quella che toccò in sorte anche agli antichi eroi greci: il dramma umano

Reccia Federico Cell. 3318806440
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