Abbandonata dal destino

di Vincenzo Curion

“…Capii che in quel momento dovevo fare una scelta: potevo arrendermi a quello che capitava e vivere una vita creandomi degli alibi, oppure potevo fare uno sforzo; potevo fare uno sforzo… potevo fare uno sforzo e rendere la mia vita migliore!” (Thora Birch, Elizabeth “Liz” Murray, Abbandonata dal destino)

La storia umana è costellata di episodi di riscatto eroico più di quanto si possa pensare. Anche se il mainstream culturale, con l’idea del successo “smart”, immediato e duraturo, sta facendoci dimenticare cosa sia l’impegno, il sacrificio e la sofferenza per la propria emancipazione sociale, sono molte le persone che hanno guadagnato o che si stanno guadagnando la propria affermazione al prezzo di duro lavoro, di scelte coraggiose e dolorose, prese anche in circostanze estreme. La pellicola Abbandonata dal destino (Homeless to Harvard: The Liz Murray Story) racconta proprio una storia di riscatto al prezzo di grosse e gravi scelte. Il film, che non è uscito nelle sale ma è stato distribuito attraverso le reti televisive, è un film del 2003, diretto da Peter Levin, con protagonista Thora Birch che racconta la storia della speaker statunitense Elizabeth “Liz” Murray. Fonte per il film è l’autobiografia di Liz Murray stessa, Breaking Night, pubblicato nel 2011.

La storia di Liz inizia nel Bronx, dove vive assieme alla sorella maggiore Lisa e ai loro genitori. Mamma e papà sono entrambi tossicodipendenti. Fin da bambine sono costrette a badare a sé stesse. La famiglia vive in estrema povertà. L’unica fonte di reddito è un assegno della previdenza sociale che mensilmente viene dato ai genitori. Peter Finnerty e Jean Murray, questi i loro nomi, lo spendono per comprarsi alcolici, eroina e cocaina, arrivando anche a vendere gli elettrodomestici ed il poco cibo che dovrebbe sostentare l’infelice famigliola.

La voce narrante del film, la stessa Liz che ricorda degli episodi salienti, racconta come i quattro arrivassero anche a soffrire la fame e di come lei bussasse alle porte dei vicini, anch’essi dipendenti dall’assegno della previdenza sociale, per avere qualcosa da mangiare. In casa inoltre, non c’erano vestiti per cambiarsi né di che lavarsi. Per questo motivo la protagonista, racconta di essere stata frequentemente angariata a scuola dai compagni e tenuta a distanza dai professori “perché puzzava”, dice crudamente. Frequentare scuola le risulta difficile, perché era il posto dove più soffriva l’emarginazione.

Non c’è di che mangiare, figurarsi i libri o i quaderni. Una vicina di casa, Eva, che è solita rovistare nella spazzatura e che ha preso a ben volere Liz, le ha dato da leggere un’enciclopedia buttata tra la cartastraccia. La ragazzina l’ha letta fin dove ha potuto, riuscendo per questo a fare un buon test a scuola. La stessa insegnante, che le offre dei vestiti usati, è meravigliata. Com’è possibile che una ragazzina tanto capace non frequenti più assiduamente?

Il motivo delle frequenti assenze è proprio fra le mura domestiche.  Jean, oltre che tossicodipendente è anche alcolista, schizofrenica e quasi del tutto cieca. La cecità è forse frutto di una malattia ereditaria, considerato che più tardi anche Lisa, la sorella di Liz, la svilupperà. La madre è frequentemente ricoverata in ospedale quando va in overdose o quando in strada gli spacciatori la pestano perché non può pagare le dosi che lei famelicamente chiede.

“Volevo veramente bene a mia madre. Lei era tossicodipendente, alcolista. Era diventata quasi cieca e godeva di un sussidio. Era schizofrenica però io non ho mai dimenticato che mi amava. Anche se si faceva. Continuamente, continuamente…, continuamente. Speravo che un giorno sarebbe guarita e avrebbe pensato a me… bella stupidaggine. Ero io che mi occupavo di lei. Era la mia bambina.”

Il padre, che più tardi nel corso del film rivelerà di essere ammalato di AIDS, sembra essere intelligente e colto ma incapace di occuparsi di sé stesso, delle figlie e della casa. Completamente disinteressato, viene raffigurato intento a trascorrere le giornate sul divano a intontirsi di televisione. Mentre Lisa, la sorella maggiore è rappresentata come più forte perché mostra di opporsi alla violenza con cui la madre pretende i soldi dalle figlie, Liz, inizialmente è più accondiscendente perché, ricorda Liz, “quando sei bambino i genitori sono i tuoi Dèi” che vanno accontentati in tutto”.

Crescendo, la protagonista si rende conto della loro inaffidabilità. Le sorelle, non riuscendo a badare a se stesse e a controllare il comportamento dei genitori, vengono segnalate ai servizi sociali i quali intervengono sommariamente sulla condizione della famiglia. Prima portano via la madre per curarla, dopodiché affidano Jean e Lisa al padre di Jean. Liz per un po’ rimane con Peter, dopodiché gli assistenti sociali la fanno rinchiudere in un istituto, dove Liz è maltrattata da tutte le compagne e abbandonata per numerosi giorni. Secondo l’assistente sociale che esamina il fascicolo di Liz, facendole notare le numerosissime assenze da scuola, è la disciplina che manca loro nella casa dove vivono.

Uscita dall’istituto, Liz va ad abitare insieme alla madre e alla sorella dal nonno materno, un uomo violento che picchiava e violentava le figlie proprie. Proprio per sottrarsi al proprio padre orco, Jean era scappata di casa quando aveva 15 anni. Purtroppo, le precarie condizioni di Jean riportano lei e le sue figlie proprio lì da dove era scappata.

Tuttavia sembra che, malgrado l’astio del nonno, la situazione delle due ragazze possa migliorare. “Speravo un giorno saremmo stati ancora insieme senza droga dimenticando tutto in un abbraccio”. Jean si è del resto disintossicata. Purtroppo la mamma ricomincia a bere. Liz litiga con il nonno e scappa di casa, unendosi ad altri scapestrati che ciondolano nella città di New York. “A soli 15 anni ero una senza tetto”. Costretta a vivere di elemosina e di espedienti.

Quando scopre che la madre è malata di AIDS, Liz si riavvicina alla donna per accudirla, sentendo che ella, pur drogandosi, ama molto le figlie e che ripete che “le cose miglioreranno”.

Nel 1996, Jean muore a causa dell’AIDS. Nella crudissima sequenza della sepoltura della donna, quando Liz, arriva a stendersi sulla bara, dove la sua amica Chris ha scritto correttamente il nome di Jean, si può leggere tutta la tristezza di una figlia che, continua ad amare la propria madre, nonostante lo sia stata solo biologicamente, e nonostante le privazioni e le violenze che la defunta le ha inferto a causa della droga e della sua schizofrenia. “La gente muore. Le cose si decompongono. Tutto ciò che è in apparenza così solido in realtà è privo di significato. Non ci resta altro che i gesti che facciamo… gesti nell’aria.” Per la giovane è una doccia gelata. Una presa di coscienza che nulla potrà mai restituirle quell’idea di casa che lei fino ad allora aveva disperatamente cercato.

Dopo la morte di Jean, che percepiva il sussidio con il quale sosteneva tutta la famiglia, padre e figlie non possono più pagare l’affitto di casa, a causa della tossicodipendenza dell’uomo, e perciò tutta la famiglia è sfrattata. Il padre è ricoverato in un ospizio per senzatetto, Lisa ospitata da un amico, Liz rimane per strada, nutrendosi di spazzatura e dormendo nei treni della metropolitana, o fuori dalla casa di amici.

Passano due anni, che Liz vive nello scoraggiamento, ma alla fine Liz decide di ritornare a scuola, confidando nelle parole della madre “le cose miglioreranno” e chiedendo ospitalità proprio a quella vicina Eva, da cui, da piccola, aveva ricevuto l’enciclopedia. “Non voglio essere un’idiota. Voglio andare a scuola”. Così, grazie a questa piccola scintilla di speranza, Liz cerca una scuola che possa accoglierla. La cosa non è semplice. Una chance non la si trova facilmente. Tuttavia la determinazione del suo discorso intenerisce un professore che l’accetta nonostante le ammissioni alla Humanities Prep in Manhattan siano esaurite. Trova anche un lavoro e riesce a completare il liceo in 2 anni anziché nei 4 che mancano, in questo modo si rimette al passo con i compagni di scuola. Anche Lisa nel frattempo, pur diventando cieca, riesce a ottenere un lavoro.

Diventata maggiorenne e, grazie ad un concorso del The New York Times, Liz vince una borsa di studio per l’Università di Harvard.  Nelle sequenze finali del film ella racconta a dei giornalisti la propria storia, dicendo che la sua vita di stenti l’ha spronata a non avere nessuna certezza nella vita, -Dovevo farcela per forza io non avevo scelta-, a dimenticare il passato -Li scegliamo noi i nostri ricordi. La realtà è nei nostri cuori-, a non abbattersi al vivere per strada e lottare per ottenere la dignità che la vita le ha tolto, a considerare che i genitori comunque amavano le figlie e che questo porta Liz a perdonarli.

Il tutto anche se, ribadisce Liz stessa prima di entrare all’Università, nulla toglie che “è così difficile crescere da soli”, abbandonati dalla famiglia e senza alcun aiuto.

Il film, di onesta seppur non pregevolissima fattura, lascia allo spettatore alcuni spunti fondamentali per una riflessione a tutto tondo sulla necessità di ciascuno a costruirsi il proprio futuro senza ricorrere ad alibi che possano acquietare, addirittura anestetizzare il proprio spirito. La vita della protagonista, tanto travagliata, trova un punto di svolta nel momento in cui ella comprende che solo le sue scelte e le sue forze potranno mutare il corso del suo destino di homeless. Nei due anni di vita in strada, la futura autrice e speaker motivazionale intuisce che quello che il destino le ha precluso per nascita, ella può tentare di conquistarlo con il proprio impegno e la propria determinazione. La piccolissima sequenza in cui Liz parla al professore che le chiede come mai stia studiando fino a tardi, dicendogli che vuole recuperare gli anni di scuola perduti, avrebbe potuto essere maggiormente dettagliata per meglio rappresentare l’indomita volontà di una persona che ha trovato il proprio proposito – l’emancipazione- e che fa di tutto per poterla perseguire, gestendo priorità e necessità, per far sì che quel che altri comunemente perseguono in quattro anni, ella lo possa perseguire in due nonostante la sua condizione di studentessa lavoratrice. Altrettanto interessante la figura del professore che le fa da mentore, permettendole di conoscere quel “mondo più sviluppato” in cui la sua studentessa chiede di attecchire.

Nel film, Liz abbraccia in tutto e per tutto l’impegno dello studio perché crede che, attraverso esso, possa esserci l’accesso a quel Mondo che non è stata la destinazione per i genitori. Non lo è stato per la madre Jean, scappata di casa da un padre violento. Non lo è stato per il padre che, brillante studente universitario in studi sociali, a un certo punto decide che si possono fare più soldi vendendo droghe ai suoi ricchi amici del college che non proseguendo negli studi. Alla fine degli anni ’70, l’uomo diventa così uno spacciatore di successo, una decisione che gli rovina la vita. Diventa sempre più dipendente dalle droghe, al punto che sembra non curarsi di nient’altro, e poco prima della nascita di Liz, viene arrestato per aver venduto droghe e condannato a tre anni di prigione. Ciò nonostante nel film, Liz, ha per il genitore parole di grande amore. “Tu”, dice la diciassettenne senza tetto, “eri l’unico che parlasse di cose che non fossero droga e sesso”.

Nella vita reale, Peter, prossimo a morire d’AIDS nel 2006, scriverà un biglietto in cui ammetterà che la figlia ha messo in salvo quei sogni che lui ha abbandonato anni e anni addietro, e la ringrazierà per aver fortemente sentito il sentimento della famiglia malgrado tutto.

Il film si conclude con Liz che segue le lezioni ad Harvard. La scrittrice si manterrà tenendo conferenze in giro per l’America spiegando come la sua vita “non poteva essere il risultato di un singolo episodio ma sarebbe stata determinata, come lo era sempre stato, dalla volontà di progredire un passo alla volta, un piede davanti all’altro, andando avanti”.  Questo è forse il messaggio più importante che resta di tutto il film. Indipendentemente dal punto di partenza, dalla posizione in cui ci colloca la nostra nascita, ognuno può alzare i propri standard, fissare un proposito, operare concretamente e alacremente per raggiungere un traguardo, assumendosi le responsabilità, dunque meriti e demeriti, di ogni singolo passo. Liz l’ha fatto. Chi sarà il prossimo o la prossima che si assumerà la responsabilità del proprio riscatto?

Bibliografia e sitografia

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