L’apartheid climatico: gli ‘ultimi’ sono i ‘primi’ a pagare gli effetto dei cambiamenti climatici. Ambiente first!

di Anna Savarese, Architetto di Legambiente Campania

A fronte di una temperatura media di 27° registrata a fine giugno negli ultimi venti anni, nei giorni scorsi ci siamo trovati a sopportare in quasi tutta Europa picchi anche di 40°, causati dall’ anticiclone del Nordafrica che ha prodotto ondate di fuoco che dall’Africa si sono proiettate nel nostro continente.

Ogni nazione ha dovuto prendere i provvedimenti del caso. La Francia, memore delle 15 mila persone morte nel 2003 – seppure nel mese di agosto e non di giugno – ha adottato provvedimenti drastici, addirittura procrastinando gli esami di maturità e informando costantemente i cittadini su tutti i mezzi di comunicazione e con pannelli per strada e nelle metro. In Italia il Ministero della Salute pubblica ogni giorno sul suo sito il “Bollettino sulle ondate di calore”, ha preannunziato che le temperature massime di fine giugno sarebbero state di 35° con picchi di 40° nelle città designate con bollino rosso.

Fortunatamente, come previsto, negli ultimi giorni del mese le temperature sono calate, ma il trend estivo rimarrà comunque ad alto rischio di aumenti. E purtroppo non ci si gioverà nemmeno di escursioni termiche tra il giorno e la notte perché le temperature di manterranno alte anche di notte, come fanno sapere i tecnici della Protezione Civile e dell’Istituto di Biometeorologia del CNR. La gravità dei cambiamenti climatici in atto è dimostrata anche dal fatto che pochi giorni prima dell’ondata di calore le aree del centro-nord d’Italia sono state oggetto di devastanti nubifragi e a maggio abbiamo registrato temperature autunnali al di sotto di almeno 7° dalle medie del periodo.

Come ha spiegato Carlo Cacciamani, responsabile del Centro funzionale centrale della Protezione Civile, per effetto del riscaldamento globale, oggi la circolazione dell’atmosfera è definitivamente cambiata: “Le correnti che prima erano orizzontali ora sono diventate verticali. Eravamo abituati all’anticiclone delle Azzorre che da ovest si estendeva verso est e ci copriva con le sue estati normali, a 30 gradi”. Oggi “i movimenti orizzontali avvengono grosso modo alla stessa latitudine. Non portano dunque con sé grossi sbalzi. Quelli verticali sono assai più instabili”. L’instabilità del clima si produce con il susseguirsi di lingue calde dall’Africa che ci arroventano e irruzioni dall’artico che portano cattivo tempo, Spiegando che la jet stream, la gigantesca corrente d’aria che spazza l’emisfero Nord da Ovest a Est, oggi è meno lineare perché si è arricchita di anse e meandri che vanno su è giù, Cacciamani afferma: “Noi meteorologi diciamo che è ubriaca. Ma non è divertente. Il clima che cambia non vuol dire solo aumento della temperatura. È tutto il sistema che risulta sconvolto”.

Se questa è la situazione che viviamo noi europei, comunque sostenuti da sistemi di protezione civile e da corredi tecnologici e infrastrutture sociali che ci consentono in larga parte – anche se non sempre in maniera omogeneamente diffusa ed adeguata – di garantire una qualità della vita accettabile anche alle fasce deboli e disagiate della popolazione, cosa avviene nelle popolazioni del Nordafrica, ai profughi climatici che cercano disperatamente di attraversare il Mediterraneo per poter vivere?

Il 24 giugno, negli stessi giorni delle ondate di caldo, è stato presentato al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, un rapporto speciale sull’estrema povertà. Il relatore, l’australiano Philip Alston del gruppo di esperti delle Nazioni Unite, ha denunciato che il pianeta rischia un apartheid climatico: “Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà”. Il climate change “potrebbe condurre oltre 120 milioni di persone in più in povertà entro il 2030”. “Ancora oggi troppi Paesi stanno facendo passi miopi nella direzione sbagliata”, ha aggiunto, denunciando che le misure adottate dagli organismi delle Nazioni Unite sono inadeguate a salvarci dal “disastro imminente”. Nel suo rapporto si evidenzia che l’aumento delle temperature, porterà ad una potenziale carenza di cibo e quindi ad ulteriori conflitti e il tutto non potrà che colpire soprattutto gli strati poveri delle popolazioni. Inoltre, il costo dei cambiamenti climatici graverà almeno per il 75% sulle nazioni in via di sviluppo, nonostante la metà della popolazione mondiale generi solo il 10% delle emissioni di CO2.

Un ulteriore fattore di diseguaglianza discenderà, dunque, dai cambiamenti climatici e saranno le popolazioni meno responsabili a pagare i più alti costi, soprattutto in termini di vite umane, ma anche in termini di ulteriori sopraffazioni, violenze, il tutto sempre in spregio ai Diritti Umani.

Una delle voci più autorevoli che ha ripreso l’allarme accorato di Philip Alston è stato in Italia Antonello Pasini, climatologo dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del CNR, da tempio studioso delle ingiustizie climatiche, ben esposte anche nel libro “Effetto serra, Effetto guerra” , scritto con il diplomatico italiano Grammenos Mastrojeni, coordinatore dell’area ambiente della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri e collaboratore da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore. Pasini individua il nesso tra cambiamenti climatici e guerre, illustrando quanto esso sia fattore generante del conflitto siriano e aggravante di precedenti conflitti già esistenti in Nordafrica. Riprendendo da Alston l’esempio dell’uragano Sandy del 2012 che colpì i quartieri più poveri di New York mentre la sede della Gordman Sachs poté rimanere illuminata e attiva grazie ai propri generatori, Antonello Pasini sottolinea che il nesso clima e povertà è la vera frontiera da traguardare se si vuole evitare l’apartheid prodotto dalle ingiustizie climatiche.

Come ben sottolineato nel suo libro con la disamina dei rapporti tra clima e povertà (ma anche clima e terrorismo o clima e fanatismo), l’Italia è un avamposto in cui molto plasticamente si manifestano tali contraddizioni e dove appare chiaro che se non contribuiamo a risolvere il problema dei profughi ambientali con operazioni incentrate sulla pace, l’integrazione e la giustizia sociale, la conflittualità potrà espandersi esponenzialmente.

Tali tematiche sono tanto più attuali in queste ore in cui gran parte dell’opinione pubblica si à mobilitata a difesa di Carola Rackete, la capitana della Sea Wacht arrestata per aver eluso il divieto di sbarco a Lampedusa dopo 17 giorni in cui la nave è rimasta in balia del mare con il suo carico di 42 migranti. Al di là del dibattito sulle questioni legali o sul dovere umanitario prioritario di salvare le vite umane su ogni altro dovere di legge, è necessario ormai spingere le riflessioni sulla dinamica globale perché la risposta più ottusa della politica è quella di innescare una guerra tra poveri e i poveri sono sempre quelli a cui vengono negati diritti e opportunità, facendo pagare loro le distorsioni di un modello di sviluppo che si fonda sulle disuguaglianze e sul concetto di sfruttamento di ogni tipo id risorsa. Anche i cambiamenti climatici, problema centrale del terzo millennio, confermano che solo una governance veramente democratica e progressista potrà gestirne gli effetti, sapendo affrontarli non solo dal punto di vista scientifico e ambientale, ma soprattutto dal punto di vista socio-economico.

Un punto di forza ci è dato proprio dai grandi sforzi e dal coraggio di tanti scienziati e studiosi dei cambiamenti climatici che sono oggi le avanguardie nella lotta contro la miopia dei governi, dando supporto e strumenti all’opinione pubblica più avvertita.

Finché ci sarà una scienza libera e autonoma possiamo ben sperare in un mondo più libero e più giusto. Ma serve l’impegno e la responsabilità di tutti!

W Savarese Ambiente first!