Mese: Gennaio 2015

Eletto Mattarella, una parola su Napolitano

di Clementina Gily, Editoriale

Quando Napolitano ha salutato i cittadini, ha dato un encomiabile esempio di pensiero argomentativo. Abbiamo superato lo scoglio del trapasso e il timore di essere in una porta girevole impazzita, si può ricordare quanto insegna quel discorso.

La metafora della porta girevole si riferisce all’esperienza dei talk show, l’incubo del cittadino. Anche i più “sereni” vedono persone che parlano e non ascoltano, che affastellano libere opinioni, improvvisano pezzi di spettacolo. L’elettore sente svanire la possibilità di informarsi; quando domani tornasse all’ascolto, potrebbe trovarsi dinanzi alle stesse persone intente a dire l’opposto di ieri senza che qualcuno se ne accorga. È il tritatutto della coscienza politica il palinsesto politico, tende alla distruzione della memoria.

Quando Benjamin meditò sull’argomentazione, scosso dalla velocità dei fotogrammi dei testi filmici, che fanno della parola un proiettile, un’arma e non una comunicazione, una serie di colpi tanto rapidi da togliere il tempo di pensare. Invece la parabola e la narrazione sono testi brevi e lunghi che giocano sul fascino, evitano il bombardamento senza assimilazione: coinvolgono con la sacralità della parola, creano lo spazio al silenzio. Il discorso chiuso pieno di storie disegnate nei particolari scritti e da immaginare sono una Statua, avrebbe detto Giulio Camillo Delminio pensando ad un ruolo teatrale. Un solido percorso che consente di girare intorno ad una situazione, come una melodia che si ricanta e che non scivola nella dissonanza. Chi ascolta se ne appropria, la ripete a suo modo. Chi argomenta dice altrimenti ma pur sempre racconta la storia, riconoscibile nella sua pregnanza.

Ciò deriva dalla chiusura del discorso, dalla semplicità che l’esempio sa così conseguire. La sua efficacia sta nell’essere tanto chiaro da comunicare il discorso a chi ascolta – tanto da saperlo consegnare, passa di mano e va all’interprete. Al contrario, chi lascia incompiuto, urlato, veloce, vuol mantenersi emittente in rapporto al ricevente: vuole solo assordare.

L’esempio di Benjamin è Nicolas Leskov (Aura e choc), l’ultimo narratore; egli nel tempo in cui si parla per slogan scrive come Tostoi; ed ha l’efficacia della parabola. Perché il suo esempio chiude la melodia di un concetto e il lettore la capisce dall’inizio alla fine e la sa ripetere e raccontare oralmente: narrazione e parabola conservano il pregio dell’oralità, conservano l’apertura quando sanno chiudere e comporre un che di memorabile che una comunità condivide: il discorso concludente è una immagine in parole, una Statua (figura) o una perla di vetro (concetto) che ognuno riempie di riflessi personali. La perla ha tante ombre – ma non perde la sua consistenza e sempre genera nuove letture.

Nell’epoca di Twitter la politica vive di aforismi, e la parola proiettile invece di mediare vuole rompere l’equilibrio. Il discorso di chiusura di Napolitano Presidente lascia agli Italiani l’esempio di una argomentazione: è un percorso connesso con unico filo, si compone di passaggi dall’inizio alla fine che allacciano una serie memorabile per la sequenza dei punti, come le stazioni di un pellegrinaggio. Perché funzioni, occorre che esse siano significative, una rotta, dal nazionale all’europeo, dal necessario all’accessorio, per chiudere con l’appello emotivo ad ognuno, di collaborare con responsabilità personale e solidale.

Napolitano argomenta senza retorica da sempre; allaccia concetti equilibrati ed interi secondo il primo e il poi – e sa dirli senza interrompersi guardando negli occhi chi ascolta. Capacità attoriale che avvalora il costrutto del discorso della pacatezza convincente di chi crede in quel che dice. Dimostra che la virtù oratoria non è retorica; è la convinzione meditata di una catena argomentativa che consenta di intrecciare la condivisione secondo regole.

Quel che manca a Twitter non è il numero di  caratteri, è la conclusività di discorsi ben detti perché ben pensati. È la forza della democrazia: senza una rinnovata capacità di argomentare c’è da chiedersi se valga poi davvero  la pena anche solo tentare di esportare la democrazia.

W editorale 2-15 Eletto Mattarella, una parola su Napolitano

Tolleranza – una buona parola

di Clementina Gily Reda, Editoriale

E’ dal settembre 2006 che questo termine, passato alquanto a più silenziosa vita, è tornato di attualità: lo pronunciò a Castel Gandolfo il Papa per dire il proprio rammarico per le incomprensioni generate dal discorso di Ratisbona agli ambasciatori e comunità islamiche in Italia, precisando che la tolleranza è un discorso di reciprocità – se lui aveva esagerato, i vandalismi e morti che ne erano seguiti passavano di molto il segno, decrittarono gli italiani dal tedesco italiano di Ratzinger. Allora Wolf pubblicò un articolo di Garritiello che ricordava come il “Corriere della Sera” avesse in proposito pubblicato una discussione sul dialogo islamo-cristiano come necessario di premesse, se si accetta il detto di Alain Besancon in Maometto e Gesù, i confini del dialogo che per un islamico sia assurdo diventare cristiano (l’Islam è più giovane, la trinità è un politeismo, il misticismo è un irrazionalismo) perché solo l’Islam è razionale; il che si contrappone all’idea della teologia cristiana che si ritiene la vera razionalità.

Allora come ora, occorre andare oltre i tweet se si vogliono evitare le sciabole. E il metodo è appunto questa tolleranza reciproca. Wolf organizzò qualche anno fa tavole di conversazione islamo-cristiane, le ricorderemo presto visto che son dieci anni – perché appunto alle tavole ci si invita e ci si va liberamente, si ci dice buon giorno e buon appetito: altrimenti, non si fa.

E allora in tema di tolleranza si tornò e si torna oggi a leggere Voltaire, autore di una famosa Epistola sulla Tolleranza, ristampata per altro da Repubblica in una serie di piccoli saggetti politici molto utili e bene scelti… anche se poi tutti avremmo voluto vedere qualche altro titolo che mancò… Voltaire, si badi: – l’antenato illustrissimo delle vignette, spirito sarcastico e violento che mordeva le carni ai suoi bersagli… ma quanta cultura… ancora oggi è una delizia rileggerlo –sarà così anche per vignette? C’è da dubitarne; nemmeno Forattini le ristampa!

Tanto bravo era Voltaire che c’è da rifiutarsi a commentarlo: è chiaro, preciso, finanche divertente – basta invitare a leggerlo – chi invece volesse un approccio dotto, rimando a Pietro Rossi, Voltaire, la tolleranza e il cammino verso la laicità, in “Quaderni laici” n.10-11 del 2013.

Praticamente con Voltaire non serve adattarlo alla realtà storica così diversa, è il vantaggio delle penne abili e non retoriche, che sanno interessare col loro acume d’intelletto. Basta enunciarne i risultati, buoni anche per l’oggi.

  1. La tolleranza è un diritto di natura, che argomenta come motto del senso comune che parla ad ognuno; lo dimostra nella storia di tanti popoli, orientali, ebrei e cristiani, che tutti dimostrano di accettare altri dei per altri popoli – il proprio per sé

  2. L’intolleranza è venuta costruendosi come attribuzione alle religioni di poteri che giustificano cose ingiustificabili: l’unica intolleranza che è diritto di natura è quella per chi dica cose simili – intolleranza dell’intollerante

Affermare la necessaria reciprocità della tolleranza è quindi il primo passo. Perché della tolleranza e non dell’intercultura? Perché non si può ignorare l’incarnazione, dice il cristiano, non si può lasciar da parte il corpo, dice il laico: entrambi modi per dire che c’è nell’uomo una diversa possibilità di realizzare i desideri dell’anima, attraverso l’amore e attraverso il potere, per semplificare al massimo in un aut aut – lo scopo non è qui definire la morale, quindi ognuno metta il nome che preferisce sui due corni del dilemma, positivo ed negativo. Ma se si ignora che c’è il polo negativo, non funziona più nulla. Essere pacifici e pacifisti è una bella cosa; prendere i nemici per amici non va. Era il rischio ovvio nell’essere decadenti e deboli, nichilisti governati da nichilisti – modello Cacciari o modello Razzi.

Non crediamo più in nulla, è un secolo che ce ne gloriamo e affondiamo i valori nel fango dell’indifferenza – inutile che l’arte denunci tutto ciò con gli orinatoi e le polaroid: ciò ispira i furbi dell’innovazione solo a cercare altri orinatoi ed altre polaroid.

Ogni epoca onesta compie il suo giusto lavoro intellettuale con proprie definizioni dei valori: bene e male si chiamano sempre così, ma quanto sono diversi i nostri dai Greci e dai Cinesi? Oggi ad esempio un ottimo modo per meditare l’esperienza del male è discutere di Shoah: perciò l’Università Federico II ha avviato un master di primo livello di cui sono responsabile, “Didattica della Shoah e Cultura della Tolleranza”, per cui si può presentare domanda entro il 31 marzo 2015 (tutte le notizie sono sul portale dell’Università) o anche l’anno prossimo.

La cultura della tolleranza dice bene Voltaire nell’Epistola del 1762, sessantottenne come il protagonista del fatto storico che fu la parabola della sua stessa riflessione: la morte di Jean Calas, protagonista un secolo prima di Dreyfuss di un affaire altrettanto clamoroso ed anche più efferato. Padre di un convertito che si era fatto cristiano per essere avvocato, suicida per via delle ulteriori costanti difficoltà – Jean Calas fu accusato di aver suicidato lui il figlio perché convertito, e a furor di popolo la Città di Tolosa concorde nell’odio lo condannò al supplizio della ruota. Si pensava che per l’età avrebbe confessato appena all’inizio, invece lui sopportò eroicamente e perdono i suoi persecutori: ciò accade nonostante alcuni fatti inoppugnabili della sua innocenza. Voltaire cita il giudizio successivo delle Corti di Parigi che riconobbero il diritto della vedova: impossibile per il vecchio far violenza al giovane, impossibile pensare al concorso familiare visto l’atteggiamento sempre cordiale coi cattolici attestato dalla fantesca cattolica da sempre parte della famiglia, impossibile ipotizzare il concorso di terzi. Elementi che convinsero la Corte di Parigi e gli intellettuali ad interrogarsi su come sia possibile il fanatismo, che trasforma una città in assassina capace di nefandezze senza freno.

Ed ecco l’Epistola: il Master nasce dallo stesso intento narrativo storico. Dalla convinzione teorica che senza la compiutezza e completezza di una parabola storica, il problema non si dipani nella sua complessità – la scelta del Vangelo. La voce dei sopravvissuti resta oggi viva oggi in pochi superstiti, ma è attestata da così tante memorie in carta, celluloide e immagini virtuali, film e ricostruzioni, da essere un praticamente inesauribile deposito di pennellate utili ad approfondire. Come diceva Benjamin, è così che nasce la narrazione che produce narrazione, che attiva chi ascolta a ricordare e a diventare narratore a sua volta: originale nel ripetere. Il segreto profondo del vero argomentare è la parola che si trasmette trasfigurandosi (in-altra-figura), il pregio dell’oralità sulla scrittura.

Ma da questa narrazione – da questo storytelling, come si dice oggi – occorre si diparta una riflessione come dicevamo profonda, addirittura sulla definizione del bene e male nel quadro dell’oggi: lo si fa sempre nella storia. Tramontata oggi ogni pudicizia vittoriana, non ci sono perciò limiti all’orrore del sesso/potere, narrato in tutte le forme visive dalle serie TV? L’amore pare che seguiti a reggere, visto il gradimento di ben meno seguite serie… ma certo i giovani sono diversi e spesso sfiduciati… discutere dei serial killer e in genere delle letterature dei media sarebbe una ottima analisi del testo …

Non è una divagazione questa proposta: è piuttosto l’esempio di come sia semplice didatticamente introdurre nella didattica elementi costruttivi di una scrittura personale, stando anche attenti ai contenuti. La riscrittura dei valori si fa con gli allievi e con la comunità – ciascuno al suo livello. La Shoah come elemento trasversale nelle discipline può consentire una riflessione difficile da fare a scuola: la consistenza del male nel mondo d’oggi, il modo come le religioni e il pensiero laico affrontano il tema problema, come ciò influenzi la cultura del tempo. Una grande lezione di umanità che certo sarebbe molto gradita e frequentata dagli allievi.

Infatti: il XXI capitolo dell’Epistola s’intitola La virtù val più della scienza – e si ricordi sempre ch’è frase del Voltaire illuminista del 1762 – per dire che il sapere si fa in comunità, che questa discussione aperta (virtù – cioè empatia ed affetti in una riflessione sul bene) vale più di un precetto o un’ammonizione. Farsi una propria idea della tolleranza è un esercizio di pensiero, che sulla parabola costruisce il proprio quadro ideale.

Perché va ricordato un altro pezzetto dell’affaire Jean Calas: il vecchio fu condannato perché chi il suo Gran Difensore e il suo Grande Accusatore s’erano entrambi ritirati dalla giuria per rispettarne il giudizio: poi il secondo tornò. E la condanna fu per un sol voto.

Ciascuno è chiamato ad affermare il diritto naturale della tolleranza reciproca, perché un sol voto fa la differenza; perché il diritto naturale non è una legge naturale – è una consuetudine, non un fatto meccanico, richiede scelta e azione, coraggio ed entusiasmo.

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