La filosofia italiana, oggetto di discussione attuale (3)

di Clementina Gily

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J. Connelly, Collingwood, Gentile and Italian neo Idealism in Britain

A. G. Pesce, The Integral Philosophical Experience of actualism

Saggi di B. Haddock (17-43), A.G. Pesce (45-72), J. Wakefield (73-103), A. Vincent (105-136), D. Coli (137-166), R. Peters (167-203), J. Connelly (205-234).

I curatori Haddock e Wakefield nell’Introduzione si chiedevano (vedi la 1° puntata) come mai le opere più vigorose di Gentile – il Sistema di logica soprattutto – risultino così difficili a rilasciare l’unica parola capace di restituirne il senso, nel caso dell’attualismo così fresco ancor oggi nel forte costruttivismo tipico dell’idealismo italiano che matura la forza dell’azione, il tema di Fichte, Marx, Blondel, Bergson. La difficoltà è nel linguaggio, dicono: ma per l’italiano Gentile è scrittore affascinante. Gentile scrittore sa trascinare col fascino di idee e di parole uniche che tornano in mente con la forza dei simboli. È il concetto che è difficile, porre l’Eterno in Divenire – come per primo fece Giordano Bruno: è un ossimoro, prima che essere l’eresia somma, al tempo. Ancora oggi non si sa bene come “sistemare” il problema con le teorie della quotidianità, della debolezza e del postmoderno. La risposta di Gentile, il sistema, era il modo tradizionale, ed è questo che coraggiosamente affronta Gentile, nel bene e nel male: che è anche la risposta giusta dell’uomo al caos – la via della coerenza risponde alla sfida propria dell’uomo, diceva Arnold Toynbee. La risposta ‘bella’ compiace per la coerenza, dunque per la sistematicità che sa conseguire, aveva ammaestrato il sistematico Kant: a patto che si segua la via del pensiero riflettente, del giudizio di gusto o di finalità, che tiene conto del particolare. Non la via hegeliana che seguì Spaventa e intraprende Gentile. È piuttosto disegnare il quadro e interrogarsi sulla sua condivisione, Weltanshauung, disse l’Ottocento, Retorica ed Estetica, disse il Novecento: ma il senso di tutto ciò è lo stesso che Gentile chiamò Atto Puro, una sola parola per il Tutto.

L’argomentazione, perciò è solida e ben argomentata, ma non sostenibile: occorreva un punto di vista nuovo, il che gli autori impegnatisi nel superare l’oblio di Gentile sorvolano, presi dalla giusta classicità dell’autore. Sostanzialmente le critiche sono giuste, come dimostra la loro entità, ma difenderle non è quel che serve. Se sono storia contemporanea, vanno discusse, perché nel farsi totalità il pensiero pensante diventa eterno e sostituisce interrelazione, movimento, pensare, immagine, agire – e tutto diventa una morale, dove il relativismo e solipsismo del logo concreto non trovano l’argine di un astratto che sappia contrastare il suo irrompere. Così, impedisce il dialogo. Ma c’è il guadagno grande di una nuova idea: il problema e la fede filosofica, come aveva capito Bruno, come capì Ugo Spirito. Un grande pregio, sprecato nella fede fascista, di cui Croce capì il senso parlando di religione della libertà. Ma il ribaltamento del classico sistema non funzionò: ciò perché una filosofia del divenire come una critica politica richiede punti di vista nuovi, problematiche nuove, se non si vuole finire, come si fece, nella religione della storia. La risposta sta, per chi scrive, nell’intendere a fondo il protagonismo interminabile di una polemica di fondo, quella sulla storia, la prima polemica Croce Gentile, su res gestae e historia rerum gestarum, che non vanno identificate né in un senso né nell’altro, ma riproposte nella dialettica non triadica ma dualistica che fu di Platone e che è di Maurice Merleau Ponty: dando tutto il peso che meritano al dialogo ed alla percezione. Ma di ciò non si può trattare in una recensione.

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In coerenza con la linea di sviluppo teorico, così da rendere il senso del volume, conviene partire dal Sommario di Pedagogia del ’12, che creò la vera scuola gentiliana – non quella delle cattedre – che polemizzò con il Sistema di Logica, la più poderosa opera di Gentile, invertendo l’indice e partendo dal saggio di Andrew Vincent Gentile. Education and Mind (pp. 105-136). Vincent dimostra come, quando si entri nel circolo autoreferenziale di Gentile, si resti affascinati. Ugo Spirito ne era ipnotizzato, nonostante la sua assoluta originalità; esce dal circolo tante volte quante volte ci rientra. E comunque quando si esce dal circolo se ne mantiene l’impronta perché è la coerenza chiusa di un ciclo di pensiero. Perciò Vincent argomenta rifacendosi a Berkeley e Kant, come fece anche H.S. Harris, e ad Hegel, ma soprattutto a Fichte: quell’unità da lui pensata subito dopo Kant è quell’Ego che molto diversamente agì anche su Schopenhauer e Nietzsche, e si potrebbe aggiungere Freud, ingigantendo la potenza dell’uomo del Rinascimento, giunto così ad un esito tanto grande da mancare di equilibrio, nonostante tante successive opposte convergenze. Il pensiero pensante di Gentile è esperienza e storia insieme, vita cui il pensiero pensato dà coerenza interna evitando di tentare di essere sostanza come in Fichte, di cui corregge il solipsismo ed il demone dell’Anstoss, l’urto incomprensibile col Non Io, grazie alla teoria vichiana, alla memoria autoponentesi nella storia. Quella sua correzione al Vico del verum et factum convertuntur con il suo verum et fieri convertuntur insiste sul presente, la trasforma in una visione che Vincent chiama presentism. Il “thought thought supposed tought thinking” (p. 117) e quindi “we are morally responsible for what we believe” (p.118): partire dal concreto dell’esperienza con le sue polarizzazioni è entrare nella situazione del costruttivismo.

Quando Scaravelli nel ’46 scrisse La Critica del capire indicò che solo traslitterando l’intera polemica idealistica di Croce e Gentile s’intende il “capire” e si recupera l’unità fondante della polemica dei filosofi amici, come loro furono detti all’inizio: è la coerenza che incanta l’esposizione attenta di Vincent, perché proprio nella pedagogia regna l’unione nella volontà di sapere con cui volle improntare la riforma della scuola del 1923, senza successo, nonostante il grande pregio di aver introdotto per primo l’estetica nei programmi ordinari dell’istituzione scolastica con l’insegnamento della storia dell’arte, chiamando prova generale di estetica (una visione unitaria) il tema di maturità, e la religione nelle prime classi, prima della filosofia – nonostante il sicuro laicismo, nonostante l’insoluta questione del Papato in Italia, che solo nel 1929 si concluse coi Patti Lateranensi: nel 34 l’opera di Gentile era tra i libri condannati dall’ “Indice” del Vaticano.

La pedagogia di Gentile fu di certo l’opera sua più compiuta, nella teoria e nella pratica. Dopo la rapida uscita dall’esperienza di ministro, l’opera continuò con l’Enciclopedia Italiana e la politica della cultura delle sue case editrici e giornali filosofici. Il predominio umanistico di quest’opera è celebre e molto criticato per la minore attenzione rivolta alle scienze, che però voleva rendere capaci di educare, così, soprattutto la curiosità edificando l’educazione nazionale auspicata da Mazzini. La figura del maestro si tratteggia come l’esperto dell’uomo, che perciò sa scegliere da sé e definire l’educazione nella sua concretezza, come scrisse Lombardo Radice, il pedagogista a lui più vicino, nelle sue Lezioni di didattica, prive di metodologia ma entusiaste delle scuole attive, sostenne la Scuola Serena della Boschetti Alberti come la Montessori – tanto che la didattica poi si fece scienza autonoma.

Gentile può essere definito artefice di un rinnovato socratismo, il libro è “cemetery of speech” che richiede luce grazie ad un “endless active process of thinking and rethinking” (pp. 123-125). Interpretazione attiva a scuola e nella vita, è quel che Gentile volle: nessuno dei suoi veri allievi è pedissequo, nessuno fu espulso dalla sua amicizia. Eppure, fu filosofo del totalitarismo che nella scuola creò i balilla e le loro parate alla Leni von Riefenstahl – l’aspetto che più colpisce all’estero

e dà da pensare, con i soldatini che imitano avanguardisti, sportivi e adunate di gerarchi virili.

Alle parole vibranti sull’unità che gli uomini sperimentano nel rapporto di formazione, le immagini della scuola fascista sono la dimostrazione del solipsismo – la critica più consueta che gli si rivolge. Non è tutta la verità su Gentile, ma ne è parte, perché la coerenza di “Io ed io” ha difficoltà tra il “Me e il me” e deve tendere alla coerenza; ma non è così nella società: dove invece il regime della mediazione è negato dalla gerarchia e dal totalitarismo. La logica non aiuta, né lo fa la morale, che condanna solo l’ipocrisia – il che può essere valido per il “Me-me” ma non lo è per l’ ”Io-io”, il Logo Concreto e il Logo Astratto: la società e la storia ben conoscono l’ipocrisia, che non è sempre un male, è la politica, sono le liturgie del potere.

Il problema di Gentile sta nella mancata argomentazione attuale (Linguistic Turn, allora sorgente) del linguaggio come costruzione del mondo dell’uomo, nel riprendere problemi tramontati. La fede forte di Gentile nel mondo del linguaggio doveva salvaguardare la necessità di dare voce all’opposizione in politica, ai contrari e contraddittori in filosofia; quel che “per noi” fa parte del logo astratto e non del logo concreto, vale solo per noi. Per chi perde pur avendo ragione, logo astratto e concreto sono altri da chi vince – la stessa venerazione per Mazzini doveva trattenerlo dalla storia dei soli vincitori. Questo dice il liberalismo, e Gentile si diceva liberale – ma parlava di quell’astratta libertà che già in Francia era finita nel Terrore e il ritorno all’Impero, un totalitarismo in cui la retorica diventa propaganda e non competenza responsabile del linguaggio della comunicazione.

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Seguitiamo con Bruce Haddock perché parla del Gentile storico, altra grande Opera di Gentile, dove meglio si vede il carattere costruttivista, seguendo l’esempio di Roger Holmes nel 1937, benché il termine sia adottato da Dewey e Watzslavick, estendibile prima di tutto a Giambattista Vico: il motto verum ipsum factum parla chiaro con la tipica velocità del latino.

Il costruttivismo oggi è corroborato dalla biologia, il premio Nobel Maturana descrive L’albero della conoscenza come un unico percorso di comunicazione che va dalla trofallassi delle formiche al pensare razionale; Varela afferma che dalla trasformazione, constatabile, il biologo capisce il processo storico dell’ameba che suppone una pellicola cellulare che è in realtà una membrana, capace di capire e modificarsi, costruirsi – persino l’evoluzione non è un “fatto” positivisticamente inteso. Al tempo del positivismo trionfante, Gentile si confronta con chi dimostra tanta meno sensibilità dello scire per causas di Bacone che Vico riecheggiò e che trova forma coerente nell’abdurre di Pierce e del pragmatismo: scoprire le ragioni, dalla constatazione di eventi, è considerare filosofia e filologia geminae ortae, gemelle nate ad un parto, disse Vico. E poi Spaventa e poi Gentile e Croce hanno, nel cosiddetto idealismo hegeliano, trasformato la filosofia in un moto del pensare che parte dalla situazione. Non quindi la selezione naturale è il punto su cui fermare l’attenzione, ma la traccia che ne interpretiamo per conoscere, l’artefatto. Visione che come in Kant invita ad immaginare in un giudizio riflettente che lasci predominare il problema (concluse Ugo Spirito nel Problematicismo, 1948). Uscire dall’ottica dell’eterno ed entrare in quella del divenire.

Ecco l’opera del pensiero pensante, il bel titolo del testo; Haddock mostra l’incomprensibilità della lettera di Gentile traducendo il pensiero pensato, come d’uso, thought thought. La si ritrova ovunque (“Io-io” e il mio “Me-me”) che denuncia il circolo vizioso che Gentile definisce il cammino dello spirito, un simbolo efficace quando lo s’intente: ma è un uruboro, il serpente che si morde la coda, un simbolo dell’infinito che non può essere il “capire” dell’uomo. Haddock perciò preferisce parlare di past thinking, ma ciò non cancella la difficoltà altro che linguisticamente; il logo concreto, la più bella parola di Gentile, non elimina la propria difficoltà di fondo, di fondare in sé non Dio, ma l’uomo. Pensare è un atto: Thinking is something we do, not something that simply happens to us; To know a thing is to create it (pp. 28-9). Era necessario conquistare un nuovo punto di vista.

Haddock riesce a rendere il senso complesso dell’Atto gentiliano, che è il divenire autocosciente del passato e viverne il presente con slancio verso le potenzialità future: è quel accade in ogni problema storicamente determinato del quotidiano. Nella vita e nel pensiero l’attività è processo di argomentazione razionale – la scienza si fa invece di premesse che delimitano il campo e non consentono l’unità del capire; le sue fasi creative sono del pari attuali e non paradigmatiche (Thomas S. Kuhn). La Ragione, Logo concreto è pensiero incarnato, qui-e-ora della fenomenologia hegeliana che è il pensare: già nel primo comparire non è un astratto ma una sintesi, una percezione interpretata: l’Io è il mondo dell’uomo, la sua propria traduzione autentica, il trascendentale kantiano porta dalla filosofia dell’essere a quella della storia. Il percorso è continuo, dalla tesi di laurea di Gentile, relatore Donato Jaja, su Rosmini e Gioberti, pubblicata nel 1898; e poi subito seguita da La filosofia di Marx nel 1899.

La filosofia dello spirito così cerca un punto di partenza diverso dall’antagonismo soggetto-oggetto, in polemica con l’imperversare del positivistico fatto, dovuto al carattere di massa di questa filosofia. Il nesso autocentrato da me a me, identità cosciente ed autocosciente, è fondamento della concretezza del Logo – mentre tutti i filosofi precedenti e contemporanei sono naturalisti, oggettivizzano i saperi dimenticando la vita vivente: questo “radical constructivistic insight” Gentile apprende da Spaventa (maestro di Jaja), che criticò Hegel sostituendo il Divenire all’Essere come prima categoria dalla Logica, che rivalutò il pensiero italiano del Rinascimento affermandone la sotterranea circolazione in Europa. Dava inizio così anche alla tanto criticata storia dei precursori, cui proprio Gentile restituì il suo vero senso, sviluppato poi dall’ermeneutica: posso parlare di un filosofo in quanto mi parla ed entra nel mio mondo e nel mio linguaggio.

Perciò Haddock si dedica alla lettura di Vico che nel De Antiquissima Italorum Sapientia argomentò l’importanza dell’immaginazione e del mondo mitico, ricorrendo al classico espediente retorico della verità degli Antichi: gli Italici avevano una sola parola per vero e certo, ragione e storia, o anche atto e fatto – verum ipsum factum. Se vuoi conoscere devi prima capire, perciò conosci quel che sai fare o ricostruire: la storia e la matematica, non la fisica e la chimica – l’opera di Dio non si capisce conoscendola ma seguendo costruzioni argomentate. Così aveva pensato Bacone nei Cogitata et visa e poi Hobbes: Bacone è tra i 4 auttori che Vico chiama maestri (con Platone, Tacito e Grozio). Quindi, le verità oggettive non le “conosciamo”, “Truth is conventional, Nature as God’s artifact, cannot be known”, sono “a web of artificial concepts” (p. 36). Così per Vico, anche più di Kant, il pensiero è “fused with invention or perception”, insegna retorica e conosce i misteri del linguaggio la cui superficie è quel fenomeno che è storia. Vico è oltre Hegel, secondo Gentile: “history is human artifact” (p. 38) che possiamo conoscere: ma comunque tutti i filosofi sono intrisi di platonismo, le idee sono altre dalla natura – cercando la coerenza nella storia la filosofia invece allaccia il nesso ed intende che il conoscere è creazione di sé, autopoiesi, imbastire soluzioni in moco cosciente, conquistandone l’autocoscienza solo dopo, quando invecchiano e richiedono un nuovo slancio, un nuovo Atto.

L’Atto è un “instantaneous or timeless act of thought, project of a past in our mind’s eye” (p. 41). È la storia ideale eterna, il dialogo trascendentale del presente e dell’eterno: è la societas in interiore homine dell’ultimo volume di Gentile, conclusione del pensare ipotetico come “hypothetical situations in one’s mind eye” che consente di “confront hard choices here and now” (p. 43): Haddock si spinge persino ad un difficile richiamo all’equilibrio riflessivo di Rawls. Certo in Vico emerge una prospettiva che intende le res gestae nell’historia rerum gestarum: le Degnità, poco considerate come metodo per le continue polemiche che si affollano sulle leggi della storia, raccolte nel senso dalle teorie narratologiche (Hayden White). Ipotesi storiche narrate e ragionate trasformano l’utopia in discorso sulle possibilità del mondo, alternativi giochi d’immaginazione preparano l’azione con ben affilati strumenti di analisi. Le Degnità definiscono, oltre la ricostruzione storica, un campo metastorico, vista la difficoltà avvertita da ogni studioso, alla fine del suo lavori avverte l’importanza della chiarezza conquistata. Questo fu l’esempio di Vico, dimenticato nell’epoca della vittoria dello story telling, nuovo nome della propaganda, che come tutte le imitazioni cerca il suo nome nella firma più nobile. La storia celebrata da Vico e praticata da Gentile e dalla sua scuola con una solerzia e forza troppo dimenticata, ha ragione Haddock, dimostra che l’insegnamento di essere buoni storici non fu il solo che Gentile e Croce trassero dalle parole di Vico, vista la loro convinzione della necessità di non trascurare la politica della storia presente.

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