La femmina di capodoglio spiaggiata a Porto Cervo col ventre colmo di plastica

di Anna Savarese, Architetto di Legambiente Campania

Il capodoglio – lutto ecologico
Il capodoglio – lutto ecologico

Le immagini sconcertanti dell’esemplare femmina di capodoglio la cui carcassa è approdata a Cala Romantica di Porto Cervo il 28 marzo sono un atto di accusa che rimanda alle nostre responsabilità e ai nostri errati stili di vita e modelli produttivi che impattano sulla biodiversità.

Aver trovato ad occupare i due terzi dello stomaco del cetaceo, un esemplare lungo otto metri e mezzo e pesante otto tonnellate, ben 22 chili di plastica ci dà la dimensione dello stato in cui versa il bacino del Mediterraneo.

Luca Bittau il biologo che con la sua associazione, la Onlus SeaMe Sardegna, che si occupa di tutela e conservazione del mare, è intervenuto insieme all’istituto zooprofilattico sardo per il recupero dell’animale, ha precisato che i capodogli vivono nel Mediterraneo senza varcare mai l’Oceano per cui la plastica trovata nello stomaco proviene senza dubbio dai fondali del Mediterraneo, nemmeno dalla superficie perché questi cetacei “pescano” il loro nutrimento nelle profondità marine.

La causa della morte sarà accertata dall’équipe del Professore Mazzariol dell’Università di Padova che ha proceduto insieme ai veterinari dell’istituto zoo profilattico della Sardegna ad un primo esame necroscopico effettuato in un campo nell’entroterra di Arzachena dove è stato trasportato il cetaceo e dove è avvenuta la sconvolgente apertura dello stomaco del cetaceo che ha evidenziato la presenza della massa di plastica e ha fatto anche accertare che la femmina di capodoglio era gravida: il feto di due metri e mezzo, probabilmente era già morto prima della madre.

Ad avvalorare la tesi che la causa del decesso possa essere attribuita alla plastica ingerita che ha finito con l’ostruire il canale digerente dell’animale è lo stato in cui è stata trovata la carcassa dal custode di un residence che si apre sulla spiaggia. Il corpo del capodoglio pur sbattendo sugli scogli, tanto da tingere di rosso lo specchio di mare della cala dove era stato trascinato dalle correnti, non presentava segni di collisione. Ad uccidere la madre e il feto con altissima probabilità sono state dunque le buste, i piatti monouso, i teli, la rete aggrovigliata, il tubo di PVC e tutte gli altri frammenti plastici che occupavano i due terzi dello stomaco, laddove l’altro terzo era pieno di becchi di calamaro, il cibo preferito di questi animali, la cui assimilazione era impedita dalla totale ostruzione del tubo digerente.

Come ha giustamente osservato Luca Bittau dal gravissimo inquinamento del nostro mare è discende il rischio di estinzione che minaccia questi animali il cui habitat è compromesso dall’enorme quantità di plastica che vi è stata riversata, attraverso i fiumi, gli scarichi fognari, il diportismo e la navigazione tutta.

Da dati resi noti dal WWF nel Mediterraneo un terzo dei capodogli trovati morti è stato ucciso dalla plastica. E tale circostanza è tanto più grave se si considera che da un punto di vista riproduttivo le femmine di capodoglio raggiungono la maturità sessuale all’età di 7 anni e l’estro compare ogni 3-5 anni. Per l’esemplare spiaggiato a Porto Cervo la gravidanza era forse la prima e, purtroppo, con la morte del feto è diventata anche l’ultima, perdendo in un solo colpo due esemplari in grado di riprodursi. È facile capire come in breve tempo la specie possa avviarsi all’estinzione se non si prendono provvedimenti drastici contro lo sversamento delle plastiche a mare.

Inteso come indicatore del rischio di sopravvivenza della biodiversità marina, il quantitativo di plastica trovato nello stomaco del capodoglio spiaggiato in rapporto alle dimensioni non eccessive dell’esemplare unito allo stato di deterioramento quasi nullo dei materiali danno la dimensione di quanto ormai l’ingerimento di materie plastiche da parte dell’ittiofauna non tocchi più solo grossi esemplari ma si sia ormai esteso fino ai pesci e molluschi che arrivano sulle nostre tavole. Infatti le specie marine ingeriscono la plastica sia intenzionalmente perché la scambiano per prede, o accidentalmente o in maniera indiretta perché la assumono mangiando altri pesci che ne sono pieni.

Nel report del WWF “Mediterraneo in trappola Come salvare il mare dalla plastica” si sottolinea che nel Mediterraneo sono 134 le specie vittime di ingestione di plastica, tra cui 60 specie di pesci, tutte e tre le specie di tartarughe marine, 9 specie di uccelli marini e 5 specie di mammiferi marini. Si stima che, in assenza da provvedimenti, entro il 2050 la quantità di plastica supererà quella dei pesci e l’intero Mediterraneo raggiungerà livelli altissimi di inquinamento da microplastiche che minacciano la biodiversità marina ma anche la nostra salute, entrando nella catena alimentare.

Anche Legambiente, nel report “Biodiversità a rischio”, sottolinea che oggi il marine litter rappresenta una delle principali minacce per mari e oceani. In particolare, il Mediterraneo, per la sua variegata eterogeneità di ecosistemi, è uno dei 25 biodiversity hot spots del mondo, ovvero una delle regioni con il maggior numero di specie viventi in tutto il pianeta. È un punto cruciale per gran parte delle rotte migratorie degli uccelli paleartici, nelle sue acque vivono circa 900 specie di pesci e cetacei e circa 400 specie vegetali.

Eppure secondo l’UNEP/MAP 2015 (United Nations Environment Programme/Mediterranean Action Plan ), oggi il Mar Mediterraneo è attualmente una delle sei aree maggiormente invase da marine litter nel mondo: la concentrazione dei rifiuti (di cui circa il 95% è composta da plastica) in alcune aree è comparabile a quella delle cosiddette “isole galleggianti”. Ciò è anche in gran parte dovuto al fatto che è un bacino semichiuso con ridotti scambi con l’Oceano Atlantico, circostanza che fa accumulare una gran quantità di rifiuti che decantano sui fondali o galleggiano sulla superficie.

Tutta l’ittiofauna risulta pertanto compromessa, sia quella che si nutre in profondità, sia quella che vive in aree più superficiali: tartarughe, mammiferi e uccelli marini possono morire per soffocamento dovuto all’ingestione accidentale di rifiuti (in particolare buste di plastica) scambiati per cibo oppure possono restare intrappolati nelle reti da pesca e negli attrezzi di cattura professionale. Sempre dal rapporto di Legambiente si evince che i principali tipi di impatti causati dai rifiuti marini sulla biodiversità sono infatti l’aggrovigliamento (intrappolamento) – a livello globale, diversi studi indicano che le principali vittime di aggrovigliamento sono gli uccelli marini (35%), pesci (27%), invertebrati (20%), mammiferi marini (circa 13%) e infine rettili (5%) – e l’ingestione (quest’ultima è stata rilevata in diversi organismi. A livello globale il 40% delle specie di uccelli marini ingerisce rifiuti di plastica, il 100% delle specie di tartarughe e il 50% di mammiferi).

Oltre alle tartarughe, in particolare la Caretta caretta tra le specie minacciate dal marine litter ci sono anche gli uccelli marini, in particolare i procellariformi, tra cui si trova la berta maggiore, con più del 63% delle specie affette da inquinamento da plastica. E poi c’è la balenottera comune, unico misticeto residente nel Mar Mediterraneo, classificato come in pericolo dalle liste rosse della IUCN, e che risulta essere in diminuzione rispetto agli ultimi 20 anni. La balenottera, alimentandosi per filtrazione, con ogni boccone arriva ad ingerire fino a 7 mila litri d’acqua inghiottendo, insieme al krill, il crostaceo di cui si ciba, anche grandi quantità di macro e microplastica.

Come giustamente sottolineato nel rapporto di Legambiente, va tenuto in debito conto che ai rischi per la biodiversità marina connessi al marine litter si sommano quelli pure gravissimi e critici dovuti all’inquinamento, e soprattutto al sovrasfruttamento delle risorse naturali. Nel Mediterraneo il 96% degli stock ittici europei è sovrasfruttato. In particolare l’Adriatico, che da solo sostiene il 50% della produzione ittica italiana, è, insieme al Golfo di Gabes in Tunisia, l’area del Mediterraneo dove si pratica con più intensità la pesca a strascico, particolarmente distruttiva per gli ecosistemi di fondo. Alla “cattiva pesca” vanno aggiunti come altri fattori di rischio la perdita e frammentazione degli habitat (dovuta ad esempio all’erosione delle coste e all’eccessiva urbanizzazione delle coste, spesso anche abusiva), e oggi con l’aggravarsi degli effetti dei cambiamenti climatici, la diffusione delle specie aliene e invasive (l’ISPRA stima 42 nuove specie ittiche osservate nei mari italiani) che modificano radicalmente l’habitat e l’equilibrio nella predazione tra le specie.

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