La pedagogia e l’universo digitale (1)

di Franco Blezza
Università G.D’Annunzio Chieti

Marco Nereo Rotelli
Marco Nereo Rotelli
Presentazione: discorso complessivo e continuità pedagogica

I nostri contributi a questa rivista scientifica si sono incentrati in maggioranza sui problemi delle professioni di cultura pedagogica, dal Pedagogista come professione sociale alle professioni della scuola, nell’ottica costante di offrire un contributo alla società e alla cultura. Ne sarà emersa chiara la matrice pedagogica generale e sociale che ci siamo dati fin dal principio e alla quale rimaniamo fedeli.

Lo vedremo ancor meglio parlando di un argomento apparentemente più tecnico e strumentale. In questo contributo ci occuperemo del digitale, nel senso elettronico ed informatico del termine, cioè per elaborazione numerica anziché per analogia.

Questo contributo si dividerà in due parti, in quanto è la risultanza dell’integrazione tra due temi distinti nei quali articolare il discorso del merito. Un tale discorso, in effetti, è sconfinato: esso richiede di trattare innanzitutto dei fondamenti, delle questioni complessive, e della didattica nel senso più generale del termine, cioè della riflessione sull’insegnamento, a scuola ed in altre sedi come vedremo; e poi di entrare nel merito delle prerogative peculiari che una didattica e un’educazione acquisiscono in seguito all’implementazione di strumenti informatici e telematici digitalizzati quali sono quelli ormai a disposizione e noti al grande pubblico, cioè del nuovo modo di insegnare e di apprendere che consegue a quella vera e propria rivoluzione che questi strumenti elettronici hanno portato nella nostra vita, impiegando il termine “rivoluzione” nello stesso senso e propriamente come lo si impiega con riferimento alle rivoluzioni industriali occorse dalla fine del Settecento in poi.

Non potremmo comunque essere esaustivi, ma questa scelta unitaria e integrata ci consente un discorso più organico. E prima di tutto, per l’esperienza di chi vi parla, proprio una impostazione siffatta del discorso previene la tentazione di perdersi in particolari tecnici indubbiamente interessanti ma di secondaria importanza, per fissare invece l’attenzione su ciò che di sostanziale è cambiato e di cui dobbiamo prendere atto proprio perché le grandi opportunità che ci offre questo complesso di innovazioni tecniche abbiano una destinazione congrua in senso umano, pedagogico, sociale, culturale: in sostanza, che l’uomo come singola persona e come umanità, come genere umano, abbia a disposizione tutto questo come suo proprio apparato strumentale, è sempre e comunque si prevenga l’eventualità che l’uomo divenga comunque strumento, quale che sia il fine e chiunque ne possegga il controllo.

Digitale e analogico

“Digitale” significa “numerico”: si tratta di una italianizzazione dall’inglese americano e scientifico, un po’ bruttina, del termine Dugit, una delle tante.

Il concetto base è relativamente semplice: qualunque trattamento di dati, anche non numerici in origine come testi scritti, immagini fisse, suoni, suoni modulati ad esempio sotto forma di voce o di musica o di documento storico o personale, immagini in movimento come i filmati e le stesse trasmissioni televisive, tra loro combinati, comporta che questi dati vengano tradotti in lunghissime sequenze di numeri tra di loro opportunamente coordinate, il che rende il trattamento in sé piuttosto semplice, alla base aritmetico, e poi che queste sequenze vengano ritradotte nel medium o nei media di partenza. Non si dimentichi il Computer, cioè il calcolatore elettronico, è uno strumento potente quanto stupido: stupido nella sostanza come è rimasto nei decenni, capace solo di fare uno più uno, e che tratta i numeri non come li conosciamo noi cioè in base dieci, scritti in sequenza delle 10 cifre dallo zero al nove, bensì in base due, come largamente noto, cioè come sequenze molto più lunghe delle sole cifre zero ed uno, in quanto questo “mulo da soma” autentico conosce solo questa dualità, nella forma acceso-spento, c’è corrente – non c’è, si-no, appunto uno-zero.

Negli anni ’60, quando lo scrivente era ancora studente del glorioso ed ora bi-centenario Ginnasio Liceo Canova, era accesa la disputa tra due paradigmi alternativi e reciprocamente esclusivi per l’elaborazione elettronica dei dati. A quei tempi aveva una forza ancora notevole il paradigma analogico: senza perderci in tecnicismi da specialisti, qui basterà ricordare che si trattava di impiegare le enormi e diversificate risorse dell’elettronica mediante circuiti elettronici opportuni allestiti in modo che riproducessero qualunque tipo di fenomeno o di dato da elaborare, cioè appunto che vi fossero analoghi come funzionamento. I televisori in commercio stanno divenendo progressivamente digitali, ma per la gran parte quelli in uso sono ancora analogici, tanto è vero che se si vuole con essi vedere programmi digitali (sia terrestri che satellitari) occorre possedere uno strumento di traduzione dal digitale all’analogico, il modem, termine che è semplicemente l’abbreviazione di modulatore-demodulatore. I calcolatori in uso, sia quelli personali e domestici sia quelli delle massime dimensioni, sono invece tutti digitali da decenni come del resto il messaggio complessivo della rete, di Internet, del Web. Digitale è quasi tutta la musica fruita, e se si desidera un esempio della musica in forma analogica occorre un vecchio giradischi o meglio grammofono o fonografo, e un disco di vinile dove l’analogo del suono è ben visibile nella varietà dei solchi sui quali sfrega la puntina.

Ma se vogliamo un esempio molto semplice e comparativo basterà che ci poniamo il problema di misurare le dimensioni di una stanza come quella nella quale ora ci troviamo. La misurazione impiegata per millenni sarebbe stata analogica, consistente nel confrontarne i tre lati con un campione dell’unità di misura al tempo adottata: è un metodo di immediata comprensione e di facile attuabilità, quanto lento, macchinoso e fortemente impreciso. Oggi, come sa chiunque abbia visto all’opera un architetto, un ingegnere edile, un geometra, un operatore del settore, si impiegano degli strumenti elettronici digitali il cui funzionamento consiste nell’emettere un segnale radar da un estremo, e nel misurare il tempo che ci mette quel segnale a tornare dall’altro estremo: la velocità del segnale radar è la velocità della luce, per cui basta moltiplicare la velocità per il tempo e ovviamente dividere per due e si ottiene la distanza con enorme velocità e con elevata precisione, anche se la costruzione dell’apparecchio è indubbiamente molto più impegnativa e complicata di quanto non lo sia quella di un righello o di un metro (a nastro, a bacchette od in qualsiasi altra forma) che venivano usati fino a tempi non lontani ed ancora si usano. Oggi possiamo quindi lavorare sfruttando con metodologia digitale un principio e un meccanismo in fondo semplice a comprendersi, anche se non altrettanto a realizzarsi, e ancor più semplice ad impiegarsi, in modo più comodo, più veloce, meno laborioso ed enormemente più preciso.

In quegli anni, non molto lontani cronologicamente ma lontanissimi dal punto di vista culturale e da quello tecnico, l’analogico era fortemente studiato e oggetto di potenti investimenti, anche perché esso consentiva di sortire dei risultati efficaci e paganti in modo concettualmente semplice e immediato, anche se leggibile solamente dagli esperti. Il paradigma digitale era ancora perlopiù visto come una sorta di stravaganza, immaginandosi facilmente quali enormi sequenze numeriche si sarebbero dovute impiegare e coordinare nonché elaborare per un segnale complesso come quello televisivo, delle immagini in movimento integrato con il sonoro modulato, e quali elevatissime capacità di archiviazione ciò avrebbe comportato.

Un’evoluzione a ritmi frenetici

A questo punto, basterà riflettere su quest’ultimo dato, considerare per chi abbia un minimo di dimestichezza con l’informatica domestica quale enorme crescita della capacità di memorizzazione si è avuta anche in un arco di tempo piuttosto limitato, un decennio o persino di meno: se instaurassimo un paragone con i mezzi di trasporto, e dicessimo che dopo un paio di anni il motorino è stato sostituito da una 500, e questa dopo un altro paio d’anni da una Ferrari, e questa in breve da un prototipo di Formula Uno, non ne renderemmo neppure lontanamente il senso quantitativo della crescita che la memorizzazione digitale ha avuto. Più difficile è dare la misura della capacità di elaborazione di questi dati (i MHz del processore da soli non dicono abbastanza), ma la differenza tra una immagine digitalizzata, in movimento e con il sonoro ad alta fedeltà, che ci arriva in centinaia di canali interattivi via satellite e i due o tre canali nazionali che qualche decennio fa ci pervenivano in bianco e nero di cattiva qualità e con un sonoro di scarsa fedeltà, rendono l’idea, seppur lontanamente. In realtà, il divario è considerevolmente maggiore, e non lo possiamo apprezzare perché vengono posti dei limiti ben precisi all’impiego del segnale digitalizzato per ragioni di copyright e simili: pensiamo solo al fatto che se vogliamo videoregistrare su DVD una trasmissione via satellite o anche via digitale terrestre dobbiamo prima trasformarla in analogica attraverso il modem, anche quello incorporato nel televisore di produzione recente, poi prelevarla tramite la presa scart sempre in forma analogica, e quindi ritrasformarla nuovamente digitale con il registratore DVD, così perdendo comprensibilmente di qualità e di flessibilità

Qui risulta esserci un nesso, sul quale sarebbe bene riflettere, tra l’enorme semplicità, la rozzezza, la scarsa provvedutezza del modo di lavorare e l’enorme evoluzione circa i volumi e le velocità per compiere questo lavoro immane in brevi lassi di tempo: chi non ha molto né molto di difficile su cui ragionare diventa rapidamente ed estremamente produttivo. Si tratta di un argomento piuttosto impegnativo sul quale riflettere, che probabilmente getterebbe qualche fascio di luce su quella zona buia che nonostante tutto seguita ad essere la cultura tecnica, o meglio ancora la tecnica come cultura, il sapere di e sulla tecnica (che si chiamerebbe, in senso proprio, “tecnologia”), nella nostra scuola come nel nostro Paese.

Quanto è rimasto analogico dovrà essere per la gran parte letteralmente buttato (o rottamato…) e sostituito da uno strumento digitale corrispondente. Se si è seguitato a lungo a vendere televisori analogici, e se (ad esempio) ancora per qualche mese si vendono termometri clinici analogici al mercurio, è stato ed è solo per ragioni commerciali, e su questo dobbiamo avere chiare le idee: i corrispondenti digitali sono disponibili,e sono competitivi, da anni.

Uno spettro da esorcizzare, uno guardo alle professioni

Abbiamo accennato alla dimensione umana della questione: prima infatti di entrare nel vivo della digitalizzazione dal punto di vista pedagogico dobbiamo liberarci da uno spettro incombente, uno spettro metaforico, ma la liberazione dal quale sarà anch’essa passibile di metafora per la facilità, assolutamente paragonabile a quella del ricorso ad una treccia di aglio nei confronti dei vampiri.
Lo spettro è facilmente esemplificabile: si dice che una simile tecnologia, che invade tutti i campi nei quali l’uomo si impegna, tra quelli di lavoro ad alta cultura a quelli domestici relazionali e ludici, finisce per essere disumana, per ridurre l’uomo a macchina. La risposta costringerebbe ad indagare sulla cultura che vi è alle spalle di chi agita questo spettro, e nuovamente ad un riferimento alle carenze di cultura tecnica in Italia.

Prendiamo un buon esempio dalla medicina e dalla sua evoluzione. Fino a non molti anni fa, le analisi cliniche avevano una imprecisione altissima, e nuovamente il termometro a mercurio ne può dare una idea molto pallida, Invece, un secolo fa non c’erano nemmeno per la gran parte le analisi cliniche, e il medico che doveva prendere in esame lo stato di salute del paziente dall’urina doveva guardarla, annusarla, assaggiarla, ed è chiaro che aveva un rapporto più diretto con l’oggetto di studio; la visita del paziente si poteva svolgere solo a contatto, e questo è evidente. Ora, non verrà certo in mente a nessuno di azzardare che sia meno umano se adesso di analisi di laboratorio dell’urina come del sangue o di altri reperti biologici sono indirette ed enormemente più precise, dettagliate, discriminanti, di lettura immediata anche al profano, con più variabili in gioco.

Vale l’analogo per le possibilità di distinguere sempre più precisamente le parti interne non immediatamente e direttamente visibili, e senza alcun contatto con il medico, dalle radiografie alle ecografie, dalla risonanza magnetica cui non si aggiunge più l’aggettivo corretto “nucleare” per malinteso rispetto del paziente alla tomografia con emissione di positroni, anche questa chiamata con la sigla PET perché in una carenza di cultura tecnica certe parole possono spaventare.

Al contrario, è di tutta evidenza che questa medicina è molto più umana, in quanto il possesso questi dati consente diagnosi e terapie più precise ed efficaci di quanto non fosse consentito dal rapporto diretto tra il paziente e il medico: non dimentichiamoci mai che tutti questi dati, dalle analisi alle immagini, non possono in nessun caso fare a meno dell’uomo medico come mediatore tra la realtà singolare, irripetibile e con la propria variabilità dell’uomo-paziente e la diagnosi e la terapia che seguono schemi astratti e sintetici come nel caso della malattia.

Il medico non cura malattie ma malati, e questo è valido oggi come lo era trenta o cento e più anni fa; ma il medico non sarebbe un professionista se non conoscesse le malattie e come si curano.

Altrettanto vale per qualunque professione: il professionista è l’uomo che media tra i casi umani particolari che sono di sua competenza e la cultura di cui egli è rappresentante ed esercente. Questa è una visione assolutamente umana degli saperi anche scientifici, anche tecnici, ma per esempio anche giuridici o sociali, in quanto introduce la necessità dell’uomo come condizione di conoscenza e di praticabilità cioè il principio antropologico.

Riflettere sulla cultura tecnica e la sua annichilazione nella scuola

Aver annichilito la cultura tecnica nella nostra scuola dell’istruzione obbligatoria in questi ultimi decenni ha avuto delle ragioni anche comprensibili, sulle quali potremo intrattenerci in una prossima occasione. Ciò non toglie che gli effetti siano stati letteralmente catastrofici sulla società intera: non c’è verso di porre seriamente e rigorosamente nessun problema a base tecnica o scientifica, dall’inquinamento alle fonti di energia, dal buco nell’ozono all’effetto serra, dai trasporti al consumo del territorio, appunto della tecnologia in medicina e nell’insegnamento, e l’elenco sarebbe purtroppo lunghissimo, mentre allignano formulazioni ed escogitazioni consolatorie e altisonanti, retoricamente efficaci, quanto false ed ingannevoli e parimenti tecnicamente o praticamente inefficaci.

In questo senso, proprio il digitale fornisce un esempio particolarmente emblematico, uno stimolo di grande fertilità per una riflessione più complessiva. Ma non dedichiamo a questo aspetto del problema, per quanto importantissimo, righe ulteriori, e torniamo senz’altro allo specifico.

Non esiste né può esistere un computer che formuli le diagnosi, o per esempio che esprima sentenze nel campo giudiziario, o che educhi o che valuti gli alunni e gli educanti, e via esemplificando per linee concettualmente analoghe, in quanto ci deve sempre essere il fattore umano in una posizione determinante e, consideriamo bene il termine, nella visione di tale preziosa strumentalità.

È chiaro che si può formulare e paventare un analogo avviso di pericolo per l’informatica digitalizzata, cioè a proposito di ciascun computer singolo, e per la telematica digitalizzata cioè per il collegamento di ciascun computer con tutto il mondo, ma sarebbe una formulazione altrettanto ingannevole e foriera di rischi molto seri.

GF Blezza La pedagogia e l’universo digitale (1)