L'Obiettivo

della scomparsa 

 

     Quando nel medioevo, in un tramenìo funesto di alambicchi e presagi, l’alchimista Georg Fabricius scoperse la sostanza fotosensibile che nominò luna cornea, probabilmente non immaginava che quella medesima luna avrebbe contribuito a dare eclissi alla realtà.

Solo molti secoli più tardi infatti, quando l’involgarimento scientifico dei tempi ne aveva già mutato il nome in cloruro d’argento, si cominciò a parlare di  scrittura della luce.

Attorno ai primi decenni del secolo decimonono, i già sovraffollati uffici brevetti delle principali città europee ed americane si videro sempre più presi d’assalto da personaggi d’ogni risma fidenti, più o meno a ragione, più o meno limpidamente, d’avere apportato un contributo significativo al progresso dell’umanità. Parigi, già Lutezia, in quei giorni febbricitanti venne ancora ribattezzata Fotopoli dal grande Felix Nadar, che così ebbe ad esprimersi sul fenomeno: «Ne avrò presi tanti di questi brevetti! E per che farne poi?».

I numeri progressivi dei registri delle invenzioni crescevano in maniera esponenziale così come sempre più numerosi fiorivano i laboratori improvvisati. Sorgevano,questi pericolanti antri da moderni alchimisti, in soffitte polverose, baracche dirupate, cantine fetide locate a basso prezzo in maleodoranti suburbi malfamati; spesso contigui, e non solo spazialmente, a quei loro parenti i postriboli.

In entrambi i luoghi, parimenti maleodoranti, si andava esercitando l’arte della disparizione: negli uni dell’oggettità ritratta, sottratta, direbbe l’erudito patologo americano O. W. Holmes, della propria pellicola superficiale, negli altri del corpo-oggetto della donna, “immagine latente” nella dis-giunzione dell’amplesso reiterato. Non è un caso, a tal proposito, che proprio l’esigenza di catalogazione, tanto magnificata dagli apologeti della prima ora della sperimentazione fotografica trovò, proprio nei lupanari, un primo fiorente mercato di applicazione. Coeva alla registrazione visiva di monumenti, avvenimenti, celebrità e paesaggi, fu infatti la catalogazione di “quelle signorine” ritratte ad uso ed abuso di clienti danarosi: simulacri di donna formato budoir.

Posavano, le meretrici dal sembiante svagato – causa l’eccessivo tempo di esposizione delle lastre che costringeva ad una fissità innaturale di corpo e sguardi – adagiate, più o meno discinte, in quei loro set naturali fatti di sofà e specchi.

Specchio e copula, strumenti infernali, recita Borges, perché entrambi capaci di moltiplicare il numero degli uomini. Con la nascita dell’immagine fotografica è come se il demonio si fosse arricchito di una nuova arma, apparentata e più potente delle succitate; un’arma, si potrebbe dire, di sterminio di massa, capace della totale cancellazione del reale per l’accumulo potenzialmente infinito dei suoi doppi.

È proprio allo specchio, d’altronde, che l’immagine fotografica fu fin dalle sue origini assimilata: il deputato francese Michel Arago, primo relatore di un progetto di legge che prevedeva il finanziamento statale dell’invenzione e dei suoi primi brevettatori (Daguerre e, in misura inferiore, il figlio di Nicéphore Niepce, Isidore), esalta il dagherrotipo come lo “specchio che imprigiona le immagini”; lo stesso Holmes, un decennio più tardi, ne parlerà come di uno “specchio dotato di memoria”.

Non stupisce il fatto che il reverendo Dodgson, gran conoscitore di vite oltrespecchio, fosse uno dei primi illustri dilettanti nell’utilizzo del mezzo fotografico. Ritrattista di gran pregio, soleva ricollocare through the looking-glass tutti i personaggi del suo vissuto quotidiano; ed in particolare le amate bambine, tutte quelle timide Alice che, in ingenua posa davanti all’eternità, facevano definitivo ingresso in un mondo altro, parallelo e speculare. Un mondo di meraviglie:

 

«Alice era salita sulla cornice del caminetto e lei stessa non riusciva a rendersi ben conto di come fosse arrivata sin lì. A un certo momento il vetro cominciò a liquefarsi e diventò come una lucida nebbia d’argento.»

 

(allusioni, forse, ai liquidi rivelatori ed alla luna cornea; e quella nebbia non è forse la terra cimmeria in cui fa approdo ogni fotografo alle prese con l’emergere nebuloso dell’immagine dal fondo dell’ignoto?)

 

«Poco dopo Alice passò attraverso il vetro e saltò in punta di piedi nella stanza dello specchio.»                                                                                          

                                                                                                                  Lewis Carroll

 

Sarebbe azzardato affermare che senza la fotografia il mondo della letteratura avrebbe ricordato un capolavoro in meno?

«Lo speculativo è il riflesso (speculum) dell’olocausto dell’olocausto, l’incendio riflesso nel gelo dello specchio.»    

                                                                                                             Jacques. Derrida

Contiguità di suburra, connivenza di specchio: la fotografia, fin dai suoi primi vagiti, incontra, dà e si dà la morte, si sposa alla sottrazione finale; diviene delitto, di lesa realtà: l’obiettivo fissa ciò che non è gia più, ciò che, da quell’istante (istantanea di un delitto) non sarà mai stato. Poi, nella camera oscura-caverna platonica del mondo, solamente il silenzio freddo e tombale dell’immagine, del simulacro senza passato, sempre presente, consegnato a futuro oblìo.

Osservando i clichés inabitati di Eugène Atget, Walter Benjamin li paragona a luoghi del delitto; con la terribile, lucida serietà del gioco di parole, si potrebbe dire di tutte le fotografie che esse rappresentano luoghi di un delitto che non ha luogo, non può averlo; non solo perché ogni fotografia è evento a sé, sottratto al mondo della storia (non accade), ma anche perché costantemente produce un riposizionamento  sfuggente dell’oggetto ritratto. È delitto ed insieme alibi, l’altrove dei latini.

Dunque delitto, ed alibi; delitto impunito sempre ed impunibile, ma non già perfetto.

“La perfezione del delitto consiste nel fatto che esso è già da sempre compiuto: perfectum.

“La fotografia non è un’immagine in tempo reale. Essa mantiene il momento del negativo, la suspense del negativo, quella leggera sfasatura che permette all’immagine di esistere, prima che il mondo o l’oggetto scompaiano nell’immagine – il che non possono fare nell’immagine di sintesi, in cui il reale è già scomparso. La fotografia preserva il momento della scomparsa, e dunque il fascino del reale come di una vita anteriore.”

                                                                                                            Jean Baudrillard

Criminale e maldestra nel suo incessante lasciare tracce, nel suo ostinato preservare il momento della scomparsa; criminale in soluzione d’arresto, sempre latitante sempre qui, la fotografia non ha bisogno di avvocati.

Interrogata sull’arma, la vittima, il movente, continuerà a mentire le sue verità, in silenzio.

 

 

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