Un artista scrittore, Carlo Improta: più che una poetica

di C. Gily Reda

Un libro da promuovere, questo di Carlo Improta, un artista da poco in mostra al PAN con le sue opere. Le più recenti somigliano a questa copertina, un volto tratteggiato a matita o a pastello, finissimo nel ritrarre l’essenziale di un sguardo – come questa bimba di Auschwitz, che sembra chiedersi perché, o meglio ‘cosa accade?’ sbalordita – lo sguardo allucinato che non è quello del bambino povero, cui è stata sottratta l’infanzia, ma che poi diventa Edgard Allan Poe, Stephan Mallarmé, John Ruskin… Lo sbalordito è schiacciato dalla crudeltà possibile. Oggi che il realismo modale riafferma la positività dei mondi possibili, dimentica, come Leibniz, che sono infiniti anche i volti della crudeltà.

Da promuovere perché si fa leggere e perché conosce l’arte della parabola, di figurare scene per far intendere messaggi. Difficili, ma resi perfettamente comprensibili; sono un’estetica più che una poetica – cioè riflessioni degli artisti sul fare arte; invece qui c’è filosofia, ricerca di verità. Carlo Improta viene da un’esperienza pittorica di ricerca, ha praticato l’informale – alla mostra del sacro dell’anno scorso a San Domenico Maggiore, nota ai lettori di wolf, espose una scultura informale (qui sotto). Tra le tante esperienze fatte imparando l’arte, ma anche mettendola da parte, per esperire il tempo e la sua moda. Che come disse Mallarmé, non è futilità ma compagnia con gli altri artisti e la comunità – cosa importantissima, che gli ha dato dubbi e certezze, nel disegno di una propria via libera, con i rischi ovviamente della libertà.

Basta guardare il quadro presentato che modula la copertina: un colore di fondo intenso e suggeritore nel silenzio; un volto disegnato con pazienza con la matita. Quel tanto che basta a cogliere l’essenziale. Non è realismo il ritratto, il volto reale, sa chi si prova, fugge quando si mette un solo tratto di troppo e confonde il senso dello sguardo.

Il volto finemente disegnato mostra la buona capacità di disegno messa da parte per sperimentare i discorsi della sua generazione – tra cui non tanti, come appunto Carlo, si sono resi contro che la storia è cambiata. Si compra un altro giaccone ma con la testa è più difficile, si deve pensare… la moda dell’informale rispecchiava la digestione – credo io – della tendenza avanguardistica del ‘900. Épater le bourgeois nel modo più anarchico possibile, ma da solo non basta. Bastava ai futuristi, ma si era prima del 1910! A che pro ormai attaccare la borghesia ormai smantellata nei fatti – e già risorta nell’aristocrazia moderna della finanza?

L’artista si distingue proprio perché sa vedere l’essenziale, nelle parole così come nei segni di matita. Giordano Bruno, molto presente a Carlo per il suo Uno-Infinito, parlava di ‘contrazione’, come quelle del parto, accentuando come per raggiungere l’essenziale necessiti la nascita dolorosa – che conquista la vita di cui si era in cerca, e si conclude, come il primo momento, nel riconoscimento, nella gioia.

Non a caso Carlo Improta pubblicò i primi scritti – Sull’incompletezza dell’essere, L’essere che non c’è – pubblica con L’essenzialista. Ma meglio di allora I ritratti di Idria mostrano come comunicare narrando sia la via più efficace – il che pensava Giordano, autore di Commedie. Come la parabola, si affrontano i temi più difficili convincendo altri a pensare.

Perché se certo il racconto è inventato, ricco com’è di scherzi da cui si genera l’amicizia tra il pittore e la modella, inventati con la giocosa saggezza del grande Bellavista, di Luciano De Crescenzo – di chi ricorda la Napoli che non è Gomorra né i bambini premiati a Berlino… che i napoletani stentano a ricordare, dopo tanto mobbing politico. Se certo si tratta di un racconto, quel che si dice è vero.

Tanto che Carlo Improta racconta la personale soluzione del problema dell’iconico aniconico, che dimostra già la copertina. Una soluzione sorprendente: la ricerca del colore di Gauguin, di Klee, di tanti, culmina in Rothko con l’esplicitamente mistica Cappella, prima del suicidio. A questo ‘esempio emblema’ di tanta ricerca, la novità di Improta è di aggiungere un volto, piccolo, grande, il segno che la moda non è tutto. Il problema del realismo, dunque, va riproposto in soluzioni nuove. Oggi il quadro genera sermoni in cerca di improbabili decodifiche; se non è l’autore a passare dal disegno al sermone. La tradizione era invece suscitatrice di consensi e dissensi, coi suoi simboli generava riconoscimento e chiacchiera. Arcimboldo disegnava per l’Imperatore i giochi della sua corte. È il mistero che Hume e Kant chiamarono ‘gusto’, l’arte è sociale.

Tornare al ritratto, anche se colto nell’infinito informe del colore, commuove il pittore: “il quadro è mio Il mondo intorno a lui scompare e tutto si spegne. L’unica luce proveniva dalla ragazza”: è il trionfo dell’ascolto, il vero segreto dell’iconico. Saper ascoltare un volto – il ritratto non è realista, chiede di scegliere l’essenziale – riesce a chi sa vedere, come diceva Leone. L’ispirazione che torna porta alla mostra che vede i suoi quadri – il comporre ieri come oggi dipende dal mecenate. Se l’informale in ogni sua corrente e figura non ha più un pubblico pagante ma solo critici, è forse il tempo di cambiare qualcosa nella via scelta dagli Impressionisti, impresari di se stessi per essere liberi di innovare. Ma si è conquistata la libertà di morire di fame, se no si sa parlare il linguaggio del mecenate: anche Leonardo si vide restituire La Vergine delle Rocce, per via del pubblico, cui si temeva di proporre un quadro di un esoterico, denso di sensi non opportuni al pubblico incolto. Ci si preoccupava del target, non di se stessi: esattamente come fa l’artista, dovrebbe fare anche il critico d’arte, e potrebbe farlo, se esercita non una professione ma il gusto di giudicare senza cattedre. L’arte è generosità, la scelta di comporre e di leggere è gratuita – anche se si prende denaro. Si può benissimo fingere di giocare – ma non s gioca sul serio.

Il pittore del racconto intende questa strana soluzione generata dall’amore dell’arte dicendo “lei è stata creata dalla natura, non dalla moda” cioè, lei è – come disse Dio nel rovo. Ma la creatura non è Dio – il filosofo sa che bisogna andare più a fondo, non basta abbandonarsi al mistero: ed è qui che ci porta Carlo Improta, non basta dire sì alla vita, constatare. Bisogna ripensare i problemi dell’arte.

Ad esempio il problema della critica d’arte che nega l’esistenza del gusto per giustificare l’insuccesso di una mostra, denuncia che l’illusione di Benjamin è fallita, quando disse che oggi il mecenate è la folla, che si sarebbe riappropriata dell’arte risolvendo ogni problema sulla libertà dell’artista. Il passaggio non è mai semplice, e sempre meditato e mediato, come ha dimostrato la storia..

Esiste un altro modo di esser critici, quello illustrato, quasi alla nascita, dal problema Theo-Vincent, che si risolse nel rapporto sincero di due artisti impresari di se stessi: i due fratelli Van Gogh, uno artista della comunicazione, altro artista della pittura; lavorarono insieme contro la moda che li condannò subito, ma fu poi vinta dal mancato mescolamento delle rispettive professionalità, che li rese entrambi artisti capaci di risolvere il loro problema nell’interesse comune, nel rispetto reciproco generato dall’affetto caldo con cui vinsero la loro battaglia. Accettare Van Gogh non fu semplice nemmeno per gli amici e forse nemmeno per se stesso – ma pure in breve divenne celebre, anche se troppo tardi perché lui ne godesse, morì giovane. Anche senza speciali vincoli di affetto, il critico può imparare a lavorare in team senza avocare a sé il diritto di giudicare oltre il pubblico.

La critica d’arte dev’essere cioè fatta con animo d’arte, considerare alienante la definizione di classi – tipico della scienza: è la via per diventare accademici medievali, tutti intenti alle loro quattro cause. Immedesimarsi nel suo oggetto, coglierne il senso, condividere un dialogo. La reazione nasce nel confronto, la cattedra è troppo spesso un muro anche per gli artisti. Nell’arte, bisogna innamorarsi, entusiasmarsi. E non barare su questa verità, mettendo tutti sullo stesso piano come nelle enciclopedie e nelle storie dell’arte per le scuole. La storia si fa col chiaroscuro, insegnò Leonardo.

L’artista chiede il giudizio del gusto, vendere è il riconoscimento della sua attività, del suo saper giocare un play, anche quando non si vince un game, si sbaglia un quadro. La vittoria è necessario stimolo al gareggiare nel game, ma saper condurre al ‘prodotto’ è acquisire le regole del gioco, del play, ed imparare a giocare mostrando capacità di tenuta sufficienti. Discutere il successo e l’insuccesso indirizzano al futuro col riconoscimento reciproco, dell’artista e del pubblico. Uso la parola ‘prodotto’ e ‘pubblico’ perché a Carlo paiono sminuenti: è preferibile il temine ‘artefatto’, ma è ricercato non semplice. Sono esse le parole chiare he definiscono ogni opera della mente, che siano arte, artigianato o artefatti.

Il racconto di Carlo Improta così ha dato modo di discutere i problemi di cui l’opera di offre una soluzione. Primo problema, l’arte contemporanea è muta; quelli che entrano in un museo si chiedono: perché capisco subito (così pare) Verrocchio e non Warhol? E la risposta è che Verrocchio parla la lingua che usa sapientemente figure che hanno già configurato nella storia un vocabolario. Se dipingo Diana, non voglio disegnare Giunone né Venere. Se scelgo la Madonna, Santa Caterina o Gesù, altrettanto. E così il racconto in cui li inserisco. Tutto chiaro… per loro, per i contemporanei… oggi invece la guida ce lo deve spiegare, perché oggi non si ricordano le storie né i simboli di allora – l’angelo Raffaele ad esempio si distingueva dagli altri perché aveva accanto un piccolo pescatore con la sua preda, di nome Toniolo, qui nel quadro di Andrea del Verrocchio. E nasceva il racconto.

Allora il problema è: ma quale lingua si parla oggi, se chi ci vive non intende? La lingua di Babele, sembra la risposta più appropriata. Ed ecco che compare il senso grande che viene dagli sconcertanti ritratti di Carlo Improta. Dopo aver fatto esperienze davvero diverse fino al silenzio, al seguito di tanti maestri di lingue bellissime che però non sono lingue, originali come le parole futuriste, impermeabili agli altri… tutti al proprio cellulare… ecco, l’arte come diceva Lukàcs davvero esprime il suo tempo. Il ‘900 non capisce il suo mondo, e l’arte lo dice.

E poi subito reagisce – il Nuovo nasce nell’intontimento massimo del Soffio dell’essenziale, la Ruah: dall’alito divino nasce l’uomo, nei suoi generi che non sono classi. Carlo intende che a Babele la salvezza è nella monade, il volto, me stesso – come ha detto Giovanni Ferrenti – Il mio piccolo mondo infinito. Per Leibniz la monade non ha porte né finestre, come forse prevale nel dire di Giovanni; per Giordano Bruno, invece, inventore del discorso, la monade è solo l’effetto della fede: la fede in se stesso che l’uomo al cospetto dell’infinito deve saper rinforzare, perché sperdersi è più facile che mai.

Ecco: Carlo Improta al rinascere del nuovo infinito in cui siamo – mezzi di comunicazione terrestri, mezzi di comunicazione di massa, computer, rete, cellulari, WhatsApp, dal 1700 all’opera, hanno dato al mondo della velocità un’accelerazione difficile da reggere Tutto questo è presente a tutti, ma Carlo sa rispondere con questo ritratto ostinato, spesso piccolo, sperso in una distesa a volte enorme di colore, rosso come in questo caso ma spesso proprio di quel terribile color viola dell’ultimo Rothko – che è la confusione dei colori dell’arcobaleno. È qui una conclusione del cammino segnalato nel video Schizofrenia dell’arte in cui una serie di opera dimostra l’autocoscienza del processo: solo la presa di contatto con la terra, come accade al Titano, gli ridà forza – e si rialza con la verbovisività, come disse Ugo Piscopo nello scrivere un proprio alfabeto, alla ricerca della parola dell’arte.

L’individualità. Essa non è un male da cui difendersi, lo è quell’esagerazione del genio, così facile alle esagerazioni degli artisti – diventa egocentrismo, nega l’ascolto. Iil fatto d’essere introspettivo, in ricerca dell’essenziale, e cattolico, dove nasce il concetto di persona, dimostra che l’arte ha un posto diverso, nella religione che non esalta solo le virtù del sacrificio, ma anche il tempo della gioia e dell’entusiasmo – com’è già dal Concilio Vaticano II.

Intimismo e individualismo sono difetti solo nell’eccesso che isola, l’equilibrio invece realizza la virtù del sapere guardare all’intimo, non vedere solo la forza ella trascendenza, perché all’intimo si giunge dalla superficie. E poi che l’individualità ben equilibrata è l’unica via per godere della bellezza del mondo, costruendo il proprio orizzonte con forza e decisione.

Quella che fu la prima parola di Dio consegnataci dai testi sacro: Lo vide, ed era bello. Molto semplice. Just do it, dicono i costruttivisti.

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