Massimo Cacciari ad Armonie al Festival di Borgia

di Clementina Gily, Editoriale

A Roccelletta di Borgia al Parco Scolacium, si è inaugurata la mostra Armonie d’arte, che ha organizzato il 7 giugno all’Auditorium Comunale di Catanzaro, a conclusione del Festival del libro scolastico, l’incontro di Chiara Giordano e Massimo Iiritano con Massimo Cacciari, che ha parlato anche di Cassiodoro, filosofo di Scolacium, nel volume Il potere che frena pubblicato nel 2013 da Adelphi.

Oggetto principale della riflessione il concetto di Katechon: ciò che o colui che frena e trattiene, concetto presente nella Seconda lettera di S.Paolo ai Tessalonicesi (2, 6 -7), molte volte ripreso dai filosofi. L’Apostolo lo riprende dall’uso comune che indica la caduta apocalittica, la fine storica, non l’ultima del Regno del Giudizio: il mysterium iniquitatis che corrode l’armonia sociale. Cacciari lo affronta nel contesto storico detto, avendo come riferimenti storici l’Impero romano e la Chiesa nascente, regolando il passo sulla frase riportata dall’evangelista Marco, 12, 17 (date a Cesare quel che è di Cesare)  e sul tema delle due città di Agostino. Problematica ricorrente e mai intermessa nella teologia politica (Carl Schmitt) e oltre, per il suo carattere di esempio capitale, di autentico topos del pensare. Anima ad esempio la nota scena dostovskijana del Grande Inquisitore che finisce col far rinascere l’effige di Gesù come unica possibile alternativa alla fine spirituale rappresentata da chi difende un potere che sempre più perde la sua anima pur non insistendo ad oltranza nella violenza – una morte per inedia che finisce col dare uno spettacolo più orrido di una semplice sciabolata.

È il paragone con l’età presente che anima Cacciari alla sua ricerca su questo potere che frena e lo porta a definire la presente come l’età di Epimeteo, che si può descrivere come un potere ferreo ma debole nei modi, che riesce alla vittoria invece e dopo Prometeo, benché Epimeteo, colui che vede dopo, ne sia il fratello sciocco. La sua era vede una crisi permanente che la teologia politica interpreta come il tempo ultimo della distruzione promessa.

In una intervista a “L’Avvenire” Cacciari ha precisato la storia del passaggio del potere istituito dall’eroe Prometeo al prudente Epimeteo che ne diventa il governatore tecnico che trattiene il male soffocandolo, operazione di costrizione lenta e inesorabile che comporta di costruire spire che badano al futuro e cercano le tane dove sacrificare gli eroi in fasce. Ed ecco Il potere che frena. Il katechon, che nel tempo che sta tra l’Incarnazione e il Giudizio agisce nel senso dell’Apocalisse perché trattiene; ciò non fa nel senso della speranza, come il potere della Chiesa, che mantiene uno spazio per l’apparire dell’essere – vuole combattere come essa l’Anticristo, ma mancando del respiro aperto dell’infinito ne tiene in sé la contraddizione distruttiva.

La discussione sul katechon non resta fermo al concetto ma lo identifica nella storia, i Padri della Chiesa lo identificano con l’Impero Romano, dicono la differenza con il potere della Chiesa. A leggere da oggi le osservazioni lo si definirebbe quel potere pratico-amministrativo che appunto l’Impero Romano ebbe il pregio di creare nel nucleo della sua grande scoperta filosofica, il Mondo Giuridico, il sistema delle leggi – come diceva Omodeo. Epitemeo vuole proteggere il tempo della veglia intervenuta dopo la trasformazione, ma per realizzare il suo piano inibisce la speranza, la conversione, che richiede uno strappo. Facile leggere nella riflessione un pensiero che medita sul potere laico che ha tentato di configurare un consolidamento diverso, senza riuscire per non aver capito la lezione classica di questo topos: l’ambizione imperiale mina sempre il potere, se si riduce all’ordinaria amministrazione invece di reinventare, animarsi, dare spazio alla lotta costruttiva, e diventa impotente. L’Anticristo Placidus anche quando è se stesso, in quanto come prospero e fautore di prosperità, è ordinato e sostenuto nella sua attività che impedisce ogni rivoluzione – anche se essa sia solo benefica e feconda trasformazione; nella figura di Epitemeo gode una preparazione sotterranea che calma gli spiriti riconducendo il futuro nel presente. Brucia l’era del progetto e della battaglia che ha in grembo il nuovo uomo, la battaglia che è il proprio suo compito, la legge stessa della sua azione, anche quando si dedichi a fini modesti. Il Grande Inquisitore di Dostoevskij provoca il ritorno di Gesù: se l’Anticristo ha la meglio, solo Cristo può vincere – lo spirito di rivoluzione, detta laicamente.

Il secolo delle rivoluzioni, il 900, ha vissuto questa parola e questo ideale sempre evocando il concetto del 1789, Robespierre, la ghigliottina, e tutto quel che ne è derivato: cioè, lo ha ricordato come lo determinato Marx nemmeno cent’anni dopo dalla Grande Rivoluzione. Poi è venuta la calma del pensare, una scolastica che non ha saputo trasformarsi in scuola e rimeditare il tempo che invece correva via veloce, trasportato dalle rivoluzioni tecniche e tecnologiche. La rivoluzione perciò è diventata amministrazione e si è capovolta nel suo contrario, da Prometeo ad Epitemeo: gli intellettuali organici che molti già al tempo dubitavano potessero mai fare altro, il pensare chiede aria, volare si può solo nell’aria libera, come disse Kant parlando della famosa colomba che giudica l’aria una resistenza di cui farebbe a meno volentieri, visto che non sa nulla di fisica e si limita alla sua esperienza delle leggi fisiche.

Non è certo il caso di rinfocolare polemiche troppo vecchie per essere persino interessanti, ma occorre la memoria, perché è nell’interpretazione storica che abbiamo il quadro nelle sue misure e a volte l’idea di dove sia giusto cercare la differenza. La meditazione di questi e simili concetti va fatta a partire da dove si sono incatenati, cioè nella contrapposizione del marxismo allo sviluppo del pensiero liberale in liberaldemocrazia e liberalsocialismo negli anni della guerra e del dopoguerra.

Allora le forze storiche agirono sotto la spinta del secolo delle Rivoluzioni, quello definito da Hobsbaum Secolo Breve, dal 1914 al 1989 – che ha sviluppato nelle sue linee traccianti le premesse sino alla loro intima conclusione/fine nella caduta del Muro di Berlino. Subito si gridò da molte parti al liberalsocialismo, al fabianismo dei coniugi Webb, a cose che il ventennio totalitario europeo aveva forzato a bellamente dimenticare con la furia degli eventi guidata da una comunicazione aggressiva e inoculatoria – di cui avevano ben compreso la potenzialità mentre persino Rosselli pensava ad imitare Mazzini – di nuovo, un secolo indietro.

Da liberasocialista, so bene i difetti interni che ne hanno minato la base; una squadra che perde nonostante un apparato di vincenti non può incolpare il fato. Così è importante capire dove sia il problema per ben articolare la risposta, ripartendo dalla storia, come sempre si deve, di un problema antiquato come quel di allora, dei rapporti di giustizia e libertà, che oggi forse si possono traslitterare in solidarietà e intrapresa, che nel secondo dopoguerra si è fermato per costruire la nuova età di Epitemeo. L’apocalissi non genera speranza, cioè spirito di trasformazione, ma timore, cioè spirito di trattenimento e conservazione; la riflessione deve superare Epitemeo, ricordando ciò che lo genera, cioè l’immagine di Prometeo che finisce incatenato e col fegato mangiato da un’aquila… Ci sarà pure una ragione nei simboli, ma l’uomo consiste nel vincere la paura.

Meglio evocare un altro concetto di rivoluzione: qualche tempo fa su Wolf ho pubblicato un articolo sulla rivoluzione di Bruno e Campanella che è la rivoluzione celeste del divenire, l’evento del tutto naturale che genera dal presente il futuro. Appariva nel Rinascimento come la copernicana rivoluzione scritta nelle stelle del mondo in divenire che il pensiero aristotelico aveva bloccato. Perché rifarsi ancora e sempre ai modelli aristotelici che persistono nella teologia contrastando altre anime vive nella Chiesa che sa ricorrere a tante fonti diverse, più attente all’inquietudine, al modo come essa si interseca all’istituzione e l’anima dall’interno. Forse bisogna anche ricordare il frequente, anche se sempre elitario, paragone filosofico che ha più volte unito Aristotele ed Hegel, filosofi che chiudono invece di preparare, stabilizzano, soddisfacendo il bisogno di conservazione che anima l’uomo con la stessa forza dello spirito del cambiamento rivolto al meglio.

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