La politica della comunicazione e le regole: Il Grande Tribunale dell’Opinione Pubblica (1)

di C. Gily Reda

Gaetano Filangieri
Gaetano Filangieri

1. Il problema della politica della comunicazione

Il tema della politica della comunicazione viene oggi affrontato spesso dalla scienza che le si dedica, perché in tutti i percorsi della governance la comunicazione ha un posto rilevante, perché si interseca praticamente con tutti i livelli della gestione del potere; la sua ottimizzazione è e deve essere obiettivo costante, perciò questa sociologia si divide in numerose altre scienze istituzionali, ciascuna delle quali mira appunto allo scopo della determinazione ulteriore del tema, nell’ottica in progress tipica della scienza, che consiste nel trarre conseguenze dalle premesse. Viene anche studiato dalla scienza politica, per osservare ed approfondire i metodi in quanto essi rioperano sulle forme di governo e contribuiscono a mutarne la concretezza storica: anche qui vale il motto più citato, forse, della scienza della comunicazione – Il mezzo è il messaggio, frase detta da McLuhan nel 1964, quando lo studio dei media non aveva ancora raggiunto linee generali di analisi teorica, mentre era già molto progredito come pratica tecnologica, artistica, di analisi scientifica. Un motto vero in special modo per i media, ma che riguarda tutta la tecnica come problema, staccarsi dal vero comporta la valutazione dei mezzi e l’adattamento ad essi. Perciò l’operato delle scienze sulla politica della comunicazione sono molto interessanti, anzi costituiscono una parte importante dell’esperienza del mondo. Perché anche se quel che viene in mente quando si pensa al termine esperienza è il fatto personale, la partecipazione ad un evento anche minimo- basta riflettere ed è chiaro come molte cose aiutino il contatto reale a divenire esperienza, anche prima del fatto virtuale c’è il senso comune, il gusto, il tessuto relazionale – tutte centrali esperienze. Oggi il mondo è globale e complesso, la vera esperienza in cui si acquista coscienza della storia, è sicuramente la seconda, analizzata appunto dalle scienza sociologiche e politiche.

Proporre un punto di vista filosofico quindi nulla toglie al riconoscimento di questi fatti – parola antica per dire asserzioni certe, che poggiano in misure, strumenti e nuove scienze adatte a probabilità ed indeterminazione, raggiungendo punti di vista precisi che costruiscono il sapere cui tutti attingono. Ciò non toglie però che il punto di vista della riflessione sia diverso, anche quando si abbandonino le idiosincrasie per la tecnica che hanno condizionato (e condizionano) molte filosofie contemporanee. Né toglie che questo punto di vista, quello della filosofia politica, possa avere una grande importanza nel discutere di questi temi.

Il percorso seguito dalla scuola di liberalismo sostenuta dalle due fondazioni liberali che editano il testo è stato di avviare una discussione biennale tra studiosi del liberalismo di varie università, per andare a fondo in un discorso urgente, ma difficile da trattare, con documenti e scritti elaborati dal gruppo di studio. Ma in tutti si avvertiva il classico entimema liberale: per chi afferma la libertà come valore, cioè il liberale, è possibile parlare di una legislazione costrittiva o almeno regolativa? Può la concezione liberale pensare un intervento limitante la libertà di espressione?

Ora, l’entimema è un sillogismo imperfetto, in quanto suppone premesse che non chiarisce o che non chiarisce in modo adeguato, e fa incorrere in errore quando chi deduce gioca su un doppio senso del termine: qui la confusione deriva dall’equivoco tra libertà e libertà politica – e sui due sensi di quest’ultima, libertà negativa e positiva. Addirittura quattro – e sono quattro storie diverse, che i due secoli scorsi hanno vissuti in sequenza, sacrificando molti uomini ad una aut l’altra accezione del termine.

Questo è quel che qui si argomenta, nella ferma opinione che il migliore artefice di una politica della comunicazione sarebbe il pensiero liberale per il suo profondo rispetto della libertà di pensiero; solo esso può individuare le norme essenziali senza moltiplicarle. Ma per fare ciò dovrebbe uscire dal culto del passato, dalla lettera antica, che è ormai un’altra storia, avere il coraggio di pensare oltre la storia, di far teoria, e abbandonare la diffidenza verso quelle “forme di regolamentazione statale oltre quelle già previste dalla normativa penale” (documento del ’96 Fondazione Einaudi). Se non commettono delitti, non si possono colpire coloro che attentano alla libertà – ed ecco, il vecchio, costante, dilemma del liberalismo. Ma lo è davvero?

Un esempio di coraggio, anche troppo estremo, ha dato il liberale Popper, grande maestro della coscienza liberale. In un libro recente e passionale, Cattiva maestra televisione, disse : “La mia tesi è che oggi stiamo educando i nostri bambini alla violenza attraverso la televisione e gli altri mezzi di comunicazione. Purtroppo abbiamo bisogno della censura. Mi spiace doverlo dire proprio perché sono un liberale e non sono favorevole alla censura. La televisione è diventata un potere politico colossale, nessuna democrazia può sopravvivere al suo abuso”.

Questa frase vale da metafora dell’atteggiamento isterico del pensiero liberale di fronte alle regole. La libertà negativa impone che nulla violi la libertà di espressione – ed ecco il lapsus freudiano di Popper, che proprio per il troppo coraggio salta alla parola ‘censura’; ma si poteva dire legge, legge quadro, regola, codici deontologici… Ma il pensiero liberale è nato, e sempre nasce, chiedendo libertà e sul tema si mostra ipersensibile – ma l’argomento richiede serenità, la filosofia, come la scienza, non è la passione.

Un tema che ha suscitato molti dibattiti, che ancora oggi echeggia senza molta scienza, è la differenza del liberismo e del liberalismo: qui si faceva la differenza tra le e la libertà, vale a dire tra le singole possibilità che si aprono all’azione di tutti come libertà da esercitare – le libertà; e invece quel valore irrinunciabile per cui la persona non sopporta in alcun modo di essere coartata, e vuole comunque dire e fare qualche ritiene giusto – la libertà. Il liberismo è stato appunto anche storicamente un esercizio delle libertà al plurale, una teoria economica che fa parte della concezione liberale nel senso che essa nasce da questo esercizio: storicamente, il liberalismo nasce dall’affermazione del libero scambio contro l’aristocrazia delle dogane e dazi; nell’illuminismo, le due anime congiunte della filosofia, della storia, dell’economia, collaborarono nel coniugare due concetti molto diversi tra loro. Quando si ritornò a cercarne la distinzione, fu per il doppio motivo dei regimi totalitari e del cambiamento dell’economia, che invece inclinava ai monopoli – ci fu chi volle perciò affermare il liberalismo antiquato. La risposta liberale fu che il concetto della libertà al singolare sopravvive sempre, che si può anche pensare un liberalismo senza liberismo, se il regime dei monopoli si mostrasse più rispondente al tempo. Insomma, c’è un liberalismo perenne ed uno in tempo. Quando Croce affermò il liberalismo contro il liberismo, non intendeva condannare l’economia di mercato, ma piuttosto affermare che sono pensabili congiunture economiche in cui il puro mercato debba andare soggetto a limiti che consentano uno Stato liberale nella sua necessaria storicità e contingenza. Una simile limitazione, pure nello specifico incidente su un motivo portante delle tesi liberali, non gli si presentava come una diminuzione della coscienza liberale, della visione liberale nel suo insieme. Perché il liberalismo non è un sistema di pure affermazioni astratte, di utopie, di dogmi di tesi o programmi, è una concezione politica, che ha il punto d’equilibrio nella libertà e nel suo esercizio: ma ciò accade in una determinata società, dai problemi storicamente determinati, che vanno risolti pragmaticamente. Può accadere, guardando da questa ottica, volta come ogni visione politica all’intero contesto storico sociale, che alcune libertà, alcuni ceti, alcuni gruppi di potere, vadano limitati nel libero esercizio delle proprie affermazioni – si pensi al caso dei monopoli. Simili limiti non minano affatto la natura liberale di uno stato, anzi l’avvalorano. Il liberalismo è una concezione politica liberale elaborata in una certa storia, in cui l’ottica dell’equilibrio delle libertà si misura nel giudizio, che sceglie la configurazione socio giuridica capace di porre al meglio la libertà come valore condiviso. Il liberismo in questa ottica è una concezione prepolitica come l’anarchismo, una difesa della libertà ovunque e comunque, astratta affermazione di valore sia nella forma economica che in quella utopica. Il liberalismo invece è una visione politica che non solo identifica il valore della libertà come suo centro focale – che è ancora una visione di filosofia politica e non una visione politica – che cala il valore nella storia del tempo, segnalando le metodologie più adeguate, nel presente, per indirizzare l’azione verso un ideale che resterà tale, una bandiera non una teoria.

Indebitamente trasformato in concezione politica, sia il puro concetto della libertà che il liberismo possono coprire libertà incompatibili con una visione liberale perché tendenzialmente prevaricatrici. L’idea di libertà ha una efficacia retorica dotata di una precisa funzione, che non si identifica nell’affermazione di ogni libertà: per questo occorre il giudizio storico e la valutazione politica della libertà, individuata in un corpo sociale storicamente e giuridicamente determinato. Il liberismo può difendere la libertà del forte contro il debole, senza lo stesso correttivo di una visione politica.

La concezione liberale non propone censure ma regole condivise e sottoposte a controllo. Il discrimine è il senso, non tutte le libertà sono liberali. A ciò si indirizza la politica della comunicazione come teoria.

Le scienze sono artefici delle politiche della comunicazione, che per la teoria sono pragmatiche che si estrinsecano nella metodologia corretta delle politiche dell’immagine e teorie dell’informazione. Lasciamo da parte la complessa distinzione tra informazione e comunicazione e facciamo casi concreti, quelli che spingono la teoria alla riflessione, in quanto in essi si riscontra un allontanamento da una corretta concezione liberale.

Tra i tanti possibili, scegliamo un esempio emblematico della storia della RAI in Italia, quando la fine del monopolio (la vittoria del liberalismo) fu siglata a cinque minuti dalla mezzanotte dalla scadenza prevista – poco tempo per riflettere. Si veniva. È vero, da una lunga discussione, in cui avevano tenuto banco però le divisioni politiche e le indecisioni sostanziali, tanto che molto, anche in seguito, fu regolato dalla Corte Costituzionale e non dai Parlamentari. Il risultato è il duopolio televisivo italiano, o la situazione attuale, difficile da definire. Una situazione che stupisce il mondo per la verticale deficienza di liberalismo.

Il problema, allora come ora, sta nel procedimento frammentato della discussione, in cui ognuno tira acqua al suo mulino e la ricerca non affronta nell’insieme il grande tema dei fini dell’azione, delle possibilità implicite, dell’utopia ideale. Cioè, il quadro della speranza di soluzioni. Non è certo la ricerca né la teoria a decidere la politica della comunicazione come ogni aspetto politico; ma essa fornisce quadri di possibilità utili a muoversi nei labirinti della società e del pensiero giuridico.

Il problema oggi come ieri non è la singola decisione, che obbedisce spesso a prassi che danno poche chance su cui ragionare e occorre decidere. La concezione liberale, che non è liberismo né affermazione astratta, si costruisce nel chiaroscuro degli elementi, nella loro valutazione, elabora giudizi storici che sono i binari su cui continuare e riflettere, introducendo tutte le novità – perché si tratta di un pensiero polemico, che non insegue una Idea ma il riconoscimento di un elemento abnorme che lede il rispetto della vita associata.

Il fatto che si tratti di un problema troppo grande o troppo ovvio per la ricerca e la teoria, l’idea presente nel senso comune e sapientemente instillata in esso, è del tutto falsa. Nessuna scienza teme l’infinito, come dimostra l’astronomia; nessun ambientalista dirà che il problema del buco dell’ozono è troppo grande per noi, tanto vale pregare. La filosofia come scienza è quella che meno di tutte ha il problema dell’infinito.

Nel disegno di una formula convenzionale come politica della comunicazione si afferma un campo di temi connessi. Che non si affrontano per trovare la soluzione, la ricetta della cucina politica. Si analizzano invece, nella convinzione che la famiglia di problemi ha una cogenza interna che alla lunga chiarifica il quadro generale. Per evitare altri futuri politicantismi, è importante asserire e rinforzare questo aspetto del pensiero politico liberale.

 

Sarà utile qualche esempio dei temi che si presentano e che difficilmente sono affrontabili dalle attuali scienze, che segnano confini stabili che impediscono le analogie costruttive.

Politica della comunicazione vuol dire

1. Partire dalla tesi che l’informazione è la materia prima della nostra cultura, che la sua organizzazione lo è della politica e dell’economia. Non c’è settore di informazione e formazione che può non dare risposte in materia. Occorre la costituzione di un quadro organico.

2. Riconoscere che la comunicazione non ha confini nazionali e che l’analisi dei contenuti non può chiudersi in province, anche ampie

3. Analizzare il problema della legislazione e regolamentazione nel settore: esse infatti sono presenti in tutti i campi dove pure si afferma la libertà del singolo di operare secondo regole che ammettono alcuni comportamenti e ne vietano altri

4. Elaborare codici di regolamentazione in collaborazione con i settori

5. Valutare l’efficacia della comunicazione dalla resa del prodotto: se il target non comprende una politica o la politica in genere, c’è un difetto di comunicazione da individuare

6. Considerare la rilevanza costituzionale di una mancata trasparenza della comunicazione come lesione del diritto dovere di voto.

 

Sono solo esempi, a dimostrare come basta riflettere, e si aprono tanti campi, senza toccare il problema della censura, dove si può procedere ed ottenere una maggiore trasparenza rispetto al presente. Ma si potrebbe ancora trattare la questione del duopolio bilanciato, della regolamentazione / autoregolamentazione, della media education, del controllo democratico dei contenuti dell’informazione…

L’attività meritoria di chi coltiva il pensiero politico senza avere come unico fine il potere del governo, consente a soggetti politici non istituzionali, come la Fondazione Cortese e la Fondazione Einaudi, di seguitare l’analisi, che potrebbe sostenere una proposta concreta capace di riconoscere e rinforzare il problema.

In Italia vige la più volte rifiutata dal consenso popolare legge di finanziamento pubblico ai partiti. Questi soggetti politici, benché non organici, sono formati in gran parte da intellettuali, da persone che hanno accesso a campagne di stampa e di opinione. Perché non intraprendere una battaglia importante, chiedendo la modifica della legge di finanziamento pubblico ai partiti nel senso di riservare d’obbligo una percentuale a questi studi – non tecnici, o almeno non solo tecnici. Con una regolamentazione apposita, questa modifica potrebbe dare buoni frutti.

La politica della comunicazione non decide lo Stato se non in quanto a mediazione politica. Nella politica liberale, le tesi sono elaborazione delle parti sociali, organizzate in partiti, sino ad ora – ma l’invecchiamento di questa forma di associazione può ragionare su altre coerenti soluzioni. Giustamente perciò ogni partito finanziato dovrebbe elaborare una propria visione d’insieme: questo è il programma, non l’insieme sconnesso dei bigliettini che ognuno mette nel cappello che s’è fatto girare in un ambiente ben climatizzato.

Rispettare le modalità di comunicazione e decisione comune è la base del pensiero liberale – che si differenzia dal democratico perché non crede che tutte le opinioni abbiano lo stesso valore. Giudica, discrimina, sceglie. Ciò fa sin dalla nascita. Perché se nel 1789 è lotta rivoluzionaria contro il feudalismo ed il potere aristocratico, nasce come pensiero politico con le lettere dei Tractarians, dall’impegno di diffondere lettere in cui avviare una comune valutazione critica delle proposte politiche ad opera dei cittadini. Libero pensiero come diritto e come esigenza di formazione del diritto alla critica.

Credo che bastino queste poche ultime parole per capire quell’esempio da cui abbiamo iniziato: che un vero liberale, come Popper, rischia anche di parlare di censura: ma non si chiude gli occhi di fronte all’evidenza.

Solo che non occorre tanto.

GF Gily La politica della comunicazione e le regole (1)