Un’immagine, mille storie. Good Kill

di Vincenzo Curion

Il cinema di guerra è un filone molto variegato e complesso, dove non sempre il taglio dato al racconto premia. Raccontare la guerra non è per nulla semplice, perché narrando si assume su di sé il gravoso compito di giustificare ogni caduto dall’una e dall’altra parte, ingenerando, nell’opinione pubblica, sentimenti pro e contro le scelte portate avanti dai governi e dai capi di Stato. Per secoli, narrare guerre ha significato confrontarsi con la polvere dei campi di battaglia, il sangue dei feriti, i pianti e la disperazione di parenti e amici delle vittime che erano sopravvissuti alla morte dei loro cari. Ha significato testimoniare il coraggio di chi si sacrifica nella battaglia, provando a trasferire, a chilometri di distanza, quel colore e quell’energia che si condensano in vivide incancellabili scene.

Da quando esistono giornalisti inviati al seguito delle truppe in ogni scenario di guerra, il racconto sul campo, ha assunto poi, connotazioni ancora più ruvide e rudi, che tuttavia sono servite a non permettere all’opinione pubblica di “voltarsi dall’altro lato”. Se non vi fossero stati polvere, sangue e sudore sul campo, difficilmente il motto “non chiederti per chi suona la campana, essa suona anche per te”, avrebbe il significato di compartecipazione alla battaglia anche per chi, su di un campo di guerra non scenderà mai. L’evoluzione dei mezzi militari, con l’introduzione dei mezzi a guida remota, rischia tuttavia di portare alla scomparsa di questo feedback dal campo, anestetizzando gli operatori coinvolti in guerra e le popolazioni che sostengono eserciti e milizie in battaglia. Saranno guerre più “sicure”? Saranno guerre “più giuste”? Ma può mai essere giusta una guerra?

Le tecniche di guerra con strumenti a giuda remota sono solo gli ultimi sviluppi delle evoluzioni delle tecniche militari. Non si tratta neppure di un grande passo avanti visto che l’esercito tedesco disponeva, nella seconda guerra mondiale di Goliath, un veicolo che veniva controllato a distanza e che poteva trasportare fino a cento chili di esplosivo per far saltare ponti o distruggere i tank nemici. Negli anni Trenta l’Unione Sovietica poteva contare invece sui teletank, robot da combattimento che potevano essere comandati da 500-1000 metri, con un dispositivo radio, dall’interno di un carro armato. Sebbene l’idea non sia nuovissima, solo recentemente le tecnologie hanno raggiunto un livello tale da rendere realmente efficace il loro utilizzo in una vera guerra.

È questo lo scenario che viene raccontato nel film “Good kill”, pellicola accolta freddamente alla 71ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nel 2014, e distribuito nelle sale cinematografiche italiane dal 25 febbraio 2016.

Andrew Niccol scrive e dirige il film partendo da buoni spunti narrativi e tuttavia non riesce davvero a sviscerarli completamente. Resta dunque allo spettatore, ripensare ai grandi temi che sono comunque presenti nel racconto cinematografico aldilà della vicenda strettamente rappresentata.

Il film, ambientato nel 2010 durante l’escalation delle attività di targeted killing, ha per protagonista Thomas Egan, un ex pilota di caccia da combattimento, passato poi a pilotare droni, usati quotidianamente contro i talebani, in Afganistan e nello Yemen. Il suo compito non è più quello di guidare F16 negli scenari di guerra, ma di eseguire, dall’interno di un container in Nevada, chirurgici attacchi su postazioni che l’intelligence a terra, individua di volta in volta, o sorvegliare dall’alto, le truppe dispiegate che combattono in territori ostili e remoti.

È un combattente e, si apprende nel film, è anche bravo, proprio perché ha dalla sua la vera esperienza di volo con sei missioni in sei teatri di guerra diversi. Ma questo nuovo modo di combattere non gli consente di sentirsi a proprio agio. Mentre le nuove leve sono nate “con il joystick in mano” e voleranno sempre in maniera remota, lui davvero è stato addestrato per essere in una battaglia, per volare di notte, per “atterrare su di una portaerei quando il mare è agitato e tutto trema”. La possibilità di confrontarsi con il nemico da migliaia di chilometri di distanza, senza mai percepirne il pericolo, lo disorienta. Attraverso telecamere e monitor, protagonista e spettatore, vivono l’esperienza di guerra diventa fredda e asettica. Le telecamere hanno un livello di dettaglio tale da poter distinguere vittima da vittima e, nel contempo l’azione sembra essere quella di un comune videogioco del genere sparatutto. La guerra va in scena nei monitor come in un simulatore, ma i morti sono veri.

Questo nuovo tipo di guerra in cui è coinvolto, aliena sia lui sia gli altri componenti della squadra che però reagiscono in maniere differenti ma ugualmente disturbate. C’è il commilitone che diventa “assetato di sangue” e vede nell’annientamento la giustificazione della sua vita. C’è un altro commilitone che invece tollera di buon grado di operare in quel modo perché non ne poteva più del lavoro precedente e poi c’è la commilitone Suarez che crede nel proprio servizio e che soffre quanto Egan, per quelle operazioni destabilizzanti che eseguono. Egan vorrebbe tornare a volare, ma il Colonnello Johns non ne vuol proprio sentire. In quel gioco di guerra in cui “sparando si ammazza per davvero”, come dice Johns al gruppo di reclute, ha bisogno della bravura di Egan. Del resto, come altri compagni ricordano a Thomas, questo genere di impiego gli offre notevoli vantaggi. Può alternare la sua occupazione di guerriero in territorio extra americano –emblematica la ripresa della etichetta sulla porta del container:”You are leaving the U.S of A.”- ad un normale ménage familiare, preoccupandosi anche di riuscire a dare ripetizioni di matematica al figlio. Sotto un’apparente facciata di normalità, fatta di un quartiere di casette a schiera tutte uguali, collocato in un’area desertica, alle porte della base militare dove il protagonista si reca ogni mattina, cova tuttavia un fortissimo disagio, legato ad un senso d’identità negata, come si apprende nel film, causato dallo scollamento tra quello che lui compie durante i suoi turni di volo –anche dodici ore l’uno- e ciò che trova al di fuori di quel container. La bottiglia diventa un inseparabile conforto, per anestetizzare un disagio che si acuisce missione dopo missione, soprattutto quando la sua squadra, inizia a prendere ordini direttamente dalla CIA a Langley in Virginia. Neppure il colonnello Johns vorrebbe veramente operare sotto gli ordini della CIA. Dispregiativamente li chiama Cristiani in Azione, per il loro “integralismo” contro le popolazioni di fede musulmana che starebbero fiancheggiando Al Qaeda.

Proprio questa parte del film, evidenzia un nuovo enorme pericolo delle nuove guerre tecnologiche: l’intelligence che controlla le missioni e che decide gli attacchi è altrettanto remota come chi deve compiere l’operazione. Come si gestisce la catena di comando? Sulla base di quali informazioni sono eseguite le azioni? Le regole d’ingaggio tradizionali saltano –nel film si fa menzione ad “Attacchi a impronta”, su schemi comportamentali” – e, nel film, a farne le spese sarà proprio Egan, la sua squadra e soprattutto il rapporto di Thomas con la sua famiglia. Con il passare del tempo, egli si chiede sempre più se il suo comportamento sia corretto e se con il suo operato non stia contribuendo al procrearsi di nuovi terroristi.

Questa idea non è soltanto di Egan ma anche di Suarez e, velatamente di Johns, che però, sa che gli ordini sono ordini e per questo vanno eseguiti.

Di missione in missione il malessere di Thomas cresce, finché, complice l’abbandono da parte della moglie e l’ultima, richiesta da parte della CIA, non è spinto ad un atto d’insubordinazione che gli fa perdere la promozione promessa e lo declassa alle semplici vigilanze remote.

Sarà questo declassamento il preludio ad un ultimo gesto di riscatto che Thomas compie in autonomia, premunendosi di non mantenere alcuna registrazione dell’episodio, così come avevano imposto, anche gli agenti della CIA, in una precedentemente missione. Con l’aiuto del drone Thomas uccide un miliziano reo di avere più volte stuprato una donna da cui si recava abitualmente e che la squadra di Egan aveva ripreso dall’alto senza prontamente intervenire. Fatta giustizia (?), Egan esce dal container ed abbandona la base, per raggiungere la moglie e la famiglia, sperando, forse, in ricongiungimento. Assieme a lui, abbandona il servizio anche Suarez, riconoscendo di essere stata fortemente provata dalle missioni effettuate e di non riconoscersi nelle logiche militari imposte.

Nel suo genere, il film, che non sarà certamente ricordato come la sceneggiatura più brillante di Andrew Niccol, presenta tratti di unicità e d’interesse. Il tema della guerra da remoto, resta ancora inesplorato, anche se nel 2015 uscì nelle sale il film Il diritto di uccidere, che trattava tematiche analoghe, la guerra al terrorismo con velivoli a controllo remoto.

Come espresso in “Good Kill” – frase che nello slang sta significa “bel colpo, missione ben eseguita”-, anche quando il protagonista compie azioni eroiche, il filtro del monitor –non ci sono scene di guerra se non quelle che si vedono attraverso la visione del drone-, fa perdere il contatto con ciò che si sta compiendo e, le crisi di disadattamento che possono colpire un militare di ritorno di una missione in un teatro di guerra, ora sono una lunga e quotidiana difficoltà con cui le famiglie dei soldati devono fare i conti.

Il regista, cogliendo le trasformazioni delle dinamiche di guerra nel mondo contemporaneo, avrebbe potuto trattare con maggior cura, questo ruolo- non ruolo in cui il protagonista è imprigionato. Invece si limita a raccontarlo frammentariamente, attraverso poche scarne battute.” Perché abbiamo uniformi da pilota?” Gli avieri che operano da remoto potrebbero infatti vestire anche in giacca e cravatta o secondo qualunque altro dress code non essendoci particolari necessità all’interno dei container in cui operano. Il loro ruolo di forze remote li rende invisibili e privi di identità anche nei confronti delle altre forze armate che materialmente sono su quei campi di guerra a rischiare la vita.

Nel film il problema delle vittime civili causate durante le missioni è trattato in maniera scarna ed essenziale. Il protagonista, che grazie alla tecnologia esegue “attacchi chirurgici”, deve convivere con inevitabili errori legati alla precisione del mezzo: per attaccare solo i guerriglieri è necessario inquadrarli con le telecamere a bordo dei velivoli. Ma, una visione più ristretta ed ecco che persone comuni possono essere coinvolti nelle operazioni, diventando numeri nell’elenco dei “danni collaterali”. Chi pagherà per quei danni? Per quelle vittime? Come il colonnello Johns riconosce, le battaglie a distanza non avranno fine, in nome della necessità di dover impedire che troppi giovani Americani cadano in battaglia. Al contempo, l’odio alimentato contro gli americani è talmente tanto forte da far tollerare qualunque sacrificio o impegno. Infine, l’imparità delle forze in campo, l’asimmetria che si determina tra i contendenti piuttosto che spegnere il conflitto, lo alimenta sommessamente. Cosa accadrà quando anche loro avranno i droni? Cosa accadrà quando anche dalla loro parte ci saranno persone impiegate per spiare ogni minima mossa? Il film a queste domande non risponde, ma prova a chiedere allo spettatore di schierarsi. Veramente un “attacco chirurgico”, un bombardamento ordinato “su schemi comportamentali” alimenterà la sicurezza dell’Occidente?

Bibliografia e sitografia

https://en.wikipedia.org/wiki/Targeted_killing

https://www.lawfareblog.com/topic/targeted-killing

http://www.filmscoop.it/film_al_cinema/goodkill.asp

https://it.wikipedia.org/wiki/Good_Kill

http://www.cineforum.it/recensione/Campo_di_battaglia_virtuale

https://www.robotiko.it/robot-da-combattimento-droni-militari/

http://www.p1hh.piaggioaerospace.it

https://it.wikipedia.org/wiki/Aeromobile_a_pilotaggio_remoto

https://it.wikipedia.org/wiki/Il_diritto_di_uccidere_(film_2015)

https://www.abcdroni.it/che-cosa-sono-i-droni/droni-militari

https://www.wired.it/attualita/tech/2019/03/09/drone-kamikaze-guerra-futuro/

http://www.milex.org/2018/12/05/droni-militari-la-guerra-del-futuro/

https://www.atlanteguerre.it/notizie/droni-militari-la-guerra-del-futuro/

http://www.cinecriticaweb.it/film/good-kill/

http://shvachko.net/?p=2401&lang=en

 

W Curion Un’immagine, mille storie. Good Kill