Ofelia

di Viviana Reda

J. E. Millais, Ofelia
J. E. Millais, Ofelia

Il grande giardino floreale circonda la reggia. Cunicoli e viottoli segreti si snodano attraverso le foglie e gli alberi da frutta, silenziosi, lungo il parco, indicando gli oscuri sentieri che conducono all’interno. I torrioni svettano alti e sulla cima enormi bandiere e celebri stendardi, consumati dal tempo, sono da monito a follie di cavalieri erranti. Le acque che zampillano da enormi fontane arabescate recano frescura e offrono riposo alle ombre.

A testimonio della vita che fu nel castello si erge alto un mausoleo ceruleo in onore di chi, dimenticato, un tempo visse e morì.

Egli è morto, ahi lasso, signora,

egli è morto, ahi lasso!”

Piangono queste mura, straziate da un oscuro delitto, piangono lacrime e sangue dell’empietà di chi fu, un giorno, re di Danimarca. Ma il silenzio risponde muto a chi ancora interroga e ricerca l’artefice di tanto dolore: il giovane e bello principe che un cuore aveva e in giro andava nei patii e nei porticati a cercare versi per la sua poesia. Ora il lusso è solo nella gramigna che pullula indisturbata nella solitudine dei cortili.

Ben meno lacunoso testimonio offre l’interno dell’immenso palazzo, fitto di corridoi e labirinti sotterranei e scale che si dipartono in ogni direzione, e terrazze, sopraelevate, e segrete, buie e inaccessibili, e interminabili scale a chiocciola le cui feritoie furon murate a non disturbarne il placido lutto. Vuoto è tutto d’intorno, e immoto all’apparenza solo talvolta fruscii che paiono gonne e sottane, e rumori silenti come fosser sospiri, e cigolii che ricordano passi.

Sembra…
Tutto,
come nel sogno,
un ricordo lontano,
sembra…
tutto:
vero.
La follia, la morte, il lutto.
Tutto.
Sembra.

Da lungi se si è attenti all’ascolto si sentono ancora le grida di chi, attonito del suo stesso dolore non volle o forse non riuscì a vivere senza cuore…

“E non ritornerà mai?

E non ritornerà mai?”

Le ombre parlano un mormorio rumoroso nel silenzio ed è accattivante vedere in esse forme, braccia, occhi che ricoprirono gli scheletri della storia. Come serpenti nella notte strisciano e delineano contorni altri…mura…troni…ragnatele.

Dipinti di celebri artisti coprono le tetre pareti scolorendo d’ora in ora, così gli arazzi e le pitture murali in cui attori d’altri teatri restano immobili nell’inattualità dell’atto, all’angosciosa visione della morte e del suo autore.

Ombre di fumo, che furon dolore di sangue rappreso addietro, il cui odore acre si perde, nei colori che, sgretolati, sbiadiscono in grottesche figure. Forme e colori, oscuri nella penombra, si confondono in un mare confuso di specchi. Solo ombre sopravvivono oggi, riflessi evanescenti di corpi trapassati. Ma ancora l’argento conserva vivo il ricordo, custodito come un segreto, conserva nel vetro macchiato dal tempo, immagini di vita e di morte, d’amore e follia. Come specchiandosi in un anfratto perduto nel tempo, guardando svanire la vita, la gioia, di uno e di tutti, come specchiandosi sulla cima dell’universo, cercando in fondo all’abisso un senso eterno dell’eterno lutto…

Una vertigine…l’ultima prima …del …volo, un salto leggero verso l’acqua che m’avrebbe portato per sempre altrove, immortale nell’immagine della mia stessa morte.

Svanì nello specchio l’infernale pretesa d’esistere, sbiadì nell’ombra d’un riflesso la mitezza d’un amore impossibile. E dopo la vita, non fui altro che ombra tra le ombre. Immagine di morte, lì nello specchio.

W Viviana Reda Ofelia