Mese: Febbraio 2016

Un costruttore di Pace. Il Mediterraneo e la Palestina nella politica estera di Aldo Moro.

di Francesco Villano

Aldo Moro
Aldo Moro

Il libro così intitolato, scritto dal Prof. Gennaro Salzano ed edito da Guida nel 2015, fa riferimento ad una fase della politica estera italiana, che va dal 1969 al 1974, e ad un grande statista, Aldo Moro, che di quella fase, in qualità di ministro degli esteri, a parte la parentesi di Giuseppe Medici nel secondo governo Andreotti, fu l’indiscusso protagonista. Un periodo in cui il nostro Paese dimostrò di avere la “schiena dritta”, in particolare rispetto alle due superpotenze, gli Stati uniti e l’Unione Sovietica; una fase della storia recente che ci vide all’avanguardia nella ricerca, formulazione e attuazione, per quanto possibile, di una nostra, indipendente e “originale” politica estera, in particolare per quanto riguarda il Mediterraneo e la Palestina. Un agire ispirato sia dai più alti valori della nostra tradizione culturale, cristiana e laica, e sia dall’interesse nazionale. Una politica caratterizzata non da un continuo braccio di ferro, da un costante contrapporsi, ma dalla ricerca del bene comune, della prosperità e giustizia per tutti i Paesi, in un clima di crescente fiducia e rispetto reciproci, in una fase della storia mondiale caratterizzata tra l’altro dalla fase finale della decolonizzazione e acquisizione di sovranità da parte di tanti Paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Come ci ricorda l’autore, il periodo della permanenza di Aldo Moro alla Farnesina vide la sua fase più critica nell’ottobre del 1973, con due eventi cruciali per gli equilibri internazionali. Il primo: dal 6 al 25 ottobre si ebbe la cosiddetta guerra dello Yom Kippur, o dell’espiazione, perché scoppiata nel giorno del perdono, una delle più importanti feste religiose del popolo ebraico e che vide l’Egitto e la Siria aggredire Israele, in quello che sarà il quarto conflitto arabo-israeliano, a partire dalla fondazione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 maggio del 1948. Il secondo, direttamente conseguente al primo: il 17 ottobre i Paesi produttori di petrolio (OPEC), con l’Arabia Saudita in testa, decisero di aumentare il costo dell’oro nero, fino a quadruplicarlo, e di attuare un embargo verso quei Paesi che sostenevano Israele nella guerra in corso. Il petrolio divenne un vero e proprio strumento di pressione nel conflitto in atto, ma determinò anche una nuova presa di coscienza nei Paesi “consumatori”, che si accorsero improvvisamente che il combustibile del motore del loro sviluppo economico e industriale era in mani ostili. Moro, in tale frangente, impresse alla politica italiana notevoli impulsi, tali da marcare una posizione nettamente autonoma rispetto all’alleato americano (giova ricordare che l’Italia era ed è un membro della NATO, dell’Alleanza Atlantica), sì da darle un ruolo centrale nello sviluppo del successivo dialogo con il mondo arabo e soprattutto una strategia che rese il nostro Paese uno dei più acuti protagonisti del dibattito sul futuro del Medio Oriente. In realtà Moro si poneva alla sequela di una linea politica filo-araba e mediterranea che era stata già caratteristica di Amintore Fanfani, uno dei padri della Democrazia Cristiana e grande statista della prima repubblica, ma che aveva capisaldi politici e culturali in Giorgio La Pira, Enrico Mattei e Giovanni Gronchi. La Pira, il celebre sindaco di Firenze che negli anni cinquanta, oltre ad aver fondato la prima Amicizia Ebraico Cristiana d’Italia, organizzava, profeticamente, gli ”Incontri mediterranei”, dove intellettuali, giornalisti e politici, sia di diverso orientamento che di diversa nazionalità e credo religioso potevano incontrarsi e discutere. Quindi si sperimentava anche un dialogo interreligioso ante litteram, ben prima degli esiti del Concilio Vaticano II (1962-1965), ed in particolare della Dichiarazione Nostra Aetate, pietra angolare del nuovo corso della Chiesa Cattolica rispetto non solo agli ebrei, ma a tutti i seguaci delle altre religioni. Enrico Mattei, il “padre” dell’ENI, che tanto si era battuto per rompere la logica neocolonialista attuata dalle ”sette sorelle” a discapito sia dei Paesi arabo-islamici produttori di petrolio, sia dei nostri interessi nazionali. Ancora oggi, in Iran, grande è la stima del nostro “ingegnere”. Giovanni Gronchi. l’ex presidente della repubblica, fondatore della D.C. e leader della corrente di sinistra del partito. Bisogna ricordare anche che quelli sono gli anni della nascita dei grandi movimenti pacifisti in occidente, gli anni che avevano appena visto l’azione profetica di Papa Giovanni XXIII e quella carismatica di John Fitzgerald Kennedy, gli anni in cui Paolo VI emanò l’enciclica Populorum Progressio (1967), sul sottosviluppo ed emancipazione del terzo mondo. Il problema della pace e della cooperazione tra popoli, civiltà e culture nel Mediterraneo, ma non solo, era, in quel periodo, al centro dell’attenzione della parte migliore dell’intelligenza cattolica. A questo filone di idee, a questa matrice politico-culturale Moro apparteneva pienamente, per formazione e convinzione. Inoltre questa visione si sposava completamente con la sua concezione dell’area mediterranea con la quale, attraverso una serie di viaggi, aveva iniziato a tessere una fitta rete di rapporti, con alti e bassi (esproprio dei beni italiani in Libia) sin dal 1970. Egli auspicava una comunità solidale tra i Paesi delle due sponde (Nord-Sud), che facendo corpo unico con la Comunità europea, si inserisse nella dialettica, nella contrapposizione tra Est e Ovest, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, cifra della guerra fredda. Contrapposizione che tendeva, spesso riuscendovi, a determinare le sorti, le aspirazioni, le aspettative di buona parte dei Paesi del mondo. Si doveva avere la forza e la determinazione di portare avanti e promuovere tale rivendicazione all’interno dell’Alleanza Atlantica, quindi non come opposizione ad essa, ma come allargamento della visione geostrategica della stessa. Nel discorso che fece all’ONU, alla XXIV sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è esplicitato chiaramente il punto di vista di Aldo Moro, in quella che fu definita: “la dottrina italiana per la pace”: “…la costruzione della pace non può più, infatti, ridursi al controllo dei conflitti armati, ma comporta anche la progressiva eliminazione di squilibri economici, sociali e tecnologici che operano come fattori di instabilità e di disordine nella vita internazionale. Ritengo che, partendo da questa concezione integrale della pace, si dovrebbe promuovere un rafforzamento delle Nazioni Unite, sul piano istituzionale, organizzativo e metodologico”. Insomma, un altro protagonista della politica mondiale che andasse ad affiancare le due superpotenze. Parallelamente a ciò, in un periodo storico che, mutatis mutandis, sembra per tanti versi una fotocopia di quello che stiamo tuttora vivendo, egli auspicava l’indispensabile unità politica dell’Europa, l’unica che potesse dare la forza di attuazione ad un’autonoma visione geostrategica. La forza economica, da sola, non portava e non porta lontano! Ed ancora, come ci ricorda Salzano: Moro, con grande lungimiranza, quasi capacità profetica, richiamava l’attenzione sul fatto che non si sarebbe mai potuto avere un’Europa sicura senza un Mediterraneo sicuro, e quindi senza un accordo con il mondo arabo. Concretamente si trattava di indire una Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo, sì da far riprendere a pieno ritmo, così com’era accaduto per secoli, i contatti e i traffici tra i popoli delle diverse sponde di questo mare. Non ci dimentichiamo che fino alla scoperta dell’America e poi con il successivo spostamento del baricentro politico dell’Europa verso il centro nord del continente, le due sponde del Mediterraneo avevano condiviso per secoli un comune dato antropologico.

Si evince facilmente come tali posizioni andassero a scontrarsi con la linea politica portata avanti dagli Sati Uniti ed in particolare da Henry Kissinger, prima come Consigliere per la sicurezza nazionale e poi come Segretario di Stato dei presidenti Nixon e Ford. Il suo privilegiare costantemente lo scontro, il confronto frontale delle posizioni, nella logica dei blocchi contrapposti era alquanto lontano dalla ricerca dei punti di convergenza e dialogo dell’agire di Moro. Dal 1973 in poi il conflitto assumerà dei toni accesi e la scintilla sarà data dal rifiuto italiano di concedere le basi italiane della Nato per far attuare un ponte aereo che permettesse di rifornire Israele. Per chiarezza e completezza bisogna ricordare che il conflitto con gli americani riguardava sì la diversità di vedute ed azioni per il Medio Oriente, ma anche e soprattutto aspetti della politica interna al nostro Paese: il dialogo con la seconda forza politica italiana, il Partito Comunista, con il quale invece Moro riuscì a stabilire un’unità di intenti nell’agire dell’Italia in politica estera, sia per quanto riguarda il Medio Oriente ed il Mediterraneo, sia per la nuova presa di coscienza che stava maturando rispetto al popolo palestinese e che prese la denominazione di: “Questione Palestinese”, al centro della quale c’era la richiesta di attuazione, fino ad allora sempre disattesa, della risoluzione ONU n° 242 del 22-11-1967, con la quale si intimava allo Stato di Israele di ritirarsi dai Territori Occupati con la guerra dei sei giorni del giugno del 1967. L’Italia riconosceva in questa non attuazione una delle cause della guerra in corso. La posizione dell’Italia era mediana rispetto al conflitto. Né a favore, né contro l’uno o l’altro dei contendenti, ma operante “nel mezzo”, per una ricerca di una pace giusta. Oltre a dissentire da questa strategia, per Kissinger e soci il timore più grande era rappresentato da un eventuale ingresso dei comunisti al governo, cosa che andava assolutamente evitata!

Proprio Kissinger, come ci ricorda Salzano, in un ricevimento a Villa Madama svoltosi in quel periodo, ebbe a dire: ”Dovrà forse venire il giorno in cui sarà necessario convocare l’ambasciatore Volpe e dirgli: caro Volpe è giunto il momento di inviare un generale al posto tuo?” Un’affermazione da non prendere assolutamente sottogamba, dato che a farla era chi aveva sostenuto in Cile la fine dell’esperienza del governo socialista di Salvador Allende (con la sua uccisione), l’11 settembre sempre di quel fatidico anno, il 1973. Kissinger più di una volta aveva sottolineato le affinità tra la situazione cilena e quella italiana. E’ del 1974, invece, dal ritorno dagli Stati Uniti dove aveva accompagnato il Presidente Giovanni Leone, una confidenza fatta da Moro alla signora Eleonora, sua moglie, (testimoniata da quest’ultima alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio del marito), sul tenore della quale, di cui il marito non le precisò l’autore, c’è da rabbrividire: “Onorevole lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare quella cosa o lei la pagherà cara”. Del resto Kissinger riteneva Moro un eterodosso dell’atlantismo oltre che uno troppo amico dei comunisti!

Queste sintetiche considerazioni sul pregevole lavoro del prof. Salzano, che mi ha molto arricchito, sono solo degli spunti di riflessione che ovviamente rimandano alla lettura del testo, denso per quantità e qualità di temi trattati (vedi tra l’altro i capitoli su: “il dibattito parlamentare sulla guerra”, che ci da uno spaccato della vivace e variegata realtà politica italiana del tempo; e su: ”l’Europa nel dibattito sulla guerra dello Yom Kippur”, che evidenzia il proporsi dell’idea di Moro di un’Europa come terzo polo politico sullo scenario mondiale). Nella seconda parte del libro vi è un’Appendice nella quale sono raccolti, tra l’altro, alcuni dei più significativi discorsi tenuti da Aldo Moro nel periodo in questione.

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Un pensatore d’immagini: Giordano Bruno – I Giordanisti

di C. Gily Reda

Pavimento del Duomo di Siena
Pavimento del Duomo di Siena

L’esistenza dei Giordanisti va guardata da questa speciale prospettiva d’immagine, che pone l’attenzione su Ermete Trismegisto laggiù, nel pavimento del Duomo di Siena.

Perché l’ermetismo di Bruno e dei Rinascimentali, magico ed irenico, viveva di tradizione ma la riviveva in modo nuovo, in una nuova concezione della vita in divenire. Una idea della scienza che si mantenne nel pensiero moderno, sotto una fitta coltre di aritmetica ed illuminismo; nel 900 è sbocciata – nata nella grande arte Rinascimentale, si esprime davvero nella forma non formata delle Avanguardie.

La scienza moderna col suo calcolo ha imboccato col calcolo infinitesimale e le geometrie non euclidee la via che l’ha condotta alla relatività ed all’indeterminismo, teorie che per tanti rispetti assomigliano più alla magia che alla legislazione scientifica moderna. La scoperta delle onde gravitazionali di Einstein ha avuto proprio in questi giorni un riscontro interessante. L’avrebbe accettato Galilei? Forse sì, visto che era un astronomo-astrologo, come tutti allora, autore anche di oroscopi (purtroppo per lui, sfortunati). Bruno anche era tale, viveva spiegando l’astronomia di Copernico, cui si riteneva però superiore perché filosofo: cioè uno che si confronta con la coerenza ideale e giunge a conclusioni – sulla base di un’armonia generale riconosciuta anche dai Pitagorici quando parlavano della matematica del numero aureo o della musica delle sfere.

Sulla base di questa superiorità, Bruno affermava l’infinito seguendo le tesi di Nicolò Cusano Vescovo di Bressanone – mentre Copernico poteva parlare della rivoluzione celeste ma non affermare l’infinito senza esperimento e prova. L’epistemologia di oggi direbbe che Bruno è scienziato nel senso della logica della ricerca, cha parte da una tesi e riflette l’intero da un punto di vista; Copernico è scienziato dal punto di vista del metodo matematico. Per K. R. Popper, sono i due momenti della vita della scienza, quello della scoperta e quello della corroborazione delle ipotesi.

Nel ‘500 astronomia ed astrologia erano oggetto di una unica scienza che si occupava delle stelle e delle costellazioni, sulla base di osservazioni e storie bi- e quadri-millenarie; l’introduzione del numero aritmetico come unica via di conoscenza, tipica del pensiero moderno, ha reso la scienza velocissima ma poco attenta al mistero ch’è l’altra parte del cosmo: così si spiega il cambio di paradigma del 900, che con la relatività generale e l’indeterminismo ha recuperato l’unità, il parimpari, da cui nascono tutti i numeri, e che è, dice il nome pitagorico, né pari né dispari. L’unità consente di trovare le vie della pace, porsi davanti alla storia con un aut aut, se non sei amico sei nemico, non giova alla fraternità. Ecco il legame che unisce le speculazioni astronomiche alla teoria e pratica della pace che suscitò consenso intorno a Bruno, suggerendogli, nel odno delle nuove religioni, di costituire anche lui una setta, ispirata però alla pace, al riconoscimento di quel che c’è di comune tra le religioni. È il tempo in cui nasce il Giusnaturalismo e l’Utopia ad opera dei tanti perseguitati per motivi religiosi, di cui Giordano Bruno è certamente l’eroe.

Ma da tempo i dotti si chiedevano, come Pico della Mirandola: ma dove stanno tutte queste differenze tra le religioni? Certo, ce ne sono, ma non sono tanto grandi come quelle tra chi crede e chi non crede e perciò uccide, tortura e si abbandona alle sue sregolatezza. Tra chi è solidale verso il debole e chi lo perseguita c’è la vera differenza, divide chi crede nell’Anima del Mondo, comunque la appelli. Ciò non intende chi fa la guerra di religione, che pensa al potere di una Chiesa ed è costretto perciò a ben altre considerazioni, non religiose. È il problema dei fondamentalismi – allora erano ugonotti – luterani – anglicani… e anche forse gallicani e Catto-Asburgo (il continuo conflitto Papa Impero allora placato in Carlo V) che consolidavano le proprie nazioni. A tutto ciò si opponeva l’irenismo di tanti intellettuali che negli studi meditavano un’altra idea di Dio e dell’uomo, edificando la forza del diritto internazionale.

Ed ecco perché era un’azione politica di tipo diverso la creazione di una setta, i Giordanisti, di cui si notizia certa perché è lo stesso Bruno a parlarne a Mocenigo, come si confermò al processo di Giordano Bruno, durato dieci anni. Si ha anche certezza dell’azione pubblicitaria di Dicsonio, un personaggio dei dialoghi italiani (Dickson, già presente a Londra); di Toland, il celebre deista inglese che tradusse e diffuse il dialogo di Bruno dedicato alla necessità di cambiare la religione tradizionale, chiamato Lo spaccio della Bestia Trionfante.

Una conferma indiretta è l’atteggiamento di Bruno di non abiurare, come fecero Galilei e Campanella; ciò parve strano già ai contemporanei, sia che lo ritenessero a torto ateo – mentre era religiosissimo, nel nome del Dio Ignoto che S. Paolo riconobbe ad Atene – come a chi lo riteneva giustamente un non cattolico che aveva gettato alle ortiche la sua tonaca di frate domenicano ed aveva girato l’Europa di tutte le diverse religioni ereticali. Diceva anche messa a Londra all’ambasciata francese: la sua disobbedienza e mancanza di rispetto del detto papale era antica… perché non salvarsi la vita? per quell’unica affermazione che non rinnegò mai (che Dio è il nocchiero della nave del mondo, coinvolto nel suo divenire). Il suo atteggiamento al processo si spiega se si pensa agli amici lontani cui vuole raccomandare fede e coraggio. I Giordanisti consistono di poco più del nome, ma dal 1610-16 ci sono le attestazioni della setta dei Rosacroce, che per tante cose condivide le idee di Bruno: lo documenta Frances Yates, che ha scoperto alla Warburg Library la grande importanza de pensiero mnemonico ed ermetico di Bruno.

Lo spaccio della Bestia Trionfante è il manifesto del rinnovamento religioso proposto. Si narra la favola nel teatro della religione politeista greco romana. Finita da mille anni e più, figura in scena tutte le religioni che tramontano. Bisogna sì tirar giù gli dei, ma anche meditare i nuovi valori: è questo il teatro in cui tanti valori si rinnovano e prendo la vita del tempo attuale.

Morta da tempo ma ancora così viva nell’arte e nella cultura dell’epoca, la religione di Giove e Giunone reggeva bene la satira teatrale, gli Dei erano capaci di ironia e riso; consentivano a Bruno di mettere in metafora la necessaria fine degli dei, contro dogmi e violenze. Contro il sereno accogliente Olimpo, le guerre ammantate di religione ripropongono il problema dei valori al filosofo: che risponde distruggendo e ricreando il cosmo dei valori del tempo.

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