La lunga vita del Manifesto Esasperatista: Fortuna? Regia? Piuttosto, opera d’arte – Esasperatismo Logos e Bidone 2009-2015

Come dico nell’editoriale, l’esistenza mi ha impedito di essere presente alla festa per i 15 anni dell’Esasperatismo: che va affermato come opera d’arte, lavorare per 15 anni con tanti artisti nell’interrelazione su di una grande idea, non è capitato a nessuno de manifesti storici, Chi conosce Adolfo Giuliani sa che questo è frutto di una idea solida come un abbozzo in un capolavoro, e va apprezzato pertanto non come il redattore di una idea dell’arte (oltre che come artista per sé). A me pare che la sua opera d’arte, il suo capolavoro, sia Il Bidone/come oggetto e idea ma anche come Movimento. Nel senso della Vita come Opera d’arte di Guicciardini: è forse un modo di incidere nella realtà dell’arte più forte di tanti altri.

L’avevo scritto, era nel libro, pubblicarlo ora qui è un omaggio ad Adolfo e il mio scusarmi per non essere stata presente in cotanta compagnia, col mio bidone d’oro, per celebrare il mio orgoglio di esserne parte con tanti illustri personaggi ed artisti.

Quando Adolfo Giuliani meditò il manifesto dell’ ”Esasperatismo Logos & Bidone”, era il tempo del millenium bug, piccola eco dei timori escatologici dell’anno Mille. Giuliani forse ragionava anche di questo con gli ingenui ottantenni delle prime mostre, Libero Galdo, ch’era stato nuclearista informale, dei futuristi Domenico Spinosa e Guglielmo Roehrssen, del plasticista figurativo Antonio Tammaro e anche di Giuseppe Antonello Leone; e poi ovviamente con tutti gli amici artisti più giovani di cui già curava le esposizioni nella sua galleria. I Maestri davano all’insieme non il tocco vintage ma l’eco di quella grande fiducia del tempo dei “Manifesti”, quella speranza e volontà di prendere parte che fu del primo 900 tutto, prima che la cultura di massa convincesse la gente che l’individuo è ormai tramontato. Nell’arte, questa affermazione è sempre una bugia, e lo sanno tutti.

Frutto di questo scambio di dialoghi e riflessioni sullo sfondo di quella Napoli viva e autocritica che è un eterno cantiere vulcanico, fu il manifesto del Movimento con il suo simbolo parlante, il Bidone che il Logos trasfigura in Opera. È l’autodefinizione che illustra il leit motiv del 900, e dell’arte in genere: la rivoluzione nella storia, i tanti punti di vista concentrati in un istante nuovo. Il Bidone segna l’identità che nel corso dei millenni s’è detta ‘natura’ e ‘destino’, oggi si dice ‘situazione’: il limite che non si cancella e che sprona, l’individuazione di un progetto nella concretezza di vita e nuova vita. Il simbolo che parla da solo è un binario, non si scambia, come il leone e il coniglio, ha il suo senso, indica il vincolo, diceva Giordano Bruno. È la metafora viva di Ricoeur – non scrittura simbolica valida perché condivisa, ma traccia da seguire come l’immagine della memoria, un marchio. Il bidone è un contenitore che richiama il recinto di Hegel quando parlava di architettura, prima delle arti perché cinge “il tempio come recinto che abbraccia Dio e la sua comunità”. Il bidone non è un artefatto dal senso autonomo, è un luogo costruito-per-altro, si lega immediatamente alla necessità che guida la costruzione, al suo senso primario e ineludibile.

L’architettura autonoma Hegel vede maturare in classica, quando erige il contenitore in forme belle, e infine in gotico/moresca quando fa del contenitore la forma del senso – quando ha conquistato coscienza di sé. Così il bidone nell’esperienza dell’Esasperatismo è passato dalla bruta natura mediale alla conquista del significato autocosciente: nel 2003 compare come sostrato/tela del lavoro, solo capovolgendo il bidone dal tenere dentro al tenere fuori, input-output, che lo trasfigura dal mondo dei rifiuti ad espressione d’arte; poi diventa simbolo, logo inserito in qualsiasi modo e spazio all’interno di una tela di ogni forma e tecnica; infine conquista l’autorivelazione di sé: s’identifica con la misura di 750 x160, dichiara d’essere tutela dello spazio aperto, il che rende il simbolo superfluo nella partecipazione all’autobiografia del Bidone. Che viene redatta con cura, nel volumi che fa la storia della comunità redatto da Giuliani sul modello delle scritture del tempo delle gazzette di Herman Hesse, le cronache del vivere quotidiano. Che hanno il difetto dell’infinito, ma che offrono al lettore la possibilità di scrivere la storia: l’architettura simbolica autonoma, il manifesto dell’Esasperatismo, è diventato la tutela dello spazio di consistenza, sostegno di libertà dell’individuo, che si insiste a negare. L’artista, l’astante, accede all’esasperazione come metodo perché sia di nuovo possibile il riconoscimento dialogico della comunità, oggi che nessuno sa più dialogare perché non sa più ascoltarsi e comprendersi. Un fatto evidente nell’ “arte (che) non è più fruibile”, il pubblico non l’intende. Nello spazio dell’intenzione del manifesto, è comparso un problema estetico puro.

È qui la distanza del manifesto esasperatista dagli altri, ed è questo che ne spiega la lunga vita. La grande stima che ognuno manifesta per Adolfo Giuliani e le sue capacità organizzative, non spiegano il successo, se si pensa ai sapientissimi registi del proprio percorso artistico che redassero manifesti di vita corta; altrettanto dicasi per la proverbiale cocciutaggine dell’artista che lo porterebbe alla lite perenne – non è da meno la cocciutaggine di questo signore gentile e garbato. Ma se i manifesti consistono di una volontà condivisa, l’architettura simbolica solo in questo manifesto alludendo senza definire può allacciare la comunità nella speranza dell’evento. Il Bidone afferma la sua individualità senza insegnare intenzioni, traccia la sua autobiografia di attesa della parola; il simbolo dell’esasperatismo  si redime dal sospetto di una frode subita e si afferma magico e terragno, nero e rosso come nel 2001 lo vestì Adolfo Giuliani. È il figlio del Vesuvio, offeso dalla storia d’oggi che lo depreda e l’offende, dalla velenosa opera del serpe che non ne rispetta la fertilità, e si erge come l’Ercole di Pompei contro l’affronto a Venere.

Nel bidone si elabora la risposta, la poetica delle cose, si costruisce il correlato oggettivo (ricorda Emilia Mallardo) coltivando il linguaggio dell’arte, si prova la voce di una sensibilità raffinata e combattiva pronta ad indignarsi con dignità e rispetto. Voltaire più che Masaniello, ironia più che ribellione, è l’unità del sentimento esasperatista che unì nel 2000 i più giovani a quelli che nel primo Novecento avevano lavorato ai “Manifesti” delle Avanguardie artistiche, in condizioni tanto più terribili e difficili di oggi, ma con un bagaglio di speranza che il mondo d’oggi ha perso. L’età d’oro dei “Manifesti” De Micheli, che fu nel “Fronte Nuovo delle arti” del secondo dopoguerra, raccontò in una storia pregevole che porta in appendice i testi di quei pamphlet che stesero la rete delle alleanze artistiche del 900. Esse non furono più legate come le botteghe agli stili, furono dichiarazioni d’intenti di chi condivideva una risposta ad una delle tante crisi del secolo che ha cambiato epoca e sistema ogni due lustri; quanto fossero originali ed effimere le risposte fu evidente quando il manifesto prese esplicita coloritura politica. Il sistema relazionale allora diventò sistema di alleanze e politica della cultura e generò inclusioni ed esclusioni, entrando di diritto nel 900 come Secolo del Demerito, che si è lasciato dominare dalla cultura che non piaceva a Benda, in cui economia e comunicazioni di massa hanno assunto l’eccessivo protagonismo che fa delle cellule vitali, troppo vitali, un cancro.

I “Manifesti” hanno sempre scritto una intenzione comune, non come le poetiche; si guardino quelle manieriste pubblicate da Panofsky, che illustravano segmenti di attività teoria e pratica (Idea 2006, 1924): l’idea di Lomazzo, come il Trattato di Leonardo, suggerivano il metodo del passaggio dall’immaginario alla realizzazione, i colori del vago (l’abbozzo, le macchie nel muro) da indirizzare nella connessione giusta dei linguaggi dell’arte; così che l’evento si presenti ad ogni astante, autore compreso, nello spazio di una tela, di un’Opera. L’Esasperatismo limitando l’affermazione al rispetto dello spazio del vago, il luogo del sacro, ha sorte diversa dai Manifesti delle avanguardie artistiche durati lo spazio di un mattino: perché la loro intenzione sfumava nella storia atmosferica; calpestando il luogo sacro, hanno fabbricato il feticcio, l’Opera d’arte – che scherzosamente hanno insistito doversi chiamare polemicamente “opera” – mentre diventava idolo dei tempi d’oggi, valore assoluto ed irrelato: quel che il Bidone non può fare, perché è un’architettura simbolica; grazie a questa misura, ha saputo cioè mantenere il suo ruolo.

Il mercato ha imposto all’arte i suoi tempi rapidi, gli artisti hanno inteso e risposto, esperti come sono di intuizione delle mode. Ma il mercato e l’artista sono ruoli diversi, come mangiare salmoni e osservarli risalire la corrente: capire cosa lascia il pubblico fuori dalle sale di opere che non emozionano – che sono anestetiche in quanto incapaci di suggerire una esperienza – è il campo d’azione del gallerista, non dell’artista. Aver assunto nell’800 il ruolo di curatore di se stesso non significava confondere le due anime come fa l’artista quando estrinseca nel “Manifesto” l’idea e confonde il ruolo del pensiero con la pratica dell’arte, e la creazione, non trovando misura nella materia, travolge ogni cosa. Se Giuliani oggi può parlare di un “Manifesto” che ha 15 anni, più di ogni altro nel tempo, è perché ha dato una risposta diversa al dialogo che strinse i dioscuri dell’arte del 900, Theo e Vincent, simbolo della nuova arte e delle sue due gambe protagoniste infine eguali, mercato e creazione. Giuliani è artista, ma è anche gallerista: attento al perenne squilibrio che c’è tra creatore e astante, che già generò i problemi del genio e della ricezione; sa come l’artista aspiri al riconoscimento e operi per la confusione. L’esasperatismo, parola che non a caso è già entrata a far parte del lessico italiano Treccani – perché se ne sentiva il bisogno – interpreta il quotidiano distacco dell’arte dalla storica definizione del bello, che cambia ad ogni epoca.

La definizione dell’arte è la creazione di un’opera: l’esasperatismo è un significato, una filosofia dell’arte, un’Opera informale al massimo che individua il valore nell’ironia oggi; è una delle funzioni dell’arte, ma qui si determina in un aspetto nuovo, che va oltre il comico, la commedia, la satira, la vignetta e via dicendo. L’esasperatismo coglie come in questo mondo del benessere abiti l’abisso della responsabilità, conferita tutta all’uomo in un mondo che non sa creare un sacro condiviso, e cerca radici in falde d’acqua profonda non consunte dal tempo. Un Dio da benedire e maledire fa ritrovare la forza e la fiducia della rinascita, quel che fa ogni uomo ad ogni istante, quel che dice con chiarezza il simbolo del Bidone.

Perciò Giuliani ha ancora tanti artisti intorno, perciò s’impegna a rinnovare l’autobiografia del movimento, che è un’Opera che ha cercato un linguaggio rispettoso dell’indicibile. L’intenzione del manifesto Esasperatismo Logos&Bidone ancora il senso nel flusso continuo di Monsieur Teste, la testa pensante che s’interessa di tutti i punti di vista e s’incuriosisce delle sfumature della comunità. Celebra uno spazio in cui tutto ciò si condensa e riesce alla misura, ma resta nella giusta vaghezza. Non a caso la decisione più costante è stata rifiutare ogni adesione politica e persino il sostegno delle istituzioni di partito, una scelta difficile nel mondo d’oggi. Affermare benefica l’esasperazione costruttiva è di necessità polemica con il potere che nega il futuro favorendo mostri ecologici e impedendo l’azione innovatrice: è favorire nel quotidiano l’esasperatismo e la società degli apoti, quelli che non la bevono. Occorre formare il pubblico così nel mondo della televisione, intendendo col termine non la TV ma la visione  contemporanea che oggi si ha del mondo, attraverso uno schermo in cui tanto spesso i mediatori sono bugiardi. Lì non c’è l’artista che guida alla magia del mondo, ma chi vuole conquistare l’astante alla cecità: il commerciante piazzista d’oggi, il mago della comunicazione, è il vertice del volgare. Contro, insorge l’indignato: o meglio l’esasperatista – dal 2000 abbiamo grazie a Giuliani il termine giusto.

Perché non è il Male che così si condanna ma l’assenza di gusto, d’ironia, che fa passare le ideologie e le bubbole del giorno: reagire si può se si recupera l’infinito. Pare perso, ma è sempre qui, dietro i miei occhi, non è perso se io guardo. Io che stranamente resto costante nel tempo, come la voce, inconfondibile e pronta al riso argentino al comparire del buffo e del meraviglioso. Il pellegrinaggio trova sempre la sua conchiglia, il nautilus, il pettine di Santiago, scritto nell’aritmetica, musicato in aurea misura… l’immaginario fantastica e chiede riconoscimento agli astanti dello spiraglio di futuro intravisto. L’artista non costruisce un feticcio, quando cammina nello spazio del sacro – il mistero. Il recinto dell’architettura simbolica di Hegel (Architettura simbolica autonoma, terza parte dell’Estetica) vuol ‘rendere visibile’ la possibile analogia ponendo insieme i simili per chi saprà vederla; se il sacro è comunità, Hegel cita Goethe, l’analogia ipotetica va poi riconosciuta e condivisa nel ”fine di tale vincolo e nel come di tale vincolo”, le cronache del vivere quotidiano con il giudizio estetico che identifica quel che è rilevante; solo così il bello si offre al sorgere dell’arabesco, che è “un diritto dell’arte … un dovere dell’architettura”. L’arabesco muta la forma vivente in struttura portante, un significato circolare o rettilineo che sa adattarsi ad altri contenuti: “di modo che tutto ciò che potrebbe sembrare distorsione, innaturalità e rigidità delle forme vegetali va considerato essenzialmente come adeguata trasfigurazione” perché posto in relazione ad un fine – che se non trasforma l’opera in organismo autonomo – idolo – gli conferisce movimento.

La sacralità è idolatria, se scambia l’intenzione con l’idolo, il manifesto col mistero. L’artista divenuto mecenate di se stesso non può dimenticare la comunità del linguaggio. Le immagini acherotipe che si scrivono da sole come la sindone e la veronica, possono ancora portare dare luce nel dibattito tra iconofili e iconoclasti: si scrivono da sole le immagini del Cristo, ma anche quelle scritte nelle pietre e sui muri, quelle che compaiono nelle nuvole in cielo, i bagliori nascosti che sono ovunque e che interpreta al meglio chi viene detto perciò ‘artista’. Il gallerista invece, colui che scrive intenzioni, realizza la sua Opera se salvaguarda questo spazio, senza creare feticci. È il girotondo del mistero che l’operazione blasfema interrompe, e fa dell’artista l’emittente esoterico che deride la cecità del ricevente. Non un futurista ma un oscurantista è chi crede che per capire la luce di Vermeer bisogna farselo raccontare dalla storia e dalla critica: dopo Proust, tutti sappiamo che non è così, che la piccola musica che ne sorge suona per ognuno in modo diverso perché riconnette le diverse sfere della memoria – ch’è l’ultima persistente imbattibile individualità che nemmeno il contemporaneo riesce ad annullare. È essa la vera cassa di risonanza del sacro che si affida all’artista/critico/sacerdote solo per meglio vibrare in ogni petto a suo modo.

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