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Nuova Rivista Cimmeria

 Filosofia Italiana

 

                                           di      Clementina Gily

1° rassegna

Napoli, Giugno 2003, Chiostro della Chiesa di San Francesco al Vomero

Salerno, Luglio 2003, Sala San Tommaso al Duomo

Vico Equense, Luglio – 3 agosto 2003, SS. Trinità (la mostra si visita venerdì sabato e domenica dalla ore 20 alle 23)

Ventuno artisti raccolgono in questa mostra le loro opere, ispirate ai misteri del Rosario, agli episodi del silenzio mistico che fanno parte della tradizionale narrazione evangelica e della preghiera. Lo stimolo è la recente introduzione dei Misteri luminosi, a fianco ai tradizionali Gaudiosi, Dolorosi, Gloriosi. La collettiva è un ritorno dell’arte all’antico, suggestiva anche per i luoghi dell’esposizione. Riporta ad atmosfere medievali, quando la pittura era la scrittura della fede, la base per i sermoni dei predicatori, un momento di raccoglimento favorito dall’evento dell’Opera. Consente la memoria di tanti momenti artistici e della stessa nascita dell’arte, che si lega intimamente al culto.

Il titolo della rassegna indica la pristina natura dell’arte, che non nasce disgiunta dalla comune umanità come dall’uso degli utensili, dalla celebrazione della gloria come dalla nobilitazione della vita. Perché anche nel caso della decorazione di un oggetto d’uso, la creazione artistica porta una riflesso di luce, che va oltre il semplice fabbricare, che indica in una linea un gusto d’infinito.

Il titolo è suggestivo, perché anche quando non si esprima nelle opere un così esplicito sentimento religioso, non si può non pensare così l’arte, che è sempre ricerca nel silenzio della sintonia con il tutto, nella ricerca della grazia dell’espressione. L’appello alla Musa, che tante volte apriva poesie e poemi, non è un atto formale, ma piuttosto la convinzione che dare forma compiuta ad un sentire estetico è possibile solo grazie al concorso di tanti fattori, di cui la nostra intenzione e la nostra ferma volontà, la nostra privata capacità, il nostro studio, non sono che una parte dell’insieme. Solo il silenzio che sa cantare con noi costituisce l’aura in cui la forma prende corpo, consentendo in verità ogni opera dell’ingegno: ma palpabilmente, esplicitamente, il silenzio è il coautore dell’arte.

Il filo conduttore della mostra illustra i misteri del Rosario, che sono elencati in sequenza nel libretto che accompagna la mostra, che quindi si presenta come un libro di preghiera. Vi figurano anche preci e litanie – ed esse sono propriamente l’evocazione del silenzio dal turbinio dell’immaginazione, una ricerca di metterla a frutto dotandola di ciò che è oltre. La fantasia, intesa come quel flusso di pensieri che accompagna il vivere come il battito del cuore, è inadatta alla nascita dell’opera. Come il battito, può diventare un’ossessione per chi ne spii la perniciosa accelerazione; mentre viene di solito messo del tutto in sordina dal rumore della vita: la fantasia deve farsi immaginazione regolata per potersi staccare da se stessa, dal proprio egocentrismo, per cogliere qualcosa d’altro. Per aprire le porte all’ascolto del mondo e lasciare pieno spazio ad una idea.

Tra le opere esposte alcune descrivono bene proprio lo stagliarsi dell’idea, oltre il corpo, affidata a simboli e colori: una raffigurazione di disegno semplice, tutta affidata al colore, è la flagellazione (Giovanni Villapiano), priva, una volta tanto, di corpi martoriati e di sangue, lascia protagonista solo la frusta ed il colore purpureo; così la Pentecoste (Romualdo Schiano) fa a meno degli apostoli e delle vesti arcane, lasciando solo fiamme rosse, degradanti nel giallo; le Nozze di Cana (Rita Ragni) prendono a protagonista solo l’amore - mani protese tengono avvinti i due, quelli tra cui imperversa il sentimento – perché solo l’amore giustifica quel consapevole cedimento del Redentore all’amor filiale.

Gli artisti naturalmente hanno risposto in modo molto diverso alle sollecitazioni del testo, è il bello delle collettive. Ma la collazione di espressioni risulta composta, molto più del consueto, perché in genere il tema unitario è meno cogente, se non del tutto assente. Si crea così tra le espressioni diverse un afflato comune che lega in modo curiosamente coerente a queste espressioni così essenziali delle immagini da altare, di icone in cui è molto forte il gusto del tradizionale, come la scultura della Salita al Calvario (Antonio Ianuario) oppure le ingenue figurazioni in stile naif di temi come l’Ascensione (Agata Senatore) e l’Incoronazione di Maria (Gennaro Zeno). Altre icone sono invece rivissute in pieno spirito del Novecento, e raccontano altre tappe, l’Annunciazione (Maria Bellucci), Il Battesimo nel Giordano (Sebastiano Iardino), il busto dell’Incoronazione di Spine (Maurizio Capuano), la Crocifissione (Maria Luisa Medugno), la Resurrezione (Gian Potito de Sanctis), l’Assunzione di Maria (Alfonso Fraia). Già quest’ultima opera mostra una precisa volontà di legarsi al presente, non solo nel modo della colorazione, nei materiali, nel gusto dello sfondo e del traslitterato: l’immagine della Madonna è quasi una foto – campa su di uno sfondo in cui l’Angelo è appena appena ali e testa rossa di fuoco. Il senso dell’oggi esplode nella nascita di Gesù (Vincenzo Montella), dove, invece di Betlemme, una classica Madonna col Bambino sfoca su di una via con auto, moto, passanti: a significare la perennità liturgica: una stalla, oggi posto da presepe, era normalità; la religiosità non deve parlare per forza attraverso tempi immemorabili. Il mistero ci circonda oggi come ieri, è nelle nostre tecniche raffinate, nelle strade percorse da demoni ed angeli come sempre. Solo che non li si chiama più così: ed è forse un male, ammonisce Elémire Zolla – non si può nemmeno più pensare a redimerli o cacciarli nel sottosuolo. Il male non si distrugge cambiandogli nome: lo dice l’immagine di Gesù in preghiera nell’orto degli ulivi (Costantino Lakiotis) – il male che Egli vede è il male nostro, non quello di Nazareth, nelle immagini che sormontano il suo incubo si presentano la droga e l’infanzia offesa in primo piano.

L’Istituzione dell’Eucaristia (Guglielmo Roehrssen) squadra una breve sintesi dottrinale per celebrare il mistero laddove è intero – simboli scritti in linguaggio matematico, galileianamente, non senza che la curvatura di un rosso richiami invece Pascal e la regioni del cuore. Tutti i colori, poi, risplendono nell’Annuncio del Regno di Dio (Maria Petraccone). E’ nel bel centro dei Misteri Luminosi, tanti arcobaleni si schiudono su di un cerchio a far da cornice a dodici apostoli visti molto da lontano: sintesi del silenzio e della parola che rende alla luce, protagonista di tutte le opere, il suo ruolo di rivelare velando, di accennare ad una verità che richiede attenzione per essere intesa.

Infine, le ceramiche e i bassorilievi. Un po’ perché piace finire con quello da cui si è più colpiti – diritto del critico. Un po’ perché la Rita Ragni, l’animatrice della collettiva, è una ceramista nella maggior parte della sua opera e lo sottolinea: apre e chiude il libro di preghiere, il catalogo, con tre ceramiche precedenti l’organizzazione della mostra, di cui due sono sue, icone del Natale e dell’Incoronazione della Vergine, alfa et omega, cioè, delle vicende narrate nei Misteri; la terza è di Lino Tortora, l’immagine di Papa Giovanni Paolo II realizzata con la tecnica tipica di questo artista, il mosaico di frammenti di ceramica. E’ una tecnica che ricorda le chiese più antiche anche quando il soggetto è diverso, ma che per solito è poco atta al ritratto mentre qui è tanto mirabilmente adoperata da saper evocare gli occhi ed il sorriso del Pontefice, in una immagine di gioventù. Ma si finisce con queste opere anche un po’ perché le due opere in ceramica, la visita di Maria a S.Elisabetta (Marianna Matacena), realizzata come il Chiostro di Santa Chiara, e la Presentazione al Tempio (Giancappetti), in una rilucente materia di splendidi colori bruni di riflesso metallico, e così il bassorilievo in rame su tela dell’episodio di Gesù e i Dottori del Tempio (Fernando Perago) e la Trasfigurazione in bronzo (Luisa Cennamo) - i pezzi che più rimangono nella memoria, con l’imponenza consueta della materia - perdono molto nel catalogo, realizzato a computer, la perizia dell’impaginazione e composizione non riesce ad occultare il fatto che poi il file dovrebbe passare alla stampa.

E qui torniamo col pensiero all’antico. Ma dov’è finito il mecenatismo delle Chiese? perché si è tanto limitato (o imbarbarito) da dare spazio a icone fatte a macchina anche quando rinnova? Mentre le cattedrali svettano in forme moderne a volte con risultati splendidi (vedi la nostra Facoltà Teologica di Capodimonte), le immagini nuove nelle Chiese potrebbero essere state riprese da libri per bambini.

L’arte, lo si dimentica, resta la via regia per ascendere al silenzio. Le tracce che il Novecento riesce a lasciare nel culto sono scarse, prive del respiro necessario che solo un mecenatismo diffuso, peraltro una tradizione della Chiesa, potrebbe recuperare. E allora, che almeno si offra a questi artisti pieni di tanta volontà di esprimersi all’interno della confessione, un catalogo!