Scelte educative e culturali a scuola e rapporto forma-contenuti

di Franco Blezza

Jan Amos Komenský
Jan Amos Komenský

È’ esperienza comune, di uomini di scuola, di pedagogisti e di educatori come di chiunque abbia attenzione per l’evoluzione culturale della nostra società, un progressivo calo nelle abilità linguistiche, operativamente nelle capacità di impiego dell’espressione verbale, da parte delle ultime generazioni.

Si denunciano, in L1, abusi di brachilogie, anacoluti sistematici, lacune di tipo grammaticale ed ancor più gravi di tipo sintattico (si pensi alla tendenziale scomparsa del congiuntivo, caratteristica così peculiare della lingua italiana), vocabolari personali ristrettissimi a poche centinaia di parole e loro impieghi impropri, infarciti di barbarismi ed idiotismi spesso inutili, ed ancor più spesso scorretti o maccheronici, scadimenti gergali di solito dalla trasferibilità virtuale limitatissima, abuso dei luoghi comuni più di moda al tempo con strascichi temporalmente prolungati, e così via. Lasciamo ai linguisti una disamina più dettagliata e particolareggiata, ma il problema è evidente a tutti ed è di competenza pedagogica diretta.

Né questo trova una qualche forma di compensazione nelle parlate locali, salvo al più alcune realtà particolari, ad esempio nei casi relativamente ai quali non si può impiegare il termine “dialetto” bensì si deve individuare l’esistenza di una vera e propria lingua alternativa all’italiano, che può essere la vera L1 che ha un qualche paese estero nella quale è ufficiale (tedesco, sloveno, catalano, albanese, …: e siano pure in loro versioni non del tutto aderenti a quelle eventualmente presenti in altre nazioni), od una L1 la quale non ha una nazione esterna di riferimento e si affianca alla lingua italiana senza che si possa parlare di L2 né per l’una né per l’altra (franco-provenzale, occitano, friulano e carnico, sardo, ladino, …). Con termine tecnico: né per entità linguistiche “peninsulari” né per entità linguistiche “insulari”.

Del resto, non sarebbe difficile rendersi conto che anche per la L2 vera e propria, e per le eventuali L3 e, talvolta, Ln, la situazione è tale da richiedere attente riflessioni e revisioni di fondo. Al di là della maggiore o minore aderenza a certi standard prefissati, le Performance o si mantengono entro binari scolastici nel senso più stretto e limitativo possibile, oppure scadono ad impieghi minimali paragonabili a quelli sopra accennati per la L1.

Ci si può illudere che questo problema sia tutto interno agli equilibri tra i diversi linguaggi: i nostri ragazzi non sono (o non sono più) adeguatamente periti nell’impiego del vettore linguistico, in quanto lo strapotere dei nuovi media sposta l’attenzione dell’impiego su tutta una gamma di linguaggi non verbali. Detta così, potrebbe anche essere un’evoluzione apprezzabile e persino preziosa, se davvero i nostri ragazzi diventassero capaci di esprimere pienamente secondo un ventaglio di linguaggi diversi, cioè attraverso la multimedialità, quanto un tempo ci si proponeva di insegnare alle generazioni precedenti di esprimersi con il solo vettore linguistico, o essenzialmente connesso impiegando altri lettori in forma ausiliaria, ad esempio solo in alcuni casi il linguaggio iconico, l’ho scritto con un disegno.

Ma così non è. La fruizione della multimedialità e della enorme ricchezza di linguaggi oggi disponibile può funzionare, forse, nel verso della ricezione, e anche su questo sono leciti dubbi e perplessità. Si asseriscono limiti invalicabili alle facoltà di attenzione dei nostri ragazzi, per poi vederli clamorosamente e vistosamente superati nella pratica dei Videogames e in quella dei Social network. Nel secondo caso la povertà linguistica è ancora più evidente, a malapena nascosta da un impiego compulsivo delle fotografie e della condivisione di immagini passive mente recepite; nel primo caso praticamente non c’è alcuna espressione da parte dell’utente-giocatore. I “nuovi linguaggi”, insomma, nella realtà attuale digitalizzata e interconnessa, fanno lamentare esattamente negli stessi limiti nelle capacità espositive e comunicative delle giovani generazioni che possiamo rilevare per quanto riguarda il vettore verbale e linguistico, se non accentuati in forma più grave e comunque maggiormente preoccupante.

Riguardo a tutto ciò, va osservato che tale processo involutivo ha luogo in permanente presenza di una scuola nella quale le discipline linguistiche e formali seguitano (dai tempi di Gentile) ad avere spazi ed attenzioni superiori in modo spropositato rispetto a tutte le altre. Ciò, senza che nessuno oggi avanzi per tali scompensi alcuna motivazione, se non puramente pro forma e dalla consistenza evanescente. Anzi, spesso si incontrano “sperimentazioni” o presunte tali nelle quali le materie linguistiche formali vengono ulteriormente aumentate (per esempio con lo studio di una seconda lingua straniera, o di una terza, con l’introduzione o la maggiorazione di linguaggi non verbali come quello iconico o quello musicale, con l’introduzione di qualche forma di informatica gestionale che è a sua volta disciplina espressiva e formale, senza la benché minima attenzione per un equilibrio complessivo tra tutte le varie e differenti materie linguistiche, espressive e formali, da un lato, e dagli altri lati le materie scientifiche della natura e della cultura e le materie tecniche), cioè operatori scolastici più gentiliani di Gentile, anche quelli che ieri spingerebbero la propria ottemperanza alle scelte di fondo di Giovanni Gentile.

Si potrebbe compiere, a questo riguardo e consimili strumenti concettuali, da una disamina sulla scuola “dopo Gentile”, partendo ad esempio dalle riforme intercorse tra i primi anni ’70 e i primi anni ’90, cioè della fine della cosiddetta “prima Repubblica” che integrano una sorta di riforma organica gradualista e per piccoli passi che ha lasciato fuori la scuola superiore la cui riforma è stata supplita da un impiego disinvolto della sperimentazione; che si potrebbero seguire i frenetici avvicendamenti di riforme più o meno “organiche” che hanno segnato i due decenni della cosiddetta “seconda Repubblica” e non sono ancora terminati. Per tutta l’istruzione pre-universitaria, a partire dalla scuola dell’infanzia, con tutti i distinguo che si possono operare, non c’è mai stata neppure la progettualità o un lontano obiettivo a termine lungo quanto si voglia, di costruire una scuola nella quale siano almeno ripartiti gli orari e le risorse in modo paritario tra i quattro ordini di materie o discipline:

  1. area espressiva e formale:
  2. area delle scienze umane e sociali;
  3. area delle scienze naturali;
  4. area della tecnica.

E si presti bene attenzione all’evidenza secondo la quale qualsiasi sviluppo didattico delle aree II, III e IV comporta un ricorso è essenziale è di fondamentale importanza di tutto quanto attiene all’area I; mentre non vale viceversa, in tutta evidenza.

Si potrebbe compiere, a questo riguardo e consimili strumenti concettuali, da una disamina sulla scuola “dopo Gentile”, partendo ad esempio dalle riforme intercorse tra i primi anni ’70 e i primi anni ’90, cioè della fine della cosiddetta “prima Repubblica” che integrano una sorta di riforma organica gradualista e per piccoli passi che ha lasciato fuori la scuola superiore la cui riforma è stata supplita da un impiego disinvolto della sperimentazione; che si potrebbero seguire i frenetici avvicendamenti di riforme più o meno “organiche” che hanno segnato i due decenni della cosiddetta “seconda Repubblica” e non sono ancora terminati. Per tutta l’istruzione pre-universitaria, a partire dalla scuola dell’infanzia, con tutti i distinguo che si possono operare, non c’è mai stata neppure la progettualità o un lontano obiettivo a termine lungo quanto si voglia, di costruire una scuola nella quale siano almeno ripartiti gli orari e le risorse in modo paritario tra i quattro ordini di materie o discipline:

  1. area espressiva e formale:
  2. area delle scienze umane e sociali;
  3. area delle scienze naturali;
  4. area della tecnica.

E si presti bene attenzione all’evidenza secondo la quale qualsiasi sviluppo didattico delle aree II, III e IV comporta un ricorso è essenziale è di fondamentale importanza di tutto quanto attiene all’area I; mentre non vale viceversa, in tutta evidenza.

Comunque la si guardi, la situazione nel suo complesso si presta ad una lettura inequivoca ed estremamente chiara in tal senso: vi è una universale tendenza a far concedere la gran parte del tempo, delle risorse umane, delle energie e financo delle attenzioni alle discipline espressive e formali e, all’interno di queste, innanzitutto a quelle linguistiche, e poi a quelle logico-matematiche. Le discipline scientifico-naturalistiche sono marginali, un po’ meno lo sono quelle scientifico-antropologiche (storiche in genere, di storia umana, storia delle varie letterature, storia della filosofia, in parte anche scienze della cultura, umane e sociali), ma non sempre sono concepite ed impostate nella loro essenziale scientificità (secondo l’eredità gentiliana e neoidealista non dovevano essere scientifiche, operandosi una distinzione insuperabile tra lo studio della natura e quello della cultura, dell’uomo e della società). Le materie tecniche, poi, o si son viste ridotte a pura e semplice professionalizzazione (per lo più ormai presuntiva), o sono state limitate a presenze simboliche o addirittura annullate, malamente coprendosi tale lacuna con la riproposizione rozza ed incolta della confusione tra scienza e tecnica.

Giustamente si riconferma che chi ha come obiettivo una professionalità scientifica o tecnica, specialmente di livello universitario, deve possedere una adeguata cultura di base in campo linguistico ed espressivo, letterario, formale, ed anche storico e di altre scienze umane e sociali. Si è invece ben lontani dalla riconoscere che vale anche il reciproco: cioè che chi punta ad una professionalità nel campo linguistico, letterario, storico e delle scienze umane e sociali deve avere una cultura analoga ed altrettanto salda nel campo della tecnica e nel campo delle scienze naturali.

(continua)

GF SAGGI BLEZZA Scelte educative e culturali a scuola e rapporto forma-contenuti