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Nuova Rivista Cimmeria

 Filosofia Italiana

di Valentina Reda

 

Il giorno 27 marzo si è svolto presso la Sala Gemito il primo dei dodici incontri previsti nell’ambito dell’iniziativa “Capire la globalizzazione… o almeno provarci”, organizzata dalla cooperativa “O’ Pappece” e patrocinata dal Comune di Napoli e dalla Regione Campania.

In questa occasione lo storico Salvatore Minolfi, in un intervento dal titolo “la lunga fine del secolo breve”, ha cercato di offrire uno sguardo generale sulla storia degli ultimi anni, al fine di costruire una prima griglia interpretativa, tale da agevolare una lettura critica delle tematiche particolari relative al processo globalizzazione, che saranno affrontate nel corso dei successivi incontri.

Dal 1989 ad oggi, la scena mondiale è stata teatro di eventi e processi difficilmente analizzabili come un periodo unitario, ma più correttamente comprensibili come prodotto della fine di un ciclo storico e scenario di un’epoca di transizione. La fine della guerra fredda ha determinato non solo la rottura di un ordine materiale, di equilibri politici ed economici, ma anche una rottura simbolica determinata dalla fine del consenso della guerra fredda, che fino a quel momento aveva comunque contribuito a conferire una uniformità al pensiero.

Il frenetico susseguirsi di eventi che ha investito il breve periodo preso in considerazione ha creato un’immagine di forte dinamismo e di continua ed incessante evoluzione verso un nuovo ordine, oscurando l’immobilismo che, in alcuni ambiti, ha invece determinato il permanere dell’equilibrio che si era venuto a realizzare nel secondo dopoguerra, in forme molto simili a quelle con cui era stato costituito. Fa riflettere, ad esempio, che, nonostante il terremoto geopolitico incorso negli ultimi anni, all’interno delle Nazioni Unite i cinque grandi (i paesi vincitori del secondo conflitto mondiale) mantengano il diritto di veto a qualsiasi decisione del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, di certo appare come paradosso che un’epoca di liberismo e di progresso economico sia segnata da dati allarmanti relativi alle spese militari (solo per quest’anno fiscale il governo degli Stati Uniti ha stanziato per gli armamenti circa settecento mila miliardi).

Secondo molti, il bipolarismo è caduto per dare spazio all’insorgere di un deciso unilateralismo, ovvero un ordine politico-economico internazionale fondato sull’egemonia statunitense. Quest’idea ha però lasciato perplessi molti altri studiosi convinti che un’eventuale egemonia sia già stata messa in discussione dal fatto stesso che se ne discuta; perché un paese possa essere definito egemone deve esistere un assetto di tacito consenso e di collaborazione nei confronti di qualsiasi decisione questo paese voglia applicare a livello internazionale. In tal caso non si può parlare di unipolarità, e quindi di sbilanciamento del potere su un unico paese, ma di unilateralismo, intendendo con questo che una sola nazione si arroghi il diritto di decidere di agire autonomamente, anche senza la partecipazione di alleati, e scavalcando le organizzazioni internazionali.

Proprio per tentare di arginare questo rischio, proprio nel 1989, fu ripreso il concetto di “comunità internazionale” con l’intento di riformare l’assetto geo-politico al fine di bilanciare la tradizionale dinamica di potenza. All’ascesa di tale concetto ha poi, però, seguito il suo declino, che si è andato realizzando con l’acuirsi delle tensioni all’interno degli stessi paesi occidentali, tensioni che hanno continuato ad infittirsi con l’inizio della lotta al terrorismo internazionale.

Samuel Huntinton, in occasione della guerra in Kosovo (in cui la NATO è intervenuta senza il consenso dell’ONU), fece notare come gli Stati Uniti tendessero sempre più ad autoidentificarsi con la comunità internazionale, mantenendo come referenti i paesi anglosassoni, il Giappone e pochi altri paesi ritenuti possibili interlocutori.

Gli Stati Uniti sono arrivati alla soglia della fase di transizione scaturita dalla fine della guerra fredda e del bipolarismo mantenendo una posizione favorevole al tentativo di riplasmare da soli l’assetto internazionale. Negli stessi organismi di pianificazione statunitensi era viva la coscienza che avrebbero avuto a disposizione una “finestra di opportunità” di circa venti o venticinque anni, tempo previsto per un’eventuale ripresa sovietica e per la maturazione della potenza cinese, in cui gli Stati Uniti non avrebbero dovuto cercare di spingere alla conservazione, ma ad un rimodellamento tale da scoraggiare o impedire del tutto l’emergere di un reale antagonista sulla scena internazionale. Questo spiega il riemergere con tanta forza del problema sicurezza proprio quando il pericolo della guerra fredda era stato scongiurato.

L’unilateralismo americano, inteso come il “recupero dell’assoluta libertà di manovra politica, nonostante le alleanze e gli impegni all’estero”, implica da una parte l’assoluta autonomia d’azione, ma dall’altra rivela l’incapacità di imporre la propria volontà e contemporaneamente il rifiuto della concertazione. Oltre i limiti esterni, quest’unilateralismo si deve scontrare anche contro limiti interni determinati, come fa notare William C. Wohlforth, non tanto dall’iperinterventismo, ma dal rifiuto degli Stati Uniti di pagare i costi connessi all’assunzione di tale ruolo.

Il ruolo degli Stati Uniti e la percezione generalizzata di uno strapotere americano nel mondo non poggiano esclusivamente su un’idea di stabilità internazionale difesa da una nazione contro gli attacchi di stati eversivi o “fuorilegge”. Più che al tentativo di conservare lo status quo, si assiste al tentativo di realizzare un progetto politico, anche attraverso la strumentalizzazione delle questioni relative ai “diritti umani”.

Il contesto degli avvenimenti che si stanno realizzando sul piano internazionale non sarebbe quindi un sistema di potenza, basato sull’equilibrio militare e sul dominio del più forte, né un sistema di diritti, in cui esiste una sovranità riconosciuta degli Stati che però può diventare oggetto di una negoziazione collettiva, ma quello che può essere definito come sistema di valori, in cui la democrazia e i diritti umani prevalgono sul principio di sovranità. L’intervento militare in questo caso è condotto per difendere principi morali, a tutela di una comunità di valori autoreferenziale. In questo caso il conflitto, collocandosi al di fuori di qualsiasi regolazione normativa, può fondarsi esclusivamente sull’autogiustificazione, configurandosi come legittimo e illegale.

In quest’ambito si collocano le teorizzazioni relative al tentativo americano di costituzione di un “terzo impero”, che si estenderebbe dal Golfo ai Balcani, argomentate dallo stesso Salvatore Minolfi in un articolo pubblicato sul n. 39 della rivista “Giano. Pace ambiente problemi globali”, riprendendola trattazione di Jacob Heilbrunn e Michael Lind riportata sul “New York Times”. Il “terzo impero” avrebbe potuto rappresentare, per gli Stati Uniti, la possibilità di un definitivo limite alla deriva multipolare del mondo. L’Europa e il Giappone avrebbero dovuto rassegnarsi al fatto che la via al petrolio mediorientale, da cui gli Stati Uniti dipendono in modo relativo,  passa ancora per Washington. Ma stavolta lo scenario è rappresentato da un’insieme di paesi in cui l’ingovernabilità si manifesta con aperta insubordinazione, che di fronte ad una cieca ostinazione americana a reprimere piuttosto che a governare, si muta in un “mostro” dai connotati politici e sociali assolutamente inediti. Gli Stati Uniti si trovano di nuovo ad assumere il ruolo di “globocop”, unici garanti di una sicurezza internazionale, che poi è in primo luogo americana.

I tradizionali alleati stentano a superare un certo limite di collaborazione e coinvolgimento nelle operazioni portate avanti dal più forte alleato, rendendosi conto di partecipare ad un progetto dichiaratamente unipolare. La guerra del Golfo fu combattuto sotto bandiere ONU, la guerra del Kosovo sotto bandiere NATO, la guerra in Afganistan sotto bandiere USA, e sembra all’incirca questo il gioco che si realizza a molti livelli nel mondo del dopo-guerra fredda.