Ma la realtà è numero? O sono le idee? (5)

di Stefano Ulliana
LE DIECI COPPIE DI CONTRARI
LE DIECI COPPIE DI CONTRARI

Aristotele Metafisica, 990° 18 – 993° 27

Aristotele, Metafisica. A cura di Giovanni Reale. Milano, Rusconi, 1998 (1993¹). Pp. 51 e segg.

I passi di Aristotele e il commento

(23) In generale, ricercare gli elementi degli esseri senza aver distinto i molteplici sensi in cui si intende l’essere, significa compromettere la possibilità di trovarli, specialmente se ciò che si ricerca in questo modo sono gli elementi di cui gli esseri risultano costituiti. Non è certamente possibile ricercare di quali elementi sia costituito il fare o il patire o il dritto, ma, se mai questo è possibile, lo è unicamente per le sostanze. Sicché, cercare gli elementi di tutti gli esseri o credere di averli trovati è un errore.

Mentre, quindi, Platone è il filosofo della chiusura, Aristotele diventa il pensatore che salvaguarda una sorta di apertura, anche se certamente e con grande attenzione non quella precedentemente affermata dai Presocratici, che invece si perita quasi sempre di cancellare dal novero delle possibili alternative. Così l’apertura delle differenze aristotelica conserva una certa dose di restrizione privilegiata: la regolazione primaria costituita dalla serie delle principali categorie non può infatti essere assoggettata al sopraggiungere della determinazione, così come avrebbe invece voluto un filosofo, che seguisse la metodologia d’intervento razionale platonica.

(24) E come si potrebbero apprendere, poi, gli elementi di tutte le cose? In effetti, è evidente che in precedenza non si dovrebbe possedere alcuna conoscenza. Infatti, nello stesso modo che chi impara geometria può ben avere altre conoscenze, ma di quelle cose di cui tratta questa scienza e che egli vuol imparare non ha in precedenza conoscenze, così avviene anche per tutte le altre scienze. Di conseguenza, se ci fosse una scienza di tutte le cose, quale alcuni affermano, colui che la impara dovrebbe, in precedenza, non sapere niente. Invece, ogni tipo di apprendimento ha luogo mediante conoscenze che precedono totalmente o parzialmente; e questo, sia che si proceda per via di definizione (occorre infatti che gli elementi di cui consta la definizione siano in precedenza conosciuti e noti); e così avviene anche per la conoscenza per via di induzione. Se, poi, questa conoscenza fosse innata, sarebbe cosa ben strana, perché possederemmo, senza saperlo, la più elevata delle scienze.

Così la determinazione d’essere – che anche Aristotele accetta – deve provenire dall’applicazione dei due principi d’identità e di non-contraddizione e deve risolversi nella delimitazione e definizione di sostanze singole e non universali. Gli universali infatti restano fuori da ogni determinazione d’essere, perché prioritariamente funzionali – come categorie – alla determinazione astratta dei modi di esistenza delle sostanze singole. Senza questa prioritaria funzionalità non si potrebbe parlare della possibilità di un apprendimento, ovverosia del passaggio da una condizione di ignoranza ad una di conoscenza. In questo senso l’apprendimento aristotelico muove per primo dall’applicazione lineare e consequenziale dell’ordine delle categorie, per procedere al successivo uso dello strumento linguistico di nominazione e di primo giudizio (il genere e la specie nella “definizione”) e per concludersi – attraverso l’uso intermedio dell’induzione – nell’applicazione fondata e ragionata del meccanismo sillogistico. Non può dunque esistere una sapienza superiore e prima, univocamente determinante nei confronti di tutte le altre discipline scientifiche, proprio perché questa forma di sapienza avrebbe i connotati e le caratteristiche della sapienza platonica e, soprattutto, della sua modalità univocizzante. Resta in Aristotele la richiesta dell’universalità e della necessità per la conoscenza, ma decade la necessità di una forma primaria e cogente, costringente, per la conoscenza in generale. Ciò non impedirà che Aristotele stesso argomenti intorno ad una Sostanza prima (Dio), o che la qualifichi – al termine del Libro Λ – attraverso l’immagine e la figura dell’unico comandante dell’esercito. Anche se, anche qui, il valore dovrebbe forse essere attribuito all’orizzonte di scopo ed alla sua potenza direttrice e regolativa, più che all’atto di un’unica invariabile determinazione.

(25) Inoltre, come sarà possibile conoscere gli elementi di cui le cose sono costituite, e come ciò potrà risultare evidente? Anche questo è un problema. Si potrà sempre discutere su questo punto, così come a proposito di certe sillabe: alcuni dicono, infatti, che la sillaba ZA è composta da D, S, A: altri sostengono, invece, che si tratta di un suono distinto e che non è riducibile ad alcuno dei suoni conosciuti.

Mentre i Platonici parlano, poi, di elementi, essi li devono intendere inclusi e nascosti nella relazione determinativa. Ma in questo modo essi li sottraggono all’apprensione ed alla verifica. Al confronto d’opinioni fra i saggi o gli esperti. Mentre la loro conoscenza sarà dogmatica, perché imposta secondo una pregiudiziale univocizzante di determinazione, quella suggerita da Aristotele conserverà l’apertura di un confronto sul giudizio e sull’argomentazione successivamente sviluppata.

(26) Inoltre, come si potranno conoscere gli oggetti dati dalla sensazione, senza avere la sensazione stessa? Eppure dovrebbe essere così, se gli elementi di cui sono costituite tutte le cose sono gli stessi, così come tutti i suoni composti risultano dai suoni elementari.

Essendo soprattutto una conoscenza che muove insieme al movimento stesso della sensazione e che lo accompagna nel suo venire ad essere in modo determinato, essa manterrà sempre aperta la relazione osservativa e la dialettica sussistente fra il piano distinto delle definizioni e conclusioni e quello egualmente distinto delle sostanze singole e particolari (sensibili propriamente dette). Al contrario lo sviluppo diairetico e dialettico platonico conserva un carattere previamente inclusivo, che impedisce lo sviluppo e la trasformazione della conoscenza, così come degli enti esistenti.

Conclusioni

Dunque, da ciò che sopra si è detto, risulta evidente che tutti i filosofi sembrano aver ricercato le cause da noi stabilite nella Fisica, e che non si può parlare di alcun’altra causa all’infuori di queste. Ma essi hanno parlato di queste cause in maniera confusa. E, in un certo senso, tutte da loro sono state menzionate, mentre in un altro senso non sono state affatto menzionate. La filosofia primitiva, infatti, sembra che balbetti su tutte le cose, essendo essa giovane e ai suoi primi passi.

Così Empedocle afferma che l’osso esiste in virtù di un rapporto (formale). Ora, questo non è altro che l’essenza e la sostanza della cosa. Ma, similmente, è necessario o che anche la carne e ciascuna delle altre cose sia in virtù di un rapporto, oppure che non lo sia nessuna. Allora, e carne e ossa e ciascuna delle altre cose saranno in virtù di questo rapporto, e non in virtù della materia che Empedocle ammette, ossia fuoco, terra, acqua e aria. Ma Empedocle avrebbe di necessità accettato questo, se altri glielo avessero detto; egli, però, non lo ha detto chiaramente. Intorno a questo si sono già dati chiarimenti sopra.

Ma dobbiamo tornare nuovamente su alcuni problemi che si potrebbero sollevare su queste stesse dottrine delle cause: forse, dalla soluzione di questi problemi potremo trarre qualche vantaggio per la soluzione di ulteriori problemi, che porremo più avanti.

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