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Nuova Rivista Cimmeria

 Filosofia Italiana

 

Il mascheramento consapevole

di Viviana Reda

 

1. Il gioco del teatro

OTTO: Allora sono costretto a tradire il mio segreto professionale e renderti compartecipe del mio terzo occhio, pur lasciandoti nel giuoco fino all’esaurimento di esso, perché purtroppo qualsiasi esperimento del genere, una volta iniziato, se ne può determinare la fine solo quando il soggetto è in condizione di raccontarlo egli stesso e di riderne. Stamme a sentì. Tu credi che il tempo passi? Non è vero. Il tempo è una convenzione. (…). Il tempo sei tu.[1]

La battuta pronunciata dal mago Otto Marvuglia, ne La grande magia scritta da Eduardo nel 1948, vuole convincere uno sfortunato spettatore, Calogero, della verità del mondo delle illusioni create dal mago insieme con lui.

Il mago-ciarlatano, con i suoi affascinanti discorsi guida il pubblico nel territorio della finzione magica, individuando gli elementi centrali del processo teatrale che possono guidare Calogero, e con lui ogni pubblico e ogni attore, a guardare nudamente i meccanismi di quella “finzione” che è il gioco teatrale.

Analogamente a  quello che sostiene Bateson per quanto riguarda il gioco[2], sulla scena bisogna che si instauri un patto di credulità tale da consentire la comprensione tra scena e platea e la reciproca fiducia. Ecco perché Otto ricomincia la formulazione del suo gioco di prestigio (che allude metaforicamente al teatro stesso) dal riposizionamento spazio-temporale dei personaggi.

Il mago e il suo compare, dunque, si trovano sulla scena in una complessa mise en abyme, che vuole sperimentare nel territorio del teatro i confini del gioco.

La singolare parentela tra i due territori sembra confermata dall’identità linguistica dei termini in diverse lingue: il francese indica con  jouer l’atto del recitare e la rappresentazione teatrale, sia in inglese che in tedesco, viene indicata con una parola che significa contemporaneamente anche gioco: play, spiele.  Si reifica dunque la presenza di un isola prima di tutto linguistica  in cui  il teatro coincide con la dimensione del gioco, espandendola in uno spazio adulto e complesso in cui il ludus può arrivare ad essere totale:

OTTO: Io che esercito la professione di illusionista, mi presto ad esperimenti di un altro prestigiatore più importante di me…e così via via fino alla perfezione… Ecco il giuoco prodigioso dell’illusione![3]

Come nel gioco del bambino la proposizione del facciamo-che-io-ero[4] stabilisce il ruolo, il personaggio che si sta per interpretare, in questa commedia il mago indossa pubblicamente la sua maschera e subito la trasforma (amplificandola come in un’iperbole infantile) in ciò che potremmo definire “illusione sperimentale”.

Se seguiamo, come fa Calogero, le magie di Otto apprendiamo a godere delle meraviglie delle illusioni magiche ma allo stesso tempo impariamo il meccanismo di esse. Bisogna che questo “gioco di ricognizione” sia attento e consapevole: il nuovo spazio-tempo della scena è uno degli elementi fondamentali per poter procedere a ritroso per poter uscire dalla “finzione” e tornare alla “realtà”.

Allucinazione onirica e verità sono, nel gioco infantile come a teatro, due facce della stessa medaglia, due aspetti ossimorici della stessa condizione ecco perché l’elemento immediato e ingenuo del mondo ludico dell’infanzia sembra una condizione necessaria anche per l’attore. È  il teatro stesso, infatti, a invocare quello stato di incoscienza suprema che rende il gioco infantile così assoluto e magico. Ne I giganti della Montagna Pirandello, nei panni del mago Cotrone assegna proprio ai bambini un ruolo centrale quando, rivolgendosi a Spizzi, dice:

COTRONE: Ah, no caro! Se dice così, lei non è del mestiere! (…) se fosse del mestiere, si lascerebbe abbagliare, lei per primo, perché appunto questo è il vero segno che si è del mestiere! Impari dai bambini, le ho detto! Che fanno il gioco e poi ci credono e lo vivono come vero![5]

Ecco la ricetta di Cotrone per l’attore: imparare che “il mestiere” consiste proprio in questo gioco tanto più bello e perfetto, quanto più riesce ad essere assoluto.

Il “mestiere” consiste nel tornare bambini, nell’ immaginare uno spazio e un tempo [6] diversi da quelli presenti nella maturità della ragione, un luogo nuovo creato a immagine e somiglianza del proprio mondo interiore, in cui ricominciare a camminare, ad agire, formulando ipotesi possibili sulle vicende future del mondo.

Il teatro e il gioco formulano un’ipotesi magica di cambiare il reale, di superare la tradizionale contrapposizione dualistica realtà/sogno; da ciò discende la enorme incidenza del personaggio del Mago nel teatro contemporaneo, e soprattutto in quello di Eduardo de Filippo.

 

2. Il mascheramento inconsapevole

Il personaggio eduardiano sperimenta prima di tutto su sé stesso le possibilità magiche del teatro. L’attore compie, insieme col pubblico, un percorso inscritto all’interno del testo come liberazione progressiva che restituisca al teatro ed al suo interprete l’assolutezza del sogno infantile.

Quando nel ’29, con Sik-Sik, l’artefice magico, entra in scena il mago che fabbrica giochi di prestigio, la prospettiva drammatica risulta di un evidenza assoluta. Il protagonista è, infatti, egli stesso uomo di teatro. Colto nella rocambolesca storia della messa in scena di uno spettacolo, Sik-Sik si presenta come inconsapevole attore di un gioco più grande di lui.

Il protagonista appare figura singolare:

Sik-Sik è il mio nome d’arte. Faccio il prestigiatore in questo tiatro. [7]

Subito la sproporzione linguistica, ampollosa, sgrammaticata, talvolta incomprensibile, domina l’intero personaggio, che si mostra inadatto al suo ruolo di mago; egli potrebbe dominare la scena solo grazie al “magico” dominio delle parole; invece,  l’ipotetico cerchio magico del sortilegio, si squalifica per la boria linguistica che resta sospesa tra l’infantile ed il clownesco. Sul “tiatro” non può che calarsi allora un “vilario [8]”, altra parola impropria. Anche il gioco di prestigio non può parer vero quando lo si chiama sbagliando un “turco [9], anziché un trucco: il gioco di parole diventa il metodo con cui Eduardo pone il personaggio nella sua contraddizione con se stesso, svelando l’inadeguatezza dell’attore al suo ruolo, alla sua maschera. La parola è, infatti, il primo grado di espressione condivisa della coscienza del mondo, una prima forma di dominio sulla realtà. Sik-sik gioca con le parole e, sbagliandole, crea un rovesciamento comico che offre la prospettiva di un carnevale improvvisato che dimostra come non si domini il gioco.

Il rovesciamento, implicito nella categoria stessa del Carnevale, qui appare sempre lecito, condiviso, ma attuato in un mascheramento inconsapevole che rende l’azione inefficace, incapace di qualsivoglia potere liberatorio e, quindi, inadatta ad attuare la magia del gioco.

Eduardo descrive il fallimento di Sik-Sik nell’incapacità del mago di liberare la moglie Giorgetta dalla scatola-baule in cui l’aveva rinchiusa: per aprirla occorreva una chiave di scena, costruita allo scopo. Al suo posto compare, invece, una chiave reale che, incapace di aprire la scatola, confina Giorgetta nel baule e getta Sik-Sik nella disperazione: si distrugge in un attimo la magia del gioco che qui compare come banale effetto illusionistico, suscettibile, ad un minimo errore, di ricadere nel vuoto mondo della finzione. Come si comprende chiaramente qui predomina il fallimento, l’errore inutile che non si compie per un fine più alto, o per uno scopo particolare.

Il territorio è dunque sdrucciolevole, facile alla caduta. La scena, vissuta in modo inconsapevole, diventa portatrice di menzogna; priva di regole, perché non avverte i propri confini, essa corre il rischio di divenire il luogo di un’improvvisazione che  prescinde completamente dalla partitura, cioè dalle regole del gioco. E’ un viatico in cui è molto semplice sbagliare e perdersi.

Riuscire ad entrare e uscire dal gioco non è infatti un risultato semplice: a teatro l’attore sperimenta, regredendo ad uno stato infantile, l’assolutezza del sogno nel momento della sua realizzazione in scena.

La mise en abyme  complica però le cose: la doppia finzione del teatro nel teatro può essere una trappola per topi, una gabbia in cui è facile entrare, ma dalla quale non così facile uscire.

È un rischio sperimentato fino in fondo da Eduardo nella Grande Magia: la parola inceppata di Sik-Sik,ancora ingenua, diviene qui menzogna, una parola portatrice del senso del folle grazie alla quale Calogero impone la propria realtà.

“Addestrato” da un Mago che gioca con i sogni e le allucinazioni, Calogero dimostra di aver imparato l’arte e di sapere fare anche meglio del maestro. Nell’ultimo atto infatti Calogero coinvolgerà tutto il suo mondo in un gioco supremo, in cui ogni possibilità può essere realizzata con la sola forza del pensiero, la forza del “terzo occhio”, la forza della mente che crea i fantasmi. Eccolo sulla soglia del palcoscenico che guarda la platea e vede il mare:

 

 Si sente! Si sente! (le ondate di entusiasmo aumentano, simboleggiano sempre più l’urlare di un mare inquieto. Calogero, rapito dal giuoco magico, sovrastato dai fatti, incantato dal fascino dell’irreale, prende una sedia e si siede, guardando la platea, come per godere della visione di un autentico mare. Otto esce per la prima  a sinistra. Rimasto solo, Calogero mormora convinto) È mare! È mare! [10]

 

Il mare è la prima visione vera e propria che Calogero mostra di vedere concretamente. Da questo momento in poi ogni cosa perderà il suo statuto di realtà  nel III atto Calogero pretenderà di nutrirsi con “una immagine di formaggio[11]” e di dissetarsi con “l’impressione di un bicchiere d’acqua.[12]” Siamo dunque proiettati in uno spazio nuovo in cui la maschera, il personaggio non sono più la realtà altra in cui si entra e dalla quale, alla fine del gioco, si potrà uscire, ma siamo all’interno di una dimensione assoluta in cui la finzione diventa menzogna, limite, fuga, chiusura in un universo di follia.

Ecco il rischio del gioco assoluto, a teatro e fuori: la trasgressione della regola di base, il venir meno dell’istituzione del patto di credulità che pone tra gli astanti la realtà del divenire scenico.

La perdita del senno, esemplificata all’inizio del mondo moderno nella figura del Don Quijote, segnala la possibilità della conversione della parola teatrale in menzogna, in un linguaggio fittizio che non comunica più con quello di provenienza aprendo la strada alla follia. Non è questo il gioco della rappresentazione, che invece offre spunti per utilizzare sempre meglio i confini del palcoscenico. Nel teatro l’attore, come un giocatore, sperimenta fisicamente le sue possibilità, i suoi doppi, il pericolo che nasce dalla compresenza di attore e persona, maschera e individuo. All’interno del teatro si apprendono così i rischi del gioco e la possibilità di un loro superamento, sceneggiando un gioco sempre più consapevole, del quale un giorno sarà possibile anche modificare, riscrivendole, le regole .

 

3. La follia positiva: il mascheramento consapevole

Il teatro è , come un po’ la letteratura e l’arte in generale, luogo privilegiato dei pazzi, oltre che dei maghi. La scena offre accoglienza ad ogni follia, lato apparentemente negativo, che l’uomo rifiuta abitualmente nella società, nella vita “normale”.

Il senno dei folli è spesso il senso del teatro.

Amleto è l’archetipo del teatro e del suo insano senno. La follia viene da Amleto avvertita e gestita lucidamente, condotta in forma di rappresentazione fino alle sue ultime conseguenze. Il gioco della verità viene a disvelarsi lentamente attraverso le lucide parole di un folle tanto più pericoloso in quanto principe ed erede del trono di Danimarca, simbolo e speranza della moralità del potere. Il gioco della verità sarà condotto inesorabile fino alla fine, fino a quella Mouse trap del  terzo atto, che libera ogni dubbio residuo sulla colpevolezza dello zio, sull’assassinio del padre, sulla frivolezza delle decisioni materne. Grazie alla menzogna, dunque, è possibile condurre azioni “positive” che fanno affiorare il senso diverso e più profondo che giace nel reale intendimento della parola detta, proprio attraverso il suo fraintendimento.

La follia di Amleto è una maschera; Amleto stesso è la maschera del Nobody, che finisce per essere Nessuno[13],  attraversando costantemente la possibilità di perdersi immedesimandosi nel ruolo del Fou.

Il mascheramento offre la possibilità di essere “Uno, nessuno e centomila”, di scomparire (come Ulisse) sotto il nome di Nessuno o di perdersi nei vaneggiamenti del folle; ma il mettersi in scena offre (su tutte)la possibilità di essere sé stessi e di sperimentare le proprie possibilità. Il teatro appare così il luogo privilegiato in cui mettere in scena i propri limiti e tentarne il superamento grazie alla presenza dell’altro. Questo “altro” indefinito è la maschera, l’infingimento, o addirittura un vero e proprio personaggio che riveste questa funzione.

Così avviene al cieco Gloucester, nel IV atto del King Lear di Shakespeare che, folle, cerca nel suicidio una configurazione di fuga. Il teatro qui, contrariamente a quanto avviene nell’Amleto, si presta alla salvazione: Gloucester viene infatti condotto dal figlio non su un precipizio delle scogliere di Dover – come vorrebbe - ma su una piccola collina. La narrazione del figlio lo persuade che quello era veramente l’orlo del baratro, il cieco sale sulla cima della collina e si lancia nel vuoto: ma il volo è breve e la caduta senza danno.

 Con ciò si esce da una fase del gioco, e si apre una nuova fase: quella della rinascita; una fase nuova e vitale, la cui possibilità è offerta proprio dallo svolgersi dell’azione a teatro. S’intravede qui la prospettiva di giochi in successione, che si concatenano l’uno nell’altro come scatole cinesi, dando vita a possibilità infinite.

È chiaro a questo punto come il teatro offra all’uomo la suprema possibilità di sperimentare valenze nuove di gesti abituali, nuove possibilità di sviluppo persino per la terribile fine di ogni evento, la morte. E questo, nelle forme del teatro tradizionale, può avvenire anche grazie alla menzogna, al mascheramento. La necessità è che il travestimento sia consapevole, solo in questo modo esso può portare verità e salvezza.

La consapevolezza rappresenta dunque la garanzia che consente di entrare ed uscire dal gioco e di poter concepire la morte come semplice fine di una fase, come una porta che collega due mondi diversi e paralleli.

La maschera è il simbolo di questa consapevolezza. L’importanza che tutto il Novecento teatrale, grazie anche alla migliore conoscenza del teatro orientale, ha conferito alla maschera è fattore di sommo interesse. Esso indica una prospettiva precisa sull’attore che il secolo appena trascorso ha espresso, quella che si legge anche nelle più antiche parole di Diderot[14]; quella che aspira ad un attore che domini coscientemente le passioni e i sentimenti. Analogamente nell’utopia teatrale di Craig, si propone di sostituire l’attore con la Supermarionetta (Ubermarionette dirà precisamente Craig), unico corpo-simbolo in grado di poter esprimere la complessità dell’uomo. Anche senza scegliere questa via radicale, il Novecento è il secolo degli esperimenti di Copeau, di Decroux, dell’invenzione e della diffusione del mimo, nuovo attore senza più la lingua. Ecco che  dunque diventa fondamentale che vi sia una regola precisa anche per il corpo in scena che impara a gestirsi senza perdersi proprio con l’uso della maschera. Contemporaneamente, alla regola s’affianca l’improvvisazione: la necessità di creare di volta in volta se stessi in scena in maniera sempre più precisa e perfetta. Dall’improvvisazione si formano nuove “regole” rese dinamiche nel loro svolgimento scenico da una nuova improvvisazione.

Il teatro appare così un campo di forze contrastanti il cui incontro è fatale e necessario per la riuscita del gioco. L’attore si muove dunque tra regola e improvvisazione, cercando di non perdere mai di vista il proprio ruolo, ma allo stesso tempo di tenere vive le anime del gioco.

 

4. Oltre la follia: le anime del gioco

Proprio questa sembra la sfida di Eduardo nell’affrontare il lavoro di traduzione-ricrittura di una delle opere teatrali più celebri in assoluto: La tempesta di Shakespeare. L’opera, voce testamentaria del vecchio poeta inglese come dell’ottantaquattrenne Eduardo, viene riscritta negli ultimi mesi di vita dal drammaturgo napoletano in una lingua nuova, frutto d’invenzione, che trae ispirazione dal modello linguistico secentesco di Giovan Battista Basile.

Nell’isola di Prospero Eduardo sembra trovare finalmente il luogo ideale per mettere in scena il senso del suo problema teatrale: un’isola separata dove sperimentare una nuova fisicità: realtà consistente, ma anche sicuramente non reale, animata da Mostri e Spiriti che rendono chiara la sua evanescenza di sogno, del tutto inconfondibile con la terra ferma. Un doppio teatrale dunque solido ma anche consapevole, adatto a fare da scena all’ultima riflessione sul teatro e la sua magia. L’isola è dunque un luogo differente anche rispetto al modello shakespeariano. Nuovi e affatto diversi appaiono anche i personaggi che la popolano, a partire da colui che in un mitico passato fondò quell’isola e diede forma ai suoi futuri abitanti.

Il mago dell’isola eduardiana non è il Prospero di Shakespeare né  più quello di Greeneway dei Prospero’s book, ancora troppo vicino al modello, non è quel soggetto forte che crea e gestisce la scena grazie all’incredibile potenza della sua arte magica. Pur mantenendo la funzione pedagogica di illustrare i meccanismi ed i retroscena del teatro, il Prospero eduardiano guida il gioco in maniera differente. L’edificio teatrale risulta così svuotato di rigidità: tutto può cambiare o essere reso reale. Nell’isola magica dei sogni, l’isola-che-non-c’è di Peter Pan, ogni bambino improvvisa il suo gioco. Il nuovo Prospero lascia libero spazio alle anime del gioco: Ariel e Calibano.

Ariel rappresenta la possibilità magica del teatro, come del gioco, di realizzare ogni cosa che sia nella mente; il potere della poesia che con la parola crea le cose, come fa il bambino quando nei suoi giochi, ridando nome agli oggetti, ne cambia lo statuto di realtà. Da questa condizione quasi oltre-umana, di un continuo susseguirsi d’atti creativi, si evince l’immortalità di Ariel, pari a quella di Calibano o a quella di un bambino che gioca[15].

Nel dualismo delle forze primigenie che si scontrano ludicamente in scena Calibano è il comico carnevalesco, l’anima materiale della rivolta che vuole liberarsi da chi formalmente è ancora il padrone dell’isola, cioè Prospero. Egli è per Calibano l’autorità, il limite, la regola, la schiavitù, è colui che gli impedisce di dare libero sfogo ai suoi istinti. Perciò Calibano ordisce la congiura ai suoi danni, ne vuole la morte[16]. La liberazione del basso corporeo che il personaggio di Calibano qui esprime, è elemento fondamentale del gioco teatrale, che è basato sul corpo fisico e sul suo movimento. Come essenziali al gioco infantile risultano, allo stesso tempo, sia l’elemento poetico rappresentato da Ariel, sia la signoria della regola, della forma autorale (Prospero).

Non a caso il mezzo con cui Eduardo rappresenta questa scena è effettivamente un giocattolo: la marionetta, già nelle avanguardie utilizzata come simbolo della perfezione attoriale[17]. Qui compare come una maschera di nuovo tipo. La marionetta sostituisce il corpo dell’attore e la sua capacità mimica: forse qui Eduardo si distacca consapevolmente dalla sapienza attoriale nativa, sempre tanto celebrata in lui, per cercare una trasfigurazione, una rinascita in un mondo nuovo. Non più il corpo, ma non viene meno per questo la fisicità. La voce registrata di Eduardo cerca, nella modulazione dei toni, note e capacità espressive legate alla parola come al respiro ed al silenzio, per significare la presenza fisica. Ma l’assenza del corpo comunque indica che il teatro cambia radicalmente, fondando un nuovo territorio grazie alla voce. L’ “espediente tecnologico” vuole dunque “situare la voce al di là del soggetto”[18] e consente di immaginare e vivere un mondo diverso, fatto di sogni più leggeri. L’antica fonè[19] è qui voce “artificiale”, registrata, figlia del “macchinismo” del XX secolo, e per questo annulla i corpi, li svapora, mostrando l’inconsistenza, nel teatro contemporaneo, della tematica del doppio come indicato dalla tradizione. La voce trasporta il teatro verso una nuova vita, in cui esso si intenda in una funzione non solo mimetica o referenziale, ma creativa di luoghi immaginari dove si coglie l’emergenza del mondo nella trasparenza delle sue consistenze.

Questi esempi di vita teatrale aiutano a comprendere il momento del gioco, della recita a soggetto come una consapevole attività di mimesi-creazione-comprensione (partitura- improvvisazione- partitura) del mondo, mettendo in opera una creatività che guarda le regole per studiarle non nell’astrazione della logica, ma nella sintesi recitata dell’interpretazione di una sceneggiatura. Immergendosi nella realtà delle regole, sperimentandone la consistenza senza pagarne lo scotto e potendole rigiocare anche nella loro inconsistenza, se ne approfondisce la differenza e la qualità. 

Questa mobilità profonda degli elementi, pur rigidi  e consistenti della dimensione teatrale, fa sì che scompaiano distinzioni oramai prive di senso, come le contrapposizioni vita/sogno, realtà/finzione, considerate categorie privilegiate nell’educazione e nella crescita, come nella tradizione teatrale dell’Ottocento naturalista. Benché i termini indichino sfere apparentemente opposte il loro senso invece coesiste nella dùnamis[20], nella forza del movimento che caratterizza la vita e il teatro, fuori dalle vuote metodologie e dagli statici accademismi. L’elemento di distinzione nella vita come nell’arte non è la verità o la falsità d’un’azione o d’una parola, ma la capacità che questi due elementi riescano a coesistere.

“L’autentico è comunque decisivo. (…) Con l’autentico l’artista grande deve avere un rapporto complesso: di apertura, di rifiuto e di inconscia memoria.”[21] Nella condizione dell’attore ciò significa che chi veramente riesce ad eccellere è chi sa far procedere di pari passo delle spinte opposte, inconciliabili, tendenti altrimenti a una routine da mestieranti o ad alate declamazioni; ovvero che sa rifondare il teatro in rapporto ad un segreto, a una grandezza risentita a dispetto della logica.[22]

Gli elementi differenti dunque vengono continuamente agiti e concretamente sperimentati nella loro efficacia. Se si vuole portare questi elementi ad un livello di sempre maggiore consapevolezza e precisione, nel teatro come nel gioco, essi devono confrontarsi dentro lo spazio complesso della ripetizione. Se potenziata dalle infinità di differenze che pur sussistono tra un gioco, tra una rappresentazione e l’altra, la ripetizione diventa il territorio privilegiato in cui sperimentare questa coincidenza degli opposti, in cui trovare un giusto mezzo in cui le diverse spinte coincidano[23].

Il teatro offre un territorio privilegiato in cui l’azione e il pensiero si mettono in scena, si sperimentano all’interno di una dimensione problematica, in cui ogni elemento del problema non propone una risoluzione illusoria e fittizia, una ricetta per ogni male; anzi, in un luogo siffatto, l’unica condizione di vita è quella dell’incertezza[24] che garantisce stabilità anche laddove, come nel lavoro dell’attore, l’equilibrio sia  perennemente instabile.

Il teatro offre un palcoscenico in cui gli elementi devono convergere e collaborare senza inutili protagonismi, disegnando un gioco grande come il mondo in cui le diverse anime del giocatore-bambino-attore appaiono potenziate, liberate, grazie al gioco perfetto del mascheramento consapevole. Perciò spesso, anche nelle pratiche educative, si fa ricorso allo strumento della messa in scena come mezzo di grande efficacia. Attraverso la condivisione di un gioco ci si riappropria in modo critico del mondo della cultura e della vita, consentendo un’interazione con gli altri, corpo e mente, e ponendo in opera tutte le complessità e le intersezioni possibili. Un crocevia di echi, la cui rifrangenza coglie immagini del mondo, di volta in volta differenti. Comprensione e consapevolezza s’accompagnano sempre al sogno ed all’utopia che dal teatro, come dal gioco, possa nascere una vita diversa, più vicina a quella  che si è osato, forse da sempre, solo immaginare. L’attore-bambino appare, dunque, il veicolo privilegiato di questa nuova prospettiva ludica che ha maturato ed acquisito l’evanescenza d’ogni realtà nella sua riscrittura, proprio come nelle parole del Prospero eduardiano:

Nuje simmo fatte cu la stoffa de li

suonne, e chesta vita piccerella nosta

da suonno è circondata, suonno eterno [25].


[1]E. DE FILIPPO, La grande magia, Einaudi, Torino, 1951, P.46

[2] La dimensione del gioco si istituisce attraverso un patto di credulità, analogo a quello che si compie tra lo spettatore e la scena all’alzarsi del sipario. G. Bateson, in Questo è un gioco (Cortina Editore, Milano, 1996), afferma che persino le lontre sulle sponde dei fiumi giocano alla stessa maniera in cui vivono fuori dello spazio di gioco: quel che differenza i movimenti praticamente simili è l’istituzione di un patto di sospensione che regola l’attività in maniera diversa dal consueto. L’unica differenza tra il gioco e la vita è appunto l’affermazione “Questo è un gioco”, cioè l’istituzione stessa del palcoscenico. La scena non è, dunque,  mondo di menzogna, benché sia un mondo fittizio: è uno spazio che si apre alla comprensione attraverso una sceneggiatura che sceglie un protagonista dell’attenzione e lo studia. Struttura un territorio condiviso (un micromondo) che sia i giocatori che gli astanti riconoscono come mondo altro.

[3]  E. DE FILIPPO, La grande magia, cit., p. 53

[4] Quando Winnicot, in Gioco e realtà (Armando Edizioni, 1974),  indica la creatività del gioco, la motiva con la conquista da parte del bambino della padronanza dell’azione, conquistata attraverso l’oggetto transizionale; esso mitiga l’allontanamento della madre e la sostituisce, ma diviene insieme proprietà del bambino, che può adoperare il ‘gioco’ per mimare l’azione da cui si sente ancora escluso e così impadronirsene. E’ il punto di partenza del gioco di tutti i bambini, il facciamo-che-io-ero,   la recita a soggetto in cui si parte dall’osservazione di un ruolo o di una curiosità e si tende ad impadronirsi del meccanismo che lo rende funzionale. Mimando, riprovando, comprendendo sempre meglio, ci si inserisce in un mondo da cui si è esclusi, intendendone meglio le movenze.

[5] L. PIRANDELLO, I giganti della montagna, Mondadori, Milano, 1997, pp.234-5.

[6] La sperimentale costruzione dell’ambiente estero a lui, non già-dato, ma invece da creare completamente nuovo, è il percorso che svolge anche il bambino in uno dei primi stadi della crescita: “E’ utile allora pensare ad una terza area del vivere umano, una area che non si trova né dentro l’individuo né fuori, nel mondo della realtà condivisa: questo vivere intermedio lo si può pensare come se occupasse uno spazio potenziale, che nega l’idea di spazio e di separazione tra il lattante e la madre, e tutti gli sviluppi derivano da questo fenomeno. Questo spazio potenziale varia grandemente da individuo a individuo, ed il suo fondamento è la fiducia del lattante nella madre vissuta per un periodo sufficientemente lungo nello stadio critico di separazione del non-me dal me, quando lo stabilirsi di un sé autonomo è allo stadio iniziale.” D.W.WINNICOT, op. cit., p.188.

 

[7] E. DE FILIPPO Sik-Sik, l’artefice magico, in  I capolavori di Eduardo, vol. I, Einaudi, Torino, 1973, p.50.

[8] Ivi, p.51.

[9] Ivi, p.53.

[10] E. DE FILIPPO La grande magia, cit., p.55.

[11] Ivi, p.66

[12] Ibidem.

[13] “Amleto sceglie una tipologia particolare del folle. Gli elementi (il dito sulle labbra, che nell’iconografia a volte è sostituito da un lucchetto, l’aspetto contemplativo, l’essere fuori dall’azione, ecc.) sono propri del folle Nessuno (Nobody). È questi prima di tutti irresponsabile  (“Nessuno ha fatto questo”), difensore di servi (Amleto si dichiara poor man), ama il silenzio e consiglia agli uomini di tacere, è il contrario di Ognuno. Il Nessuno non ha corpo. Per questo Bruegel lo disegna come “dipinto” che si contempla allo specchio, del tutto disinteressato alle cose del mondo. Si contrappone all’Everyman delle Moralità. Nel 1606 fu pubblicato in Inghilterra un dramma dal titolo Nobody and Somebody. Tutto è vanità come recita un verso dell’Ecclesiaste: “Ho visto tutte le opere che sono state fatte sotto il sole: e ecco il tutto è spreco e polvere, compagna di vento” (I.14). Il Nessuno era anche il simbolo della ribellione morale. Indossando la maschera di Nessuno, Amleto rivela la propria essenza di escluso dal mondo, di sconosciuto al giardino devastato e corrotto, alieno da ogni ambizione e potere.”

F. MASTROPASQUA, In cammino verso Amleto, BFS Edizioni, Pisa, 2000, pp.119-120.

[14] Nell’introduzione che Paolo Alatri fa al Paradosso di Diderot, per meglio spiegare il senso profondo che l’opera presenta, cita uno degli attori francesi più importanti del secolo trascorso Jean-Louis Barrault, che aiuta a meglio comprendere l’asserzione diderottiana per cui “è l’estrema sensibilità che fa gli attori mediocri”, DIDEROT, Paradosso sull’attore, a cura di Paolo Alatri, Editori, Roma, 2000, p.82. Sulla questione dello sdoppiamento, presupposto perché l’attore mantenga il controllo sul suo personaggio, Barrault commenta: “C’è dunque nell’uomo una duplice posizione: l’una reale, che ha una presenza visibile, palpabile; l’altra impalpabile, solamente presentita, certamente presente, ma di una presenza invisibile. Il teatro utilizza questa duplicità dell’uomo, non solamente nella maniera in cui ricrea la vita, ma anche nella sua esistenza propria. Il teatro non si accontenta di tradurre sulla scena dei caratteri che siano doppi, ma è in se stesso un doppio gioco. L’essere umano che fa vivere sulla scena è il più doppio che si possa immaginare. Le due posizioni di questo essere umano, portano ciascuna un nome: la prima che è quella palpabile, reale, che ha una presenza visibile, si chiama personaggio; la seconda, quella che si dissimula in una carcassa ossea e si rivela il meno possibile, si chiama l’attore. È l’attore interno che dirige la partita, che il personaggio esteriormente presente ha l’aria di recitare veramente. Perché la credibilità sia perfetta, è dunque indispensabile che il personaggio sia sincero, ma non è obbligatorio che l’attore, all’interno, lo sia anche lui..(…). Più le difficoltà sono grandi, più l’attore, dietro il suo personaggio, deve economizzare la sua sincerità. E tanto più, allora, questo personaggio rischia di mancare di autenticità. Il problema dell’attore consiste dunque nell’acquisire il controllo d’una sincerità. E non è un paradosso perché l’uomo è duplice.” Ivi, pp.60-1.

[15] La sua ricerca d libertà appare dunque non una meta definitiva, ma una conquista già ottenuta nel susseguirsi sempre diverso delle rappresentazioni. Eduardo coglie questo segreto cenno  che l’anima libera della poesia gli rivolge, non piegandosi mai a chi non riesce ad assecondarne la natura:

ARIEL: (canta, aiutando Prospero a prepararsi)  Rosa de maggio /rose d’ogni mese,/appena torno cercarraggio scuse/ d’averve trascurato… /ma na bacchetta magica /me fece nu signale, /era na cosa seria / e me songo prestato… E. DE FILIPPO, La tempesta, Einaudi, Torino, 1984, p. 162.

 La leggerezza di Ariel è una delle caratteristiche più preganti del personaggio. Leggiadro e sbarazzino, egli è l’artefice di infiniti inganni frutto di immagini evanescenti, riflessi di multiformi specchi. Musica dagli echi infiniti, Ariel conosce a pieno la sua stessa evanescenza, caratteristica sfuggente che gli consente di creare visioni ed illusioni. Questa appare la differenza profonda che lo distanzia da Prospero, quasi la distanza che separa i mortali dagli immortali. “La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco d’ altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine.” J. Borges, L’Aleph, in Tutte le opere, vol. I, Mondatori, Milano 1997, p.785. L’immortalità di Calibano è resa implicita dalla sua appartenenza al regno ferino, per cui egli non conosce la morte, come nel racconto di Borges: “I Trogloditi erano gli immortali (…) Tranne l’uomo tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte” Ivi , pp. 782-3. Proprio questa sua natura fa sì ch’egli rifiuti decisamente come nociva l’educazione linguistica ricevuta da Prospero. La natura di Calibano lo porterebbe a condividere la condizione selvaggia dell’animale, quella di inconsapevole immortale, ma la lingua da lui appresa ne inficia l’ingenuità. Calibano la rifiuta violentemente: “Crideme ncopp’a st’isola / nunn aspettavo a te: / ‘O ssaccio ero servaggio / ma nu servaggio Rre!  / Ognuno a lengua soja: / io tenevo la mia e tu la toja. / L’unica cosa c’aggio guadagnato / mò ta dico: / te pozzo smalerì / c’’a stessa lingua / ca tutt’’e duje sapimmo / e ce capimmo! / Dint’a la pesta rossa ammantuntàto, / te vulesse vedere arravugliato / pe’ chesta lingua ca tu m’he’mparata!” E. DE FILIPPO, La tempesta, cit., p.48.

Solo quando la lingua dar suono alla sua voce, e Calibano riuscirà ad esprimersi completamente, potrà tornare all’ignoranza che lo consegna all’immortalità.

[16] Compare qui nuovamente la categoria della morte come elemento imprescindibile del percorso iniziatico, viatico d’accesso della vita a teatro. Il luogo teatrale qui può essere assunto a metafora dell’evoluzione, della crescita dell’essere umano che in diversi momenti sperimenta i suoi pensieri e i suoi atti, verificandone limiti e conseguenze. La messa in scena della congiura che non arriva all’atto di compiersi, nell’opera eduardiana come precedentemente già in Shakespeare, mostra la consapevolezza, non esplicita ma ugualmente evidente, del superamento della negatività della Storia come atto ciclico che si ripete sempre uguale. È dunque implicito, nel mondo onirico come nell’isola, il superamento stesso del concetto tradizionale, logico, della Storia come processo organico, vincolato a leggi di causa-effetto, da cui il teatro e con esso l’io si sgancia definitivamente.

[17] Si pensi a questo proposito alla marionetta di De Chirico o a quella teatrale di Fo, o ancora al grande fascino della marionetta orientale. Tutti questi esempi fanno comprendere la centralità di questo “personaggio assente”, che fa capolino anche dalla macchina straziata del corpo attoriale di Carmelo Bene.  

[18] C.G.SABA Carmelo Bene, Il castoro cinema, Milano, 1999, p.22

[19] Per comprendere infatti il valore fondativo che ha , per tutto il teatro, la voce, o propriamente la fonè, si pensi al “caso (…) di tanta letteratura medievale, fortemente correlata alle vicende della narrazione orale; ci riferiamo al quel “teatro dei secoli senza teatro” che dai Cantari alla tradizione giullaresca dava alla voce la funzione di stabilire il perimetro della scena; un teatro dell’assenza che affidava alla fonè l’evocazione del fantasma del mito.” E. MASSARESE, Il teatro assente, Luca Torre Editore, 2000, p.15. Sull’argomento si guardi anche P. ZUMTHOR, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna, IL Mulino, 1984.

[20] Si tenga presente la polivalenza del termine greco che significa contemporaneamente “potenza, potere, forza” ma anche “efficacia”, due aspetti fondamentali dell’azione teatrale grazie ai quali il gesto diventa credibile, “efficace”, potendo così ridefinire la scena, modificandone statuto e confini.

A proposito dell’azione efficace si veda F. RUFFINI, I teatri di Artaud, crudeltà, corpo mente, Il Mulino, Milano, 1996.

[21] C. MELDOLESI, “La cosa autentica” e il grande attore italiano, in F. C. GRECO, Eduardo e Napoli- Eduardo e l’Europa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1993, p. 33.

[22] Ibidem.

[23] Questo è evidente nel discorso di Mejerchol’d come proprio ella condizione dell’attore: “il termine biomeccanica coniato da Mejerchol’d per l’arte dell’attore, al di là dell’origine costruttivista e del suo indicare in sintesi un organico controllo delle energie, sembra voler sottolineare, nell’accostamento di due termini in apparenza contraddittori, il paradossale destino dell’attore: da un lato l’esigenza di una vita creativa, dall’altro la necessità di ripetere la creazione per sopravvivere.” N. SAVARESE, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Biblioteca Universale Laterza, Bari, 1997, p. 444.

[24] La categoria dell’incertezza assume un valore capitale se, come sottolinea Baudrillard, ci rapportiamo col mondo al di fuori di una dimensione teleologica della vita umana: “Se il mondo ha una storia possiamo aspirare a portarlo alla sua spiegazione finale. Ma, dice Cioran: “se la vita ha un senso allora siamo tutti dei falliti.” (….). se invece il mondo è nato tutt’a un tratto, non potrebbe avere una fine né un senso determinato. Siamo protetti dalla sua dalla sua fine da questo non senso che prende forza d’illusione poetica. Certo il mondo diventa assolutamente enigmatico, ma questa incertezza, come quella delle apparenza, è fausta. Essendo l’illusione, per eccellenza, l’arte di apparire, di sorgere dal niente, ci protegge dall’essere. Essendo l’arte di scomparire, ci protegge dalla morte.”

J. BAUDRILLARD, Lo scambio impossibile, Asterios Editore, Trieste, 2000, p.20. Si profila così proprio nell’incertezza una nuova regola del gioco per cui ogni elemento consegue un equilibrio sempre nuovo e perennemente instabile, che trae forza dalla consapevolezza di ogni singola ridefinizione.

[25]E. DE FILIPPO, La tempesta, cit., p.145.