Giorno: 19 Maggio 2016

Europa: Nord e Sud? Attualità di Carlo Antoni

Letto al convegno del 2014 della fondazione del Centro studi Collingwood a Napoli

Ricordo l’articolo su Carlo Antoni edito nel 2014, nn. 8 e 12-13

di Rik Peters
Università di Groeningen
federicoIIunina
Università di Napoli – Centro Studi Collingwood

«È altra proprietà della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti» (G. B. Vico, La scienza nuova, Elemento II)

 

Unità nella diversità

Fra il 22 e 25 maggio 2014, si terranno le elezioni per il parlamento europeo. In questo momento, tutti cittadini dei 28 stati membri sono ammessi a votare i rappresentanti per la Unione Europea: durante le elezioni non si faranno distinzioni tra Est e Ovest, tra Nord e Sud, si rivive il motto della Unione, l’«unità nella diversità».

Fuori delle elezioni, però, questo motto sembra quasi morto. Fino al 2005, annus horribilis dell’Unione Europea, si credeva ancora in un «modo di vita europea», basati su presunti «valori comuni» su cui «fondare» la nuova «costituzione» europea; ma dopo il doppio «no» di Francia e di Olanda contro il progetto della costituzione, l’ideale europeo vacillava.[1] Con la crisi del 2008 poi l’unità d’Europa ha cominciato a crollare: per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale si è parlato di nuovo di un’Europa del Nord e di un’Europa del Sud; inoltre, nell’Europa del Nord politica e media gestivano una vera campagna pubblicitaria contro il Sud. Nei parlamenti, sulla televisione e nei giornali si è lamentata la corruzione dei greci, l’incapacità dei spagnoli, e quando si trattava d’Italia, la figura di Berlusconi dominava schermi e pagine, il «bum bum party» è celebre fino al circolo polare artico.

Lo scopo di questa campagna pubblicitaria è chiaro: il Nord d’Europa doveva separarsi dal Sud; né si deve sottovalutare la serietà di questo proposito, visto che molti politici al Nord d’Europa sono ancora preparati a sacrificare il love baby della Unione Europea, l’Euro. Pubblicamente, infatti nello stesso parlamento europeo, si parla di instituire un Euro del Nord e uno del Sud, noti come «Neuro» e «Seuro»[2].  La gravità della situazione fu anche riconosciuta dai leader europei. In vista delle elezioni europei di maggio, José Manuel Barroso sosteneva in gennaio che «stiamo assistendo ad un aumento dell’estremismo dall’estrema destra e dall’estrema sinistra» e suggeriva che l’elezione potrebbe diventare «un festival di rimproveri», a suo parere infondati «contro l’Europa»[3]. Nonostante l’autorità di Barroso su questa materia, è dubitabile se si possa ancora porre il problema nei termini di una opposizione di destra e sinistra visto che quasi tutte le correnti politiche sono state coinvolte nella campagna pubblicitaria contro il Sud d’Europa. Del resto, è un segno di debolezza per un leader rimproverare altri di rimproverare, non si ferma così «il festival di rimproveri».

Per risolvere il problema della unità europea bisogna prima di tutto capire i rimproveri. Ma come già diceva Vico, capire è difficile perché «ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro  conosciute e presenti». Per fare un nuova idea d’Europa si deve dunque capire «le cose lontane» cioè distanziarsi dalle «cose a noi conosciute e presenti», per esplorare mondi sconosciuti e assenti. Per Vico, questa esplorazione fu in primo luogo una esplorazione storica: capire «le cose lontane» vuol dire capire la loro storia. E con «storia» Vico non intese la storia nel senso di fatti storici, ossia la storia in tempo, ma la storia ideale, ossia una storia delle idee. E fra queste idee, l’idea della storia è la più importante, perché per capire le cose di un’altra cultura, bisogna capire come questa cultura ha capito se stessa nella sua storia. Questo primato della idea della storia è il credo di tutto lo storicismo da Vico a Huizinga, che definì la storia come «la forma spirituale in cui la cultura si rende conto del suo passato».[4]

Per render conto del passato dell’Europa, questo articolo discuterà l’idea della storia più conosciuta e presente d’Europa nel Nord e in America, che è quella di Hans Georg Gadamer. Infatti, la sua critica dello storicismo è diventata tanto autorevole, che si è dimenticato vertesse sullo storicismo tedesco del ottocento – i suoi seguaci hanno preso la critica come valida per tutti storicismi. Ma studiosi come Raffaello Franchini e Fulvio Tessitore hanno sempre argomentato che ci sono stati più tipi di storicismo e uno dei più notevoli è senza dubbio lo storicismo italiano, che nonostante la sua importanza è tramontato fuori d’Italia, quanto era importante al tempo.[5] Per capire la cultura europea è importantissimo approfondire questa tradizione, perché rappresenta un altro modo di capire la storia. Perciò questo articolo confronterà la filosofia di Gadamer con quella de suo coetaneo Carlo Antoni. Nelle sue varie opere, questo storico e filosofo italiano non solo diede un interpretazione alternativa della crisi dello storicismo, ma anche propose una linea alternativa. Come gli altri autori dello storicismo italiano, Antoni è rimasto poco conosciuto, se si eccettuano Ortega y Gasset, Huizinga, e Hayden White, che tradusse il suo Dallo storicismo alla sociologia in inglese, quasi nessuno fuori d’Italia lo ha citato. Questo articolo discuterà lo storicismo di Antoni mostrando la sua rilevanza per i problemi contemporanei d’Europa.

 

Gadamer: dal metodo alla verità.

Partendo dalla critica dello storicismo tedesco ottocentesco, Gadamer la individua in primo luogo come una crisi della ermeneutica.  Sui passi del suo maestro Heidegger, Gadamer cercò di superare con una nuova ermeneutica che non sia epistemologica, ma ontologica: non dovrebbe essere un metodo, ma orientarsi alla ‘Verità’. Verità nel senso di Heidegger e Gadamer va scritto in italiano con la maiuscola, per distinguerla dalla verità nel senso ordinario, empirico. In contrasto con questa verità empirica la Verità è più profonda perché si rivela nei eventi della vita, anzi nell’esperienza dell’essere. Per Heidegger e Gadamer, Verità non è categoria epistemologica, ma ontologica.

In questo contesto è interessante notare, che Gadamer esplicitamente riconobbe Vico come un importante predecessore di questa visione della Verità. Erede di una lunga tradizione retorica, il filosofo napoletano difese l’importanza del senso comune e della eloquenza contro il razionalismo cartesiano. Secondo Gadamer l’eloquenza non fu solo un ideale retorico, ma ha sempre anche avuto il significato di «dire il giusto» cioè «dire la Verità»[6].

Nella prospettiva di Gadamer, la tradizione retorica fu rotta all’inizio dell’ottocento con la emergenza della Historische Schule in Germania. Seguendo i passi di Herder e Humboldt, la scuola storica tedesca cominciò a intendere la storia come «metodo». Lo scopo di questo metodo non fu più la Verità ontologica, ma la verità ordinaria, perché portò a riscoprire il significato della realtà storica.  Il nucleo del metodo storico consistette nella massima ermeneutica nota come circolo ermeneutico, che prescrive che il significato di un testo può essere trovato per una comparazione delle parti del testo con il tutto e viceversa, il tutto con le parti. Secondo Gadamer, era questo circolo ermeneutico, sviluppato soprattutto da Schleiermacher, che fu applicata dalla Historische Schule alla storia stessa[7]. Opponendo la filosofia della storia di Hegel, storici come Ranke, Droysen, ed altri tentavano di capire la storia come un grande testo, interpretando le parti, cioè i fatti particolari, nel lume della storia del mondo, e la storia del mondo sulla base dei fatti. In questo contesto, Gadamer sottolinea che gli storici tedeschi si distinguevano da Hegel solo nel metodo: come per il filosofo, l’ultimo scopo dello storico fu di capire la Weltgeschichte, anzi la storia universale.[8]

Secondo Gadamer, per due ragioni strettamente correlate questa idea della storia universale formò il punto debole della Historische Schule. Primo, non è possibile di conoscere il significato della storia universale perché, in contrasto con un testo, la storia non è mai completa:

«The universal framework of history lacks the self-containedness that a text has for the critic and which, for the historian, makes a biography, or the history of a nation that has departed from the world-historical stage, or even the history of a period that is over and now lies behind us, into a complete unit of meaning, a text intelligible within itself.[9]»

Secondo, non si può conoscere il significato della storia, perché non è possibile oggettivare la storia; non siamo mai oltre, o fuori della storia, ma siamo sempre dentro la storia:

«For history is not only not completed, but we stand within it as those understanding, as a conditioned and finite link in a continuing chain»[10].

Il punto centrale in questo passo è che siamo sempre «condizionati» dalla storia. Nei termini del circolo ermeneutico si può dire che non possiamo costruire il circolo, perché costituiamo il circolo. Per questa ragione, le nostre interpretazioni della storia sono sempre condizionate dalla storia stessa, o più precisamente dalla storia dell’interpretazione, chiamata Wirkungsgeschichte o «storia effettiva» da Gadamer. Immersi nella storia effettiva, le nostre interpretazioni non possono essere oggettive; sono sempre soggettive e con questa radicale soggettività cade l’idea di un metodo che conduce alla verità storica come ricostruzione della realtà storica. Riconoscendo questo problema della soggettività della verità storica, alcuni storici e filosofi tedeschi alla fine del ottocento svilupparono un’idea della storia universale senza un telos determinato come «libertà». Ma secondo Gadamer questa idea fu niente altro che una «teleologia senza telos», che, proprio come la teleologia di Hegel, funzionava a priori per la storiografia.[11] Parafrasando Gadamer in italiano si può dire che la teleologia, cacciata dalla porta della storia, tornò dalla finestra.

Visto che non si può salvare l’oggettività del metodo storico, Gadamer propone di ammettere la radicale soggettività della storia e di aprire la via alla storia come Verità. Per questo dobbiamo abolire l’ermeneutica come epistemologia e riconoscere la nuova ermeneutica come condizione ontologica del essere. Da questa prospettiva, dobbiamo anche rinunziare ad ogni idea a priori della storia, e affermare che siamo sempre dentro la storia. In particolare, dobbiamo rifiutare l’idea che possiamo ricostruire il significato della storia come fu, o la storia «wie es eigentlich gewesen», per intendere che costruiamo il significato dei fatti storici sempre nella storia, cioè nella tradizione delle interpretazioni, ossia nella storia effettiva. Riconoscendo la storia effettiva la ermeneutica ontologica non cerca più di colmare le differenze tra passato e presente, ma parte da queste differenze per entrare in un dialogo con il passato.  Questo dialogo non conduce mai a un’identificazione del passato con il presente, ma in una ‘fusione degli orizzonti’ che si sviluppa come linguaggio tra i partecipanti al dialogo.[12]

Per Gadamer, la migliore illustrazione dell’esperienza ermeneutica va trovata nel mondo giuridico: nell’applicazione della legge su un fatto particolare, il significato della legge non va trovata nell’intenzione del legislatore, ma nella giurisprudenza, cioè nella storia delle interpretazioni fino al presente. È qui, che il giudice applica la logica della domanda e della risposta, cercando il significato della legge nella applicazione sul fatto particolare, il giudice deve ricostruire la legge come risposta a una domanda. [13]

Arrivato al fondamento della nuova ermeneutica, si può chiedere se Gadamer ha realmente risolto il problema dello storicismo tedesco. Gadamer sostiene di aver sostituito la concezione epistemologica con la concezione ontologica dell’ermeneutica: abolite tutte le concezioni a priori della storia, di aver aperto la via alla verità nel senso ontologico di una esperienza dell’essere. In fondo, Gadamer mostra come noi possiamo dare nuovi significati alle nostre esperienze nella luce della storia perché siamo dentro la storia.  Come un giudice interpreta il nuovo caso nella luce della giurisprudenza, lo storico interpreta i fatti della storia nella luce della storia effettiva. Non è necessario conoscere le intenzioni originali, perché queste, trasmesse dalla storia effettiva, sono perdute per sempre. Basta costruire un testo od una azione nella forma di risposta a una domanda, o più precisamente come se fosse una risposta a una domanda perché la domanda originale non è più raggiungibile.[14]

Nonostante l’importanza e influenza della ermeneutica di Gadamer, sono molte le obiezioni. La più importante è del traduttore di Wahrheit und Methode Jean Grondin. In vari libri e articoli, questo canadese sottolinea che Gadamer non ha completamente esorcizzato il concetto della storia universale dalla nuova ermeneutica. Condizionati dalla storia effettiva, Grondin osserva, non possiamo criticarla. In questo modo, la nostra ragione storica coincide con la storia effettiva; lavorando in noi, fuori della nostra coscienza la storia effettiva assume così la stessa posizione della ragione assoluta di Hegel e della teleologia della storia universale degli storici tedeschi.[15] Per sottolineare il suo punto di vista, Grondin indica che Gadamer esplicitamente assomigliò la dialettica della storia effettiva con la evoluzione della conoscenza di Popper: come Popper, crede che le nostre interpretazioni possano avvicinarsi alla verità in un processo di «trial and error».[16]

Secondo il filosofo olandese Ankersmit, con questa posizione di Gadamer ricadde nella epistemologia che voleva abolire. Secondo Ankersmit, Gadamer cercò il modello della verità ermeneutica nell’esperienza estetica, ma alla fine non poté inserire la sua analisi dell’esperienza estetica nella esperienza ermeneutica perché non voleva abolire la stretta relazione tra esperienza estetica e Verità.[17] Commenta Ankersmit:

«And Truth is a most jealous god. As soon as it makes its entrance, no room will be left for another god. And then, sooner or later, science, epistemology, and transcendentalism will make their entrance, too»[18].

In questo contesto Ankersmit si riferisce al trascendentalismo della storia effettiva, già notata da Grondin, della regola ermeneutica consistente nel confrontare il tutto e la parte del testo, e della nozione della «Vorgriff der Volkommenheit», anzi il presupposto che il testo formi un tutto intelligibile.[19]

Per evitare questo trascendentalismo rinnovato, Ankersmit si rivolge all’estetica di Dewey, che in contrasto con Gadamer ruppe ogni relazione tra esperienza e Verità.[20] Noi invece ci rivolgiamo allo storicismo italiano, perché sin dall’inizio, cioè da Vico in poi, concepiva l’autonomia dell’arte in un modo più radicale dello storicismo tedesco, e più chiaro di Dewey.

 

Antoni: dall’arte alla comunicazione.

A prima vista, la diagnosi della crisi dello storicismo di Antoni somiglia molto a quella di Gadamer. Come il tedesco, Antoni cominciò da Vico, e criticò gli storici della Historische Schule.[21] Ma ci sono differenze importantissime tra Gadamer e Antoni.

Prima di tutto, Antoni, seguendo Croce, era molto più critico di Hegel di quanto non sia Gadamer. In particolare criticava la filosofia della storia di Hegel e la sua negazione dell’individuo,[22] entrambe basate sulla concezione dialettica della storia. Il nucleo di questa dialettica è l’opposizione, che funziona come motore del divenire. Ma per Croce e Antoni, l’opposizione nella dialettica hegeliana è in primo luogo trasgressione del principio logico dell’identità.[23] In contrasto con Gadamer dunque, Antoni non valutava la crisi dello storicismo come una crisi della ermeneutica, ma come una crisi della ragione, e più precisamente della ragione storica. Per Antoni, la cosiddetta crisi dello storicismo, iniziata da Hegel e continuata dagli storici, filosofi e sociologi tedeschi da Droysen, Dilthey e Weber fino allo storico olandese Huizinga fu principalmente un antistoricismo. [24]

Per superare questo antistoricismo, Antoni propone nel suo Commento a Croce di rivendicare la logica della distinzione contro quella dell’opposizione. In questo contesto presenta Italia come il paese della distinzione. Dalla origine la nazione italiana si è sempre interessate nei problemi della distinzione delle attività dello spirito, infatti, il contributo del genio italiano all’Europa sta proprio in questa cultura della distinzione.[25] Contro i re-sacerdoti del sacro romano impero, i comuni italiani tennero ferma la distinzione di sacro e profano. Questa distinzione fu la base della distinzione di fede e ragione, di moralità e pratica, tipica dell’Umanesimo, in contrasto con l’unità di politica, economia e etica religioso tipica invece della Riforma.[26]

Secondo Antoni, l’esponente che meglio chiarisce questa cultura fu Benedetto Croce, che «ha promosso la distinzione a compito e metodo della filosofia»[27]. La sua filosofia è teoria di distinte attività spirituali: l’arte, la filosofia, l’economia e politica, la morale. Su questa base Croce si oppose alla dialettica di Hegel spostando l’opposizione all’interno delle attività dello spirito (bene-male, vero-falso, utile-disutile, bene-male) restaurando il principio d’identità come base della ragione. Da questo punto di vista, l’arte non è una forma inferiore del pensiero che deve svilupparsi in filosofia, è attività distinta dalla filosofia che opera con la propria opposizione tra bello e brutto e che è immanente nell’attività degli uomini. Nello stesso modo il pensiero non s’identifica con la pratica, le forme dello spirito operano con distinzioni proprie sempre immanenti nelle attività umane. Da questo punto di vista non esiste un bello, vero, o buono fuori della storia, ma solo opere d’arte, pensieri, azioni.[28]

Basandosi su queste distinzioni, lo scopo dello storico non può porsi fuori della storia per allocare tutti i fatti del grande dramma della storia in una dialettica prestabilita; pensa e agisce dentro la storia per capire le opere della umanità.[29] Questo capire forma il nucleo della filosofia di Antoni, e si realizza nel giudizio storico.  Il soggetto del giudizio storico forma la esperienza estetica che lo spirito trova nelle opere che si presentano all’attenzione. È qui che lo spirito «gusta», «comprende» e «rende attuale» l’opera, entra in comunione con l’opera, la rivive, crea la sua identità. Contro Gentile, Antoni ribatte che l’intuizione non pone fuori di sé un «morto fatto» che l’Atto giudica, perché prima del giudizio la conoscenza estetica è immediato godimento che restaura e continua, rende viva, l’opera originaria.[30] In questo modo si risolve la distinzione tra soggetto e oggetto, tra res gestae e historia rerum gestarum nella storia dell’arte:

«L’immortalità dell’arte sta in questa sua attualità, malgrado il tempo. La storia quindi non è fuori dalla storiografia, ma è dentro ad essa, immediatamente, come soggetto del giudizio storico. Nel soggetto vi è identità tra res gestae e historia rerum gestarum o, per lo meno, l’identità è la mèta ideale della storiografia, e questa è appunto l’attualità e insieme la verità della storia»[31]

Con queste righe, Antoni identifica storia e storiografia nell’esperienza estetica.[32] Ma lo storico dell’arte non resta nell’immediato godimento: deve valutare le opere; questa è la funzione del predicato del giudizio che applica i concetti estetici all’esperienza dell’opera.[33]

Con questa teoria dell’applicazione del concetto, Antoni sembra avvicinarsi alla dottrina dell’applicazione delle legge di Gadamer: visto che entrambi sottolineano l’importanza del concetto nel giudizio. La grande differenza tra Gadamer e Antoni va colta nella diversa posizione del soggetto del giudizio. Gadamer posiziona l’interpretazione dell’arte nella storia effettiva, Antoni nell’identità di esperienze estetiche, la cui possibilità è evidente:

«A chi nega siffatta identità o anche soltanto la mette in dubbio, non c’è che da domandare se effettivamente non sia capace di sentire la poesia di Omero o la musica di Beethoven».[34]

Un passo di grande importanza, perché in contrasto con Gadamer che ha sempre difeso che le differenze tra passato e presente sono incolmabili, Antoni sottolinea che comunicazione tra passato e presente è possibile; è importante notare la comunicazione non si basa sul pensiero, come gli attualisti e il giovane Collingwood, ma sull’esperienza estetica: passato e presente possono capirsi perché possono condividere una esperienza estetica.[35] Con ciò Antoni critica anche la dottrina della mutua impenetrabilità delle civiltà, le pretese diversità logiche tra popoli primitivi e civili. L’esperienza estetica rende possibile la comunicazione tra diversi popoli in ogni tempo e spazio possibile.

In contrasto con Croce, Antoni non ritiene necessario pensare ad uno Spirito come un universale trascendentale, a priori in quanto categoria.[36] Lo spirito è soggetto tra soggetti, il soggetto è sempre l’individuale anima umana; la storia, per quanto sembri trascendere le iniziative, progetti e fini degli individui, è sempre opera esclusiva degli uomini.[37] Su questo punto, e in un modo molto radicale Antoni dà un ultimo e drammatico saluto al Weltgeist:

«L’idea del Weltgeist non è che la proiezione mitica della storia stessa, un duplicato metafisico, che serva a dare alla storia un significato ottimistico, a giustificare, con la presunta astuzia della superiore Ragione, le sciagure, le catastrofi, le stragi, che, in realtà, sono, come tutto, opera dell’uomo».[38]

 

Nord e Sud!

Con queste righe, le ultime del suo Commento a Croce, Antoni non solo lascia dietro di sé la nozione tedesca del Weltgeist, ma anche la filosofia dello spirito che formò la basi dello storicismo crociano. Mostrava che possiamo pensare l’unità e la continuità alla storia la storia senza nozioni trascendenti, o metastoriche. Rivendicando l’individuo Antoni dava un nuovo impulso allo storicismo italiano, cioè alla filosofia della distinzione.

Seguendo la argomentazione di Antoni, risulta superata la nozione della storia effettiva di Gadamer. Anche se Antoni, come Gadamer, è sempre consapevole che non possiamo mai uscire della storia, cioè che siamo sempre dentro la storia, che giudichiamo dal di dentro in quanto formati dalla storia, la tradizione delle interpretazioni non può condizionare i nostri giudizi. Il nucleo di questo radicale storicismo sta nella concezione antoniana dell’estetica. Nell’esperienza estetica di un’opera l’individuo crea un’identità con un altro individuo. Essendo una creazione estetica, questa non presuppone una identità come Weltgeist, uno spirito trascendentale, e nemmeno una lingua comune, perché l’identità si crea nell’esperienza estetica stessa. Un pianista italiano come Maurizio Pollini, per esempio, è uno con la musica di Beethoven nello stesso momento che la suona, non vi entra il Weltgeist o la storia delle interpretazioni; può aver studiato il Zeitgeist di Beethoven, la storia delle interpretazioni della sua musica, ma tutti questi studi non possono condizionare la sua esecuzione musicale. Si può dire che Beethoven e Pollini hanno una lingua in comune, ma anche questa lingua non condiziona l’esecuzione musicale, perché viene formata dall’esecuzione. La identità tra compositore e musicista è debole; non è una identità logica, matematica, c’è sempre il rischio di fraintendere come Collingwood notava nei suoi Principles of Art.[39] Ma debole che sia, l’identità estetica è abbastanza forte per rendere la comunicazione tra individui possibile.

Antoni mostra come l’estetica sia la chiave per il primo capire, cioè l’immediato godimento delle opere, che forma la base per il giudizio storico. In questo modo Antoni sottolinea la continuità tra esperienza estetica e giudizio storico e perciò anche la continuità tra estetica e metodo:

«Tutto lo sforzo dell’erudizione e della filologia è appunto diretto a cancellare gli ostacoli creati dal tempo, per ottenere l’attualità».[40]

 

Visto da questa prospettiva l’estetica di Antoni è l’immagine speculare della ermeneutica di Gadamer. Dove quest’ultimo comincia a rifiutare ogni identità tra autore e interprete: sottolineando le inevitabili differenze nella fusione degli orizzonti dovuta alla formazione della lingua. Antoni, seguendo la lunga tradizione italiana, comincia dalla possibilità dell’identità tra esperienze estetiche, che forma il fondamento del giudizio storico. Per Antoni, non c’è differenza tra verità e Verità; l’estetica e la storia sono sempre nella verità, cioè nella spiritualità della vita nel passato e nel presente.

 

È questa fondazione il punto in cui lo storicismo italiano, anche se trascurato dalla filosofia, può ancora contribuire alla discussione europea. Lo storicismo italiano ha sempre avuto il senso della distinzione senza ledere la possibilità di capire e giudicare: nel caso di oggi, possiamo ammettere le differenze tra il Nord e il Sud d’Europa, ma non per questo occorre senza smettere la comunicazione.

A questo scopo non vale riproporre illusori «valori europei», una mitica «Storia d’Europa» o un ormai vago «modo di vivere europeo»: lo storicismo italiano ha sempre riconosciuto le fondamentali differenze tra la storia dei paesi del Nord e del Sud d’Europa, e ha sempre inteso che tedeschi e olandesi vivono in un modo diverso dagli italiani e dagli spagnoli. Ma nello stesso tempo, lo storicismo italiano ha sempre saputo come andare oltre tutte queste differenze.

Supera le differenze non in primo luogo per il pensiero, o per la storia del pensiero, lascia perdere l’evocazione di un Weltgeist, sottolinea invece l’esperienza estetica: la comunicazione tra i popoli, non comincia con il pensiero e i concetti, è l’esperienza estetica che forma una lingua comune della cultura anche nella diversità dei linguaggi. Questa lingua non preesiste alla comunicazione, anzi viene creata nella comunicazione; non viene creata dai grandi istituti europei, come pure molti leaders europei pensano, ma tra gli individui, anzi tra i cittadini della Unione Europea.

Nel passato alcuni hanno criticato lo storicismo italiano come «pensiero debole» per la sua tendenza alla comprensione storica, ma ciò non implica che lo storicismo italiano debba avere una voce debole, e non l’ha mai avuta in passato. Al contrario: in questi tempi nei quali è difficile capirci in Europa, è necessario che alzi la voce, la voce d’Italia è indispensabile per capire «le cose lontane e non conosciute».

W EUROPA Peters Europa Nord e Sud Attualità di Carlo Antoni

[1] R. Peters, La costituzione europea tra passato e futuro in: G. Cantillo e A. Donise (ed.), Etica e politica, modelli a confronto, Guida, Napoli, 2011, pp. 181-195. 1° ed. Wolf 2014, n.12.

[2] In olandese e fiammingo ‘seuro’ viene associato con ‘zeuren’ che vuol dire ‘lamentare’

[3] «Bloomberg News», 15 January 2014, cit. in:  http://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_europee_del_2014#cite_note-9

[4] J. Huizinga, ‘Over een definitie van het begrip geschiedenis’ 1929 in: idem, De taak der cultuurgeschiedenis, Historische Uitgeverij, Groningen, 1995, p. 66.

[5] Recentemente, D. D. Roberts ha discusso lo storicismo italiano nel suo Historicism and Fascism in Modern Italy, Toronto, 2007. Per una critica: Rik Peters, «Italian Legacies» in: History and Theory, 49, (2010), pp. 115-129. F. C. Beiser The German Historicist Tradition, Oxford, 2011, menziona Croce soltanto due volte, e non discute i contributi degli italiani.

[6] H. G. Gadamer, Truth and Method, London, 1979, p. 19.

[7] Ivi, p. 173-174.

[8] Ivi, p. 175

[9] Ivi, p. 175. (sottolineatura mia)

[10] Ivi, p. 175.

[11] Ivi, p. 179.

[12] Ivi, 273-274.

[13] Ivi, 274-278, 289-305, 325-341. Sull’applicazione della legge come esperienza ermeneutica vedi Rik Peters, Constitutional Interpretation, a View from a Distance in: “History and Theory”, 50(4), (2010), pp. 117-135.

[14] In questo contesto Gadamer critica la logica di domanda e risposta di Collingwood, vedi Truth and Method p. 333-338. Cf. Massimo Iiritano, R.G. Collingwood e l’ermeneutica, in: C. Gily Reda e M.R. Persico (ed.), Arte e formazione, Collingwood, Croce, Gentile ed altri scritti. Atti dei Convegni Oscom 2006-2009, Napoli, 2010, pp. 92-100.

[15] J. Grondin, Hermeneutische Wahrheit? Zum Wahrheitsbegriff Hans-Georg Gadamers, Meisenheim, 1982, p. 56-57.

[16] J. Grondin, Einführung zu Gadamer, München, 2000, p. 130 e p. 187.

[17] F.R. Ankersmit, Sublime Historical Experience, Stanford, 2005, pp. 222-223.

[18] Ivi, 222.

[19] Ivi, 219-220.

[20] Ivi, 241-263.

[21] C. Antoni, L’historisme, Genève, 1963, pp. 77-83.

[22] C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, 1964, pp. 74-77.

[23] Ivi, pp. 39-42.

[24] C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1940; id., La lotta contro la ragione, Firenze, 1942; id., Storicismo e antistoricismo, Firenze, 1964.

[25] C. Antoni, Commento a Croce, Venezia, 1964, p. 18.

[26] Ivi, p. 15.

[27] Ivi, p. 21.

[28] Ivi, pp.  61-65.

[29] Ivi, p. 127.

[30] Ivi, p. 127.

[31] Ivi, p. 127.

[32] Questa dottrina sembra aver ispirato il narrativismo di Hayden White cfr. Clementina Gily Reda, La didattica della bellezza. Dallo specchio allo schermo, Soveria Manelli, 2014, pp. 54-55.

[33] Antoni, Commento a Croce, p. 188.

[34] Ivi, p. 87

[35] Sul ruolo dell’estetica nella filosofia della storia di Collingwood vedi: Rik Peters, History as Thought and Action. The Philosophies of Croce, Gentile, de Ruggiero and Collingwood, Exeter, 2013.

[36] Ivi, p. 245

[37] Ivi, p. 245.

[38] Ivi, p. 245.

[39] R.G. Collingwood, The Principles of Art, Oxford, 1938, pp. 250-251.

[40] C. Antoni, Commento a Croce, p. 127. Una dottrina simile si trova nel secondo capitolo dei Principles of History di Collingwood dove indica come questa esperienza estetica forma la basì del «re-enactment». Confrontato con la evidenza storica, l’esperienza estetica risponde alla domanda «what does it say?», «re-enactment» risponde alla domando «what does it mean?». Entrambi risposte sono logicamente necessarie per la metafisica, chi, intesa come scienza storica, risponde a la domanda «what does it presuppose?», cioè, alla domanda per la Verità. Cf. Rik Peters, History as Thought and Action, cit., pp. 391-393.

Carlo Antoni e la restaurazione del diritto di natura (1)

di C.Gily Reda
federicoIIunina
Università di Napoli – Centro Studi Collingwood

Attuale? Attualissimo ripensare la storia,

i problemi di ieri sono ancora i nostri.[1]

Che lo storicismo abbia parlato di restaurazione del diritto di natura – è cosa che può stupire chi sa qualcosa di filosofia e in specie della filosofia del 900, quando l’antitesi dell’illuminismo e dello storicismo era polemica aperta. Le chiacchiere della storia di Hegel, l’incisiva e caustica definizione degli ideali che non riescono a diventare istituzioni della storia, è stata a lungo influente su Marx, sui positivismi, sugli storicismi tutti.

Ma il Novecento, il secolo breve delle mille rivoluzioni, ha reso protagonista il male alive – le foto di Auschwitz non godono più solo della pur temibile mediazione di un Goya, l’orrore è documentato dal vivo. L’illuminismo è tornato a far valere le sue ragioni, a far discutere se davvero la lotta per il trionfo della ragione possa considerarsi finita. Ha realizzato tanto in una lotta dura, altroché chiacchiere: il giusnaturalismo è nato quando nella guerra si abolivano le legislazioni, l’affermazione dei diritti umani nasceva nell’Europa delle guerre di religione, quando la morte più terribile era nei racconti dei potenti e degli umili, senza che la condanna e l’obbrobrio potessero valere altro che come lamento giobico. I diritti di natura dell’uomo furono affermati nella metafora della storia primitiva, affermarono un ideale di civiltà; tanti intellettuali ne morirono, ebbero vita grama, se non furono esperti nel larvatus prodeo. I risultati sono evidenti anche se limitati, ma non si elimina il male dal mondo; il migliorismo chiede una costante lotta per i diritti, nessuna conquista è eterna senza i suoi partigiani.

La debolezza della ragione storicista, e poi diversamente della postmoderna, sottovaluta la potenza dell’ideale e rinuncia ad assumersi la responsabilità della storia futura: fu la polemica della breve stagione del neo-illuminismo del secondo dopoguerra italiano. Ad essa Antoni sembrò non partecipare attivamente; ma sul finire della sua vita, nel 1959, argomentò le sue riflessioni in un’opera dal titolo forte, che aveva annunciato al Le Monnier dieci anni prima – quindi in collegamento è diretto.

Era una voce stridente per tutti coloro che come lui si collocavano nella scia degli studiosi amici di Croce, allora osteggiati dalle vecchie accademie gentiliane nonché dalle emergenti, sempre più marxiste ed esterofile. Era il quadro della fine degli anni ’50, che può oggi sfuggire, e che va ricordato per apprezzare la portata polemica di quel titolo, La restaurazione del diritto di natura; oggi può risultare poco rivoluzionario, tramontato lo storicismo e la sua accusa di astrattezza ai diritti di natura, come d’altronde il marxismo e la sua polemica contro le sovrastrutture culturali, oggi che sono state pubblicate nuove carte dei diritti per affermare la solidità delle idee nella sostanza lavica delle carte.

Croce a proposito degli ideali illuministi aveva parlato chiaro: Marx lo aveva emendato dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità, gli ideali del ’89; quando De Ruggiero nel ’46, con negli occhi l’orrore del processo di Norimberga, propose in un libro, Il Ritorno alla Ragione, il sole dell’illuminismo opponendolo al lume portatile dello storicismo, Croce ne bocciò le tesi in modo secco. Carlo Antoni meditò le argomentazioni e ne trasse spunto per un’interpretazione magistrale di Croce,[2] che molto influì su Raffaello Franchini.[3] Lo storicismo non valuta il potere dell’astratto, l’hegelismo non dà ragione della storia dei vinti; eppure la forza dei miti e delle utopie è chiara nella storia, ha una potenza d’azione più forte del potere della cultura. Astratto resta l’ideale fallito delle tante utopie della storia, ma dimostra una forza potente e generosa che guarda al futuro possibile; non si chiude nel guscio della realtà storica, non sa solo se stesso come l’Atto Puro aristotelico. In questo senso, dirà Antoni, la storia è magistra vitae, non perché insegni le leggi della storia, ma perché insegna a comprendere i valori metastorici.

L’offesa alla ragione portata dal mito ferino della razza, dimostrava insieme la potenza dell’astratto nell’azione storica e la possibile caduta del mito in mani indegne; urgente meditare il valore, sostiene Antoni, ma non uscire dallo storicismo:

“Una mediazione, come sembra la vagheggiasse Guido de Ruggiero, tra storicismo e illuminismo, non è certamente possibile nei termini di un compromesso tra l’esprit de finesse e l’esprit de geometrie: è possibile soltanto un approfondimento della ‘verità’ che lo storicismo va incessantemente scoprendo nella sua visione dinamica della storia, che è poi la stessa fenomenologia della vita”.[4]

È interessante tornare su questa strada, dove molte sono le voci attuali, per chiarire come si può restare ben fermi nella storia presente e battersi per gli ideali, senza contraddizione.

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Una piccola divagazione: in realtà De Ruggiero poneva nel ’46 il problema della teoria dell’azione, che lo accompagnava dall’inizio. Lo storicismo non teorizza il “momento vitale del superamento della storia” nel nuovo fare “che porta al fuoco dell’azione un contenuto storico posseduto e unificato dalla coscienza dell’agente”,[5] che sa “fondere in un sol getto la ragione storica e la ragione metastorica”.[6] Le potenze del fare di Croce, le categorie che si attiverebbero nell’azione, non sono una teoria politica sufficiente – aveva scritto nel 1925, nella parte teorica della Storia del liberalismo europeo:[7] occorrono quei programmi, politiche, definizioni di partiti che Croce l’anno prima (Etica e Politica) aveva rifiutato.

De Ruggiero aveva proseguito negli anni ’30 parlando delle delle res agendae, dei compiti da assumere che fondano nella fede nelle idee della coscienza storica: il futuro non è solo un rischio, non richiede solo genialità ed estro, è un’idea maturata, una convinzione, un entusiasmo ragionevole che dà il coraggio di entrare in gioco e di non peccare per omissione. Il valore è la causa efficiente che fa la storia, lo spirito soggettivo che si oggettiva nella possibilità; è il come se kantiano della Critica del giudizio trasformato in causa finale, formale e materiale nell’impulso: “la forza dell’impulso è l’attrazione di una meta che acquista l’efficacia dell’impulso”, un uroboro magico, l’athanor che fonda in se stesso un’azione che non è né temerarietà né attivismo.

È “l’esigenza di un riconoscimento, di un rispetto, di una solidarietà reciproca, che eleva progressivamente la misura del valore e la norma ideale dell’azione”: è la “legge di coerenza a un mondo più alto”.[8] “La proiezione di un’esigenza soggettiva” che vuole collaborare ad un sistema assumendo una missione,[9] perseguita con la forza costruttiva del lavoro in una dinamica oggettiva.[10]

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Ma torniamo ad Antoni: la sua via è ripensare il rapporto di etica e politica; non va ripreso l’illuminismo, proposta una nuova ideologia, un mito, un fulgido ideale dotato di energheia ed enargheia, avrebbe detto Aristotele, di forza e insieme di immagine potente. Si rischierebbe di cadere nell’estetizzazione della politica e vagheggiare utopie.[11]

Sembra a questo punto evidente quanto sia attuale questa discussione di cinquant’anni fa.

Ripensare il rapporto di etica e politica vuol dire mettere il riflettore sull’anima stessa dell’azione: ha forse lo stesso metodo e categorie della verità? La risposta di Croce nella logica è chiara: sono distinte. Ma perché allora non prosegue nell’argomentazione dell’azione politica? L’anima stessa dell’azione, la categoria che diventa potenza del fare, se si comporta come la logica, non può accettare l’astratto, vuole il giudizio storico, il giudizio individuale – ed ecco il sofisma, il doppio significato del termine individuale – che pare far rientrare nella sua integrità la persona agente. Mentre giudizio individuale è la definizione del giudizio storico, e quindi della historia rerum gestarum; le res gestae spettano alla pratica; il giudizio individuale si dà su documenti e fatti accertati, non è la storia con i se del presente e del futuro. Ecco che si presenta la storia vivente e la sua azione, ma la sua diversità non è degna di teoria.

Come accade quindi che il giudizio storico acquisti carattere di comando e conduca alla catarsi pratica che cambia la storia? Esclusa la motivazione personale, il problema è la nascita della ricerca ma non la conclusione; esclusa l’historia magistra vitae di chi cerca le leggi della storia (marxisti e positivisti), resta il deus ex machina, l’etica: ed ecco l’ammirevole e tragica forza drammatica del ripensamento crociano del 1924, in risposta alle leggi liberticide promulgate da Mussolini dopo il delitto Matteotti: Croce diventa un oppositore del fascismo fino alla fine. Perché anche qualora l’economia – autonoma forma dello spirito – imponesse la decisione di negare la libertà dei cittadini, l’etica politica dell’uomo d’azione vi si oppone. Azione eroica ed affascinante, ma che turba l’equilibrio del sistema con la teoria etico-politica.

Ciò contraddice la rivoluzione crociana di aver per primo posto l’utile nella triade dei valori sommi, bello vero bene, la kalokagathia greca. Machiavelli e Marx insegnato a non sottovalutare le forze della storia, la teoria innova l’equilibrio della cultura, che scompare però se non si completa il ragionamento. Per Antoni occorre insistere sull’utile come valore autonomo e non trasvalutarlo, per uscire dalla crisi paralizzante dello storicismo che non trova la ragione per uscire dal passato. Perché il valore dell’utile non è l’etica, come conclude l’etico-politica: è l’utile stesso nel suo senso positivo. Altrimenti la demoniaca forza imbrigliata seguita ad essere ammaestrata con le avemarie.

Il preteso livellamento dei valori che così l’utile sembra avere, forse perché come vitalità – come dirà alla fine Croce – è un tutto-in-tutto, è incongruo con la sua stessa palese natura, l’economia dà ad ogni cosa addirittura un prezzo computabile – è di certo il campo in cui il tutto va bene è del tutto fuori campo, la polarizzazione positivo-negativo è forte quanto mai. Qui la lotta procede a pugni chiusi: non serve cassare il volto demoniaco inserendolo nel triangolo divino, occorre capire ed argomentare il valore della ragione utilitaria. Insomma, occorre portare nottole ad Atene: Antoni rimprovera a Croce di non distinguere il valore dell’utile, la ragione dell’astratto che sa piegare il mondo ai propri fini.

L’utile è un valore umano perché nel suo procedere ha chiari i suoi fini. Non è solo l’astuzia della ragione hegeliana o la Provedenza vichiana a dare forza a quelle scelte che, seguendo il noto esempio vichiano, portano dalla cura dei figli alla vita sociale: la civilizzazione consegue se si sceglie l’utile più alto di valore, comunitario, cui si collabora anche a costo dell’utile immediato. Oggi le neuroscienze (Varela) mostrano nelle modificazioni delle amebe l’evoluzione come risposta ad uno stimolo non in modo immediato ma meditato sull’utile futuro; ma anche senza eccedere l’orizzonte storico di Antoni, è chiaro che la costruzione di una società equilibrata è frutto di uno spirito utilitario che non mira alla soddisfazione di un bisogno. Valori deontologici e fini civili mirano all’utile comune dell’interrelazione sociale. Perciò, quando Croce parla di etico-politica non polarizza la categoria; non considera il valore positivo dell’utile; che invece merita studio perché è lo spazio dell’individuo, della sua convinzione personale: l’altro punto chiave della riflessione di Carlo Antoni, su cui torneremo.

L’uomo si confronta con le forze storiche nella dinamica della storia vivente, o, come si dice oggi, della situazione delimitata da un campo di attenzione. Saper capire nella loro complessità le forze che agiscono nel campo è la consistenza di una visione del mondo: ma la chiarezza viene dal limite dello spazio di attenzione, che esclude i distrattori e lascia in campo l’essenziale. L’individuo in situazione è protagonista della sua visione del mondo, da cui progetta i suoi fini. Non è l’atomismo criticato da Hegel in chi disconosce l’eticità istituzionale; agire con proprio senso nella storia è cogliere nel presente possibilità metastoriche, che sono sì oltre l’esistente, ma non sono fuori della storia futura.

L’analisi storica di istituzioni, eventi e leggi consente la valutazione della migliore possibilità, che grazie all’analisi si trasforma da ideale a scelta politica, non troppo lontana, non troppo vicina, ben situata. In questo senso la storia è magistra vitae, perché rettifica la potenza del fare in una interpretazione storica che, dice Antoni, è il valore autonomo della politica, che non è etico perché non mira alla universale coscienza coerente. Purtroppo, da Platone in poi, s’è sempre dimostrata l’intraducibilità dei valori etici nei politici – la rivoluzione dei valori crociana se giustamente perseguita consente di scorgere un’altra via.

In questa direzione, “il diritto di natura, il momento in cui l’ideale morale opera sulla realtà politica, sociale, giuridica” si trasforma in storicismo e afferma i suoi principi non più nella metafora della natura madre primigenia, ma nell’àncora della storia che ha per fine il valore positivo dell’utile. Parlare di religione della libertà (Croce) o della storia (Troeltsch) è di nuovo deviare: Troeltsch ad esempio restituisce peso ai diritti di natura, ma nel senso “adottato dalla Patristica latina e quindi dalla Chiesa romana in quanto rappresentava la mediazione tra l’etica cristiana ed il mondo sociale e politico. Ritengo che questa osservazione del Troeltsch debba essere estesa così da diventare definizione di un universale momento categoriale”.

Il dover essere non è solo religione e morale, vive anche nelle scienze e nell’arte; in politica è l’asse che costruisce il paragone ellittico di Marx, oggetto della critica di Croce. Perché Croce critica Marx solo in parte, ne accetta il serio canone di interpretazione storiografica che restituisce importanza alla realtà economica della storia; è invece severo con la sua legge storica che vede l’avvento della società oltre le classi, perché si basa, dice, su di un paragone ellittico, il confronto con una realtà inesistente, che dà le leggi del mutamento. Tutt’altro che scientifica: non si può però negare che l’ideologia, come ogni utopia, dimostri valore superiore nell’azione. Come una parabola, fornisce un esempio che ognuno può argomentare da sé colorandolo di migliori riflessi: il mito è più potente fattore motivante che la storia conosca, è il successo della comunicazione politica. Il suo stringato ed efficace prospetto chiarisce l’orizzonte della possibilità; l’astrattezza gli risparmia le contestazioni. Ma l’ideologia marxiana non è un mito religioso o storico, non è solo una narrazione, perché ha capito il valore dell’utile: la sua bandiera è l’utile più alto, la società della vita eguale, del lavoro gioioso. Si paragoni al Paradiso Perduto o alla Città del Sole – luminosissimi esempi – s’intende la differenza – al senza-luogo etico universalistico s’è sostituito un mito interattivo in cui domina l’operosità dell’uomo solare. Un paragone ellittico, forse, ma non celeste e non trascendente.

Quando Croce ridusse il marxismo a canone di interpretazione storica aveva inteso superare la lettura positivistica di Engels che abbassava l’economia all’utile, ma anche il liberalismo del benessere di Stuart Mill: farne una categoria era lo spunto per approfondire la sua dialettica.

Invece fondare l’ottica della vita politica nel giudizio storico e salvarlo con lo sfondo etico politico riporta il tutto alla vita dello Spirito: proseguire il ragionamento e trarne le conseguenze sarà capire che l’utile dell’individuo non è il personale benessere, non è l’economia con i conti che tornano a fine serata. L’utile è la realtà dell’individuo e della sua unità vivente, del suo lavoro costruttivo, del suo impegno civile: è solo questa l’ottica che consente di meditare la polarità di questa forma dello spirito.

 

E dunque: non proporre mitiche conciliazioni, ripensare lo storicismo, ora che è tramontato il tempo di opporre Historia a Raison si può riconoscere che “l’istanza illuministica è eterna”. La polemica della ragione astratta va verso il futuro per affermare nuove consistenze. Sacralizzare la storia passata è non sapere che l’azione è “sempre illuminata e guidata da un principio” che supera l’esistente:

“destino e privilegio degli uomini è questa obbedienza ad un principio razionale, che l’uomo è costretto a cercare e scoprire in sé”: da un lato “conosce, interpreta e giudica la storia e la situazione presente; dall’altro è il principio stesso che determina e ispira la sua azione morale. La verità, cioè, non è inerte teoria, ma è forza operante … dentro le coscienze soggettive”. “La coscienza non può alienarsi, non può abdicare la sua sovranità, non può rinunciare al suo diritto imprescrittibile”[12]

Non ci si può ridurre a quel che esiste, la coscienza soggettiva agisce nel modello dell’estetica, “l’individualità dell’opera d’arte, si risolve in un riconoscimento della profonda unità dello spirito umano e dell’assolutezza dei suoi valori”. Il nuovo storicismo afferma il giusnaturalismo che disegna il valore dell’utile, il riconoscimento di liberi individui che si subordinano ai fini dell’umanità. È un’ardua opera di liberazione che afferma l’eguaglianza fondamentale dell’uomo in quanto individualità: una eguaglianza fraterna basata sul rispetto.

Attuale? Attualissimo è ripensare la storia, i problemi di ieri sono ancora i nostri. Ora il motto posto all’inizio risulta molto più chiaro. È addirittura la storia del futuro, quella di cui parla Carlo Antoni.

W EUROPA Gily Carlo Antoni e la restaurazione del diritto di natura (1)

[1] 1° ed. Wolf 2014, 12.

[2] C. Antoni, Commento a Croce, Neri Pozza, Venezia 1955.

[3] R. Franchini, Il pensiero filosofico di Carlo Antoni, in L’oggetto della filosofia, Giannini, Napoli 1973.

[4] C. Antoni, La restaurazione del diritto di natura, Neri Pozza, Venezia1959, p. 51.

[5] G. De Ruggiero, Filosofi del 900, Laterza, Bari 1934, p. 255.

[6] G. De Ruggiero, Il Ritorno alla ragione, Laterza, Bari 1946, p. 23. Sul tema cfr. G. Sasso, Considerazioni sulla filosofia di G. de Ruggiero, in “De Homine” 1967, 21, pp. 23-70; A. Vasa, Ricerche sul razionalismo della prassi, Firenze 1957, p. 59. G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Milano 1972, p. 38.

[7] G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Laterza, Bari 1925.

[8] G. de Ruggiero, Azione e valore, in “Archivio di storia della cultura italiana”, 1942/4, pp. 105-116. R. Franchini, Interpretazioni da Bruno a Jaspers, Napoli 1975, pp. 58-9.

[9] G. de Ruggiero, Problemi di vita morale, Catania 1914

[10] G. de Ruggiero, Il concetto del lavoro nella sua genesi storica, in Il lavoro produttivo nella carta della scuola, Principato, Messina 1949, pp. 3-44.

[11] C. Antoni, La restaurazione del diritto di natura, op.cit., pp. 47-9.

[12] Ivi, pp. 21-44.