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Nuova Rivista Cimmeria

 Filosofia Italiana

Giuliano Minichiello, Tra Pòlemos e Telos. Guido Dorso e le categorie del potere, Sellino, Avellino 2003

di Clementina Gily

 

Quante tesi trascurate della riflessione politica italiana potrebbero essere interessanti, oggi che si stenta ad argomentare l’interpretazione della nostra storia politica. Ad esempio “Dorso offre una insostituibile chiave di lettura di una società dis-integrata, quale quella attuale, di cui il carattere essenziale è la presenza/assenza del potere” (p. 26).

Ma andiamo con ordine. Il testo offre una lettura attenta di testi noti e poco noti, per delinearne le tesi fondamentali e costruire un giudizio, oltre che articolare una conoscenza. Per Giuliano Minichiello, Guido Dorso va letto come “un analista del potere” (p. 24), nient’affatto pragmatico ma nemmeno idealista o storicista, perché la sua storia non ha leggi oggettive cui adeguarsi. Cerca di comprendere la modernità (un termine molto usato alla prima metà del secolo scorso) nelle sue differenze radicali dal passato, ad esempio nell’approfondimento del concetto di dittatura, allora, e non solo allora, del massimo interesse. La differenza storica sta nel capitale passaggio, dall’antico al moderno, tra istituzione eccezionale e normalizzazione del fenomeno, caratteristica costante di alcuni regimi. Fonda la differenza il concetto moderno di sovranità popolare (come per i regimi liberali) che apre uno spazio di base assoluta del potere, assecondato dalla trasformazione atomica creata dal mondo delle nuove tecnologie (Cfr. articoli dell’ ”Azione”, 15/17-11-45). Cambia l’assetto dei problemi della politica la necessità di guardare oltre la nazione, il nuovo potere di armi di distruzione, l’esaltazione del carisma come strumento di potere (l’immagine domina più dei discorsi la politica, lamenta Sartori in Homo videns).

Il moderno innova tanto radicalmente la tradizione da rendere urgente l’analisi del cambiamento: Dorso lo ritiene il problema centrale, se si vuole intendere il senso della storia e maturare una posizione politica. Non la struttura fornisce intelligibilità, ma la teoria del cambiamento: Dorso trasforma la scienza politica in senso  kuhniano. Elemento tanto più interessante se si pensa che al tempo in cui scriveva i marxisti, teorici della rivoluzione, analizzavano strutture di classe, e con ciò fermavano la comprensione della storia ad un pregiudizio storicistico, presupponendo un assetto delle cose invece di programmare una storia costruttiva.

Dorso è teorico vicino al Gobetti della Rivoluzione liberale, i cui suggerimenti accoglie nella propria tesi della Rivoluzione meridionale. Perciò nella sua teoria è centrale l’originale analisi del cambiamento politico, che può avvenire per fasi di normalità o di rivoluzione, ma è sempre necessario, per il rapido evolversi della società che avvicenda le interpretazioni dei tempi e l’azione. La differenza nel ricambio s’intende se si distingue dalla classe dirigente la classe politica, che possono sembrare coincidenti. Invece la prima esercita il potere e lo propone in modo universale per poter costituire l’asse socio politico della decisione; la classe politica, invece, detiene il potere ed esprime il proprio interesse. Il potere ha una valenza ed una tecnica di amministrazione – quando questa o quella entra in crisi, accade il ricambio non istituzionale, l’innovazione si deve ad una prassi della classe politica che sostituisce la classe dirigente inadeguata ai problemi della nazione. La classe politica (che anch’essa muta nell’evolversi della storia) rappresenta in questo caso la funzione progressiva della società, consente un cambiamento radicale quando la classe dirigente risulta incapace di reggere alla propria funzione sociale. La classe dirigente, che dovrebbe esprimere l’ universale, può divenire assiomatica e statica, solo il periodo di mutamento rivoluzionario ripristina una nuova normalità. Comprendere la fenomenologia di questo processo caso per caso è essenziale per progettare l’azione politica. Dorso è sicuramente animano da un interesse etico: ma il procedere è squisitamente razionale.

L’analisi si compie sulla base della dottrina delle élites. Questo è uno dei punti controversi della lettura di Dorso, che pur attestandosi su posizioni gobettiane, di marxismo liberale, qui si serve di una dottrina qualificata di destra: come interpretazione storica Dorso non accetta la qualifica, rifiuta il troppo stretto legame tra teoria politica e collocazione storica. Per meglio considerarla sottraendola agli equivoci, la definisce di tradizione antica - di minoranze organizzate s’è sempre parlato, anche se con nomi diversi.

La teoria costruisce una morfologia del potere, una topologia che scandisce il divenire storico e giustifica il diritto della classe politica nella sua funzione di mantenere il potere nella sua definizione, che è di sistema di differenze. La società è creata dalla disuguaglianza, il pòlemos descrive l’antropologia delle forze sublimando politicamente la differenza e proseguendola in una ermeneutica del conflitto. Il privilegio, nella società, è necessario e costante; lo si denuncia quando diviene indebito, ingiustificata ingiustizia. Il periodo rivoluzionario allora riapre il ventaglio delle soluzioni, lo spazio democratico articola il malessere sino al rivolgimento, stacca la classe politica dalla dirigente, dalla classe diretta.

La teoria delle élites caratterizza la lettura di Guido Dorso, ma rappresenta solo il versante soggettivo e volontaristico della dottrina, sensibile alle tesi d’inizio del secolo dell’azione rivoluzionaria. Essa si completa nel versante oggettivo, il riconoscimento del potere e della sua estrinsecazione, il cui effetto si è già mostrato. Il potere è pòlemos, conflittualità permanente, presente nella società sempre. Lasciata al suo corso e giuridicamente organizzata è quel che consente la giustizia in quanto restituisce ai contendenti la pari opportunità della lotta.

La tesi non echeggia la contrapposizione amico-nemico, anzi le è alternativa, in quanto l’uomo aspira insieme sia alla lotta che alla solidarietà equanime, in quanto entrambe hanno radice nella differenza / appartenenza. L’equilibrio della politica solo così può essere giustizia, cioè collocazione motivata in gruppi e livelli degli elementi del sistema sociale, perché al pòlemos si intreccia strettamente il telos, il significato, l’argomentazione. La radice dello stato è nel conflitto semantizzato, base del patto e del sistema giuridico. Ne viene il riconoscimento del ruolo conflittuale, senza minare lo spazio delle istituzioni, della scienza giuridica, della solidarietà.

Si delinea in Dorso una concezione metagiuridica, perché si afferma che, se cessa lo stato, non si affaccia lo stato di natura: l’eventuale cessazione comporta una situazione agiuridica, che, in una sorta di algebra politica, suppone il suo opposto e lo completa. Pòlemos e telos articolano la grammatica e la morfologia del potere, disegnano il rapporto tra classe dirigente e diretta, tra classe politica e classe dirigente nella disciplina dell’autogoverno, la cui forma è data dall’azione che vi si realizza, senza che ciò comporti di necessità la scelta di una determinata forma istituzionale – non è per forza regionalismo. L’autogoverno è la realizzazione della libertà nella socialità, il telos del politico.

La libertà “scorre nei testi di Dorso allo stesso modo in cui la linfa attraversa e trasforma un insieme di parti in un organismo vivente” (p. 143) e comprende in sé le classiche definizioni di negativa e positiva, per Berlin equivalenti alla rimozione di ostacoli ed al desiderio di essere padroni di sé. Il loro contrasto ha generato le definizioni unilaterali del liberalismo, del totalitarismo, della democrazia, mentre s’intendono solo insieme: dalla lotta contro il potere alla volontà di affermarsi è una sola estrinsecazione che istituisce differenze di valore, nell’opposizione - libertà negativa - nell’esclusione – libertà positiva dei processi istituenti. Si tratta di un unicum perché in verità un processo totalmente liberale, escludendo la comunità, si vanificherebbe, e così il democratico, togliendo la libertà personale: la contraddizione è da attribuirsi al tentativo comune di fondare un sistema sul valore della libertà o della giustizia; mentre cade se li si considera, correttamente, come processo, inseriti nella dinamica dell’azione.

Elemento di stabilizzazione è il partito politico, nelle due forme in cui si presenta, di governo oppure rivoluzionario. La presenza di partiti ben caratterizzati e forti rende il quadro istituzionale coerente, ma troppo spesso ciò non accade. Il partito rivoluzionario appare debole nelle nazioni rivoluzionarie per il sopravvento dell’azione singola, come nella pseudodemocrazia per il compromesso istituzionale del centralismo politico istituzionale: in questi casi accade che la politica diventa autoreferenziale, risolvendo i problemi con accordi di vertice. Ciò svuota l’istituto della rappresentanza, il ricambio si blocca, i partiti divengono personali, la classe dirigente si distoglie dal suo fine generale e mira al particolare, si genera un apoliticismo nella classe diretta in risposta all’anomalia. Né la si compone potenziando la prassi o l’azione di governo - il guadagno sarebbe solo in tempestività.

Quest’analisi si attaglia bene al presente, può dare ragione dell’attuale incapacità dello stato, dopo la crisi accelerata da Tangentopoli, di superare il guado della transizione incompiuta.

Lo sblocco è la soluzione politica, la creazione di una nuova classe dirigente, il rinnovo istituzionale, la nuova capacità di argomentazione del contesto socio politico. Perché se è vero che il potere nello stato moderno fonda nella legittimazione tramite procedura in quanto si fa carico di funzioni tecniche di cui assume responsabilità, è anche vero che prima che ci siano soluzioni scientificamente fondate le scelte si basano su opinioni, e quindi sulla retorica che le sostiene, sul consenso. I partiti devono saper trasferire la loro ragione ideologica in culturale, in potere razionale; la classe politica e la dirigente devono saper fornire ragioni argomentative valide.

La rivoluzione meridionale è la tesi di Dorso, che si ambienta in questa complessa analisi, dalle valenze così interessanti. Essa è la conquista della libertà e dell’autogoverno del Meridione, che l’analisi storica mostra carente nel passato, imponendo un cambiamento di rotta. La questione meridionale nasce dalla politica che ha asservito la classe dirigente dell’ex Regno di Napoli alle ragioni del Nord. Formatasi in modo paradossale la borghesia rurale, la classe politica del Sud di allora, che si era creata nell’abolizione della feudalità operata dall’effimera Repubblica Napoletana, si era poi consolidata nel regime monarchico, che perse però l’occasione storica di rendersi credibile ai tempi del Risorgimento. Questa classe politica non ha saputo darsi una politica, si è limitata a comportarsi come la feudale, a chiedere posizioni di potere senza configurare una azione: da ciò la debolezza che ha generato la questione meridionale. Dall’analisi storica si configura una scelta politica chiara, mostrando l’opportunità della riflessione; ma anche ne deriva una tipizzazione ed una morfogenesi che fornisce categorie interpretative che superano il caso particolare.

La soluzione sarà di sfruttare l’occasione storica propizia per attuare la trasformazione, attuando una rivoluzione dei paradigmi d’azione. Mirando all’autogoverno come azione di opposizione e di costruzione insieme, nella libertà senza aggettivi che si è delineata, articolata nella lotta per la difesa e per l’affermazione di una politica autonoma.

A voler rapportare il discorso di Dorso all’oggi, si deve constatare la maggiore difficoltà di attuare l’autogoverno, in una diffusa assenza di una società integrata, oggi che il multiversum di Bloch - la globalizzazione - complica il disegno della linea d’interpretazione e dunque della politica, che infatti rischia ad ogni passo di affondare nel pragmatismo. Dorso suggerisce che non è una soluzione, come non lo è quella del governo forte dell’esecutivo, mentre sono proprio queste le due strade oggi più battute. Ne deriva la maggiore importanza che andrebbe dedicata alla semantizzazione del conflitto, alla soluzione metagiuridica capace di affrontare il periodo se non proprio della sospensione del potere giuridico e politico, almeno del suo forte indebolimento, lavorando per collaborare nella transizione ad una soluzione comune. Che va nella direzione di quel che De Rita definisce autonomismo come fine dello stato accentrato, del multicomunitarismo, della rete di comunità coesistenti, verso un nuovo paradigma istituzionale, che potrebbe giovarsi delle considerazioni di Guido Dorso, che si mostrano sensibili ai problemi dello stato moderno e del mutamento senza le pericolose deviazioni riscontrabili in autori oggi molto più citati, come Schmitt, tanto per fare un caso.

La risemantizzazione è essenziale, per la giuridica come per la politica, per quel connubio di retorica e di tecnica che seguita ad essere il canale attraverso cui si formano le prospettive politiche. Le idee forti non possono seguire le ideologie nella caduta, a meno di trasformare lo stato in associazioni di lobbies attente solo al proprio particolare. La classe dirigente ha appunto questo compito, contro la classe politica che detiene il potere ed esprime il proprio interesse: trasformare un interesse particolare in visione generale. Il che non è solo ideologia, è anche mediazione, capacità di trovare in un assetto pensato su un equilibrio d’interessi in cui tutte le parti possano trovare non solo la propria ragione ma anche la loro rappresentanza, in un corretto conflitto. Pòlemos e telos, non brutale potere, nel loro concorso  non generano chiacchiere retoriche ma il proprio della politica, la mediazione, e della soluzione politica, la coerenza di un interesse generale.

Trarre dalla storia la comprensione in vista dell’azione costruisce in Dorso la storia al futuro, che non è una spiegazione, non è un accumulo di fatti singoli. Situando gli eventi in una storia al futuro s’intendono le “necessità ideali rimaste insolute”, lo strato “carsico” del divenire storico”. Stare attenti all’occasione storica da sfruttare, vuol dire cercare una politica dell’irrealtà che dia voce alle “possibilità storiche irrisolte”: “l’unica forma di realismo possibile (è) quella che oltrepassa il velo dell’attuale e scorge il nucleo solido, disposto in profondità, dell’inattuale” (pp. 185-189).

L’intelligente ricostruzione di Giuliano Minichiello, attenta alle fonti consuete ma anche del tutto inconsuete delle riflessioni di Guido Dorso, si è resa, nella presente nota, in forma di riassunto per la rilevanza delle tesi espresse, che in poco spazio approfondiscono un pensiero importante per la storia nazionale, per la nostra dottrina politica. Si tratta di un autore sottovalutato, come altri del pensiero liberale italiano, specie azionisti. Già questo è un importante motivo d’interesse del testo, visto che in un paese in cui tutti si proclamano liberali, le citazioni di autori liberali sono davvero poche. Tanto per fare un caso lampante, in un periodo in cui si parla da mattino a sera di conflitto d’interessi, non si fa mai il nome di Montesquieu, padre della dottrina della divisione dei poteri. Sovrabbondano invece Erasmo, Machiavelli, Gentile, Marx, tutti importanti, ma lontani per varie ragioni dal liberalismo.

Anche più interessante si presenta la lettura per l’attualità evidenziata di tante analisi di Dorso, nonché per la futuribilità di questo modo di concepire la teoria politica. Non si tratta solo di recuperare elementi, il discorso centrale è del massimo interesse, sia per quel che riguarda la libertà senza aggettivi, che fonde senza bisogno di specifiche libertà ed eguaglianza (tesi tipica degli azionisti), sia per quel che riguarda la relazione pòlemos telos, sottolineata nel titolo.

Oggi il conflitto sembra a molti la base dello stato – sia dal punto di vista dei politici, spesso riuniti in lobbies; sia da quello dell’apolitico, che interpreta  la politica come una Thulè, dove chi merita va avanti – e merita il più ingordo e capace: in entrambi i casi, alla base della società si riconosce il conflitto come stato di natura, homo homini lupus.  

Ma, in verità, alla base dello stato di diritto c’è il pòlemos moderato dal telos. E’ l’idea che si fa concezione politica ed acquista forma nell’incarnarsi, diventa sistema giuridico ed istituzionale, garantisce la vita associata, resta presente nell’assenza, sfondo metagiuridico ineliminabile, oggetto di una possibile fede politica forte.

Tranne che nel mondo dei sopravvissuti proposti dalla letteratura fantastica, la politica moderna si fa sempre tra situazioni giuridiche e agiuridiche di uno stesso sistema metagiuridico. In fondo anche per Hobbes lo stato di natura dell’ homo homini lupus si configura in modo mitico, come il Leviatano. Non analisi ma mito, anche quando passa, con tutta la sua ingombrante presenza, per le piccole vie delle città. La realtà sociale, invece, si costruisce attraverso la storia, allontanandosi dal mito man mano che da branco si diventa comunità e poi, ancora, comunità giuridicamente regolata.

E’ ingiustificato quindi l’odierno primato della lotta senza scopo non egocentrico, che in verità non è una concezione della politica ma dell’apolitica, del conflitto eslege prepolitico che rifiuta le vie della meditazione politica.

Il curioso è che la mancata riflessione sulle questioni teoriche della politica crea di ciò una troppo nobile apparenza di opinioni in contrasto: dimenticando che l’opinione non è calunnia né sfogo né soluzione rebus ipsis dictantibus, ma costruzione raffinata, fondata sulle credenze comuni e maturata nel senso della finezza.

Discutere di Guido Dorso non significa fare filologia, per quanto salutare, ma riflettere sulla storia al futuro, approfondire per comprendere ed agire. Accettando da un grande italiano analisi e tipizzazioni capaci di indirizzare alla morfologia del potere odierno, per disegnare la grammatica dell’azione futura.