Umberto Eco

di Gily Reda, Editoriale

La biblioteca de Il nome della rosa
La biblioteca de Il nome della rosa

Un giorno di commozione questo: tutti ricordano Il nome della rosa, con lo splendido Sean Connery da Baskerville che sovrasta le parole di un magico romanzo, che per molti è stato l’ingresso nella celebrazione del Medio Evo, allora ritenuto ancora oscuro.

Ma Eco non lo considerava un punto d’arrivo, se subito iniziò a scrivere – la domenica, come diceva – Il Pendolo di Foucault (Bompiani, 1988) andando al punto capitale, l’incontro col diavolo. Allora lo recensii,[1] anche perché quasi in contemporanea lo stesso tema era protagonista dei Versetti Satanici di Ruschdie – dove però diavolo ed angelo erano in alta uniforme, l’uno bianco e biondo, l’altro con fetore, coda e corna.

I due bestsellers implicitamente criticano il mondo della scrittura breve con le loro oltre cinquecento pagine, che d’altronde occupa anche Tolkien, che molti ragazzi dicono di aver letto, mentre stentano a leggere un articolo di giornale.

Criticano inoltre il mondo degli anni ’65 – ’75, così felicemente floreali da ignorare il nuovo cupo volto del male, riemerso nel decennio 75-85. Arimane, Re delle cose, autor del mondo, arcana /malvagità che Leopardi divide con Zarathustra, si preparava al successo che oggi arride a tutte le presenze malefiche nelle serie TV. Era infatti, oltre che protagonista di capolavori, di tanti libri ed articoli sul Satan. A Torino, nella Piazza Statuto cara ai filosofi perché sede della celebre rivista di Augusto Guzzo, “Filosofia” (ricordava F. Barbano curando il libro Diavolo, diavoli, Torino e altrove, Bompiani 1988), nasceva invece un vero genere letterario rigoglioso, a proposito dei culti esoterici (A.M. Di Nola Il diavolo, Newton Compton, 1987).

Liberatore dal mondo beghino l’aveva cantato Carducci; ora il Diaballo, il Separator dei filosofi, libera invece dall’illusione ingenua dei Figli dei Fiori e medita la nuova vita quotidiana computerizzata: Eco lo incontra per chiedergli quale sia la definizione del linguaggio nel tempo dei files. Dopo aver analizzato il linguaggio nella semiologia/semantica, averlo cavalcato con scioltezza nel romanzo, si confronta quindi col punto capitale – la massa di parole. Nel Pendolo di Foucault si accumulano i files del lungo racconto dei solitari Cavalieri della cultura che vanno per lo stesso cammino attenti a non ascoltarsi, a stratificare informazioni. Sembra già cominciato il mondo del tweet, coi sedicenti cinguettanti che celano l’abbaiar dei cani sotto lo sberleffo.

Lunghe pagine composte da Bembo allacciano i fili sottili del file ‘Abulafia’ ai dati degli altri Cavalieri: dati su dati, accumulati in pagine di Eco senza chiave di volta: sette, affiliati, piani segreti, iniziati, congiure, vittime. Nel mezzo di tante parole (che somigliano non a diabolici piani segreti ma all’enciclopedia delle riunioni di condominio) il miserabile mistero si sposta a ogni momento; il verbalizzatore seguita a registrare e capisce sempre di meno. È scomparso Il Logos: lo dice chiaro Diotallevi, il secondo Cavaliere. L’essere leggero (non ancora liquido) è scherzo: ciò che non accumula polvere non ha spessore, la storia è diventata un effimero vivere decadente.

L’inutile sogno idealistico d’inizio ‘800, già denunciato dal nichilismo di fine ‘800, apre su una mediocrità quotidiana senza intelligenza – la Lettura, la Legge, sfugge all’uomo ed al suo linguaggio. Diotallevi, morente malato terminale, conclude: “Abbiamo peccato contro la Parola, quella che ha creato e mantiene in piedi il mondo (…) per manipolare le lettere del Libro ci vuole molta pietà, e non l’abbiamo avuta (…) La parola della Torah si rivela solo a colui che l’ama. E noi abbiamo cercato di parlare di libri senza amore e per irrisione (…allo stesso modo il cancro manipola e crea) cellule mai viste e senza senso, o con sensi contrari al senso giusto. Ci dev’essere un senso giusto, e dei sensi sbagliati, altrimenti si muore” (ivi, pp.445-7). Elencare analisi e notizie non ha dato morale alla favola. L’irrazionale male resta indomato, come già in Thomas Mann, non rivela quel che doveva, l’enigma della vita, diceva Faust. Ma Dante e tanti altri hanno avuto risposte: chiedevano con speranza, Eco accerchiato lo riconosce.

Cavallo brado era il linguaggio; non lo si poteva domare riponendolo in files. Il Logos dice l’intero, il mondo dell’uomo in tutte le sfumature perché ascolta ed esprime, la dolcezza e perdizione, l’inguaribile e maledetta pesantezza: indica la luce quando c’è la sgroppata e la caduta, l’evento della vita. Umberto Eco in due gialli ha mostrato due diverse volontà di affabulazione, prima il dominio dell’enigma delle passioni tra i libri, poi la ricerca per trovare il nome dell’enigma insolubile dell’eterno tentatore, che trasforma sempre il reale in Caso.

Eco ha sceneggiato l’incontro col diavolo, per darne il nome, in un wargame di possessioni e sette, a metà tra Far West e Palinsesti, Cartapecore e Grandi Vecchi nel gran volteggiare di cappe e croci. Ne risulta una teoria della cospirazione – CHI detiene il potere organizza il mondo come lo spirito di Laplace, abolisce il Caso dandogli forma – visto che a domanda giusta oggi (dice Popper) non è quella del perché e del chi ma del come: ecco, dai files viene fuori che il come è chiaro. È il Potere dell’affabulazione (oggi si dice story telling): cioè: “se inventando un Piano gli altri lo realizzano, il Piano è come se ci fosse, anzi ormai c’è” (p.490). E allora va detto che “Bembo così aveva creato il principio di realtà” (p.417). Bembo si è divinizzato, è autore di sé stesso nel Grand Jeu del Globe.

Intellettuali che non credono in nulla, muovono nel mondo vuoto di credenze. Ciò trasforma in scherzo l’interpretazione e l’azione conseguente. Pur di evitare il procedere discontinuo della storia con una fede, s’inventa una qualsiasi filosofia della storia. Il pendolo diventa l’organo di questa maledizione che individua l’Onfalo, l’Ombelico del mondo, il Luogo privilegiato del Cosmo ove avverrà l’incoronazione del Re del Mondo, se infine giungerà al luogo fatale: ciò indicano menhir, obelischi, statue dell’isola di Pasqua: e perché no, Statua della Libertà e Tour Eiffel. Eco ridacchia con gli ‘scopritori del marchingegno – che, però, si rivela VERO.

Perché comunque sono riusciti ad avere un segreto. Ed ecco che il mondo comincia a ruotare nel fumo d’una nebbia, sogno e meraviglia, e si conforma al VERO. Bembo cade, vittima sublime e sacrificale del suo stesso sogno. Casaubon, il terzo cavaliere, il sopravvissuto narrante che aveva trovato per esorcismo l’erba scacciadiavoli (pp.345-6): la donna, il figlio, il sapore di pesche / maddalene, la chiave del Regno (p.508) – non è stato trattenuto a lungo in questo “essere così vuoto e fragile” (p.493) e torna alla caduta libera, alla leggerezza del significato.

Al di là del vestito da Grand Guignol di Ruschdie, il Tentator loquace di Eco recupera l’immaginario collettivo in un fitto gioco di sadismi e satanicherie, con mille colori medievali, con tante tante parole per dirlo. Non c’è in questa lunga via la ricerca appassionata e acuta di Proust, Musil, Joyce, Woolf, di riscoprire il valore della parola.

Divertimenti nichilistici, scherzi della disperazione, delineano questa parola fine a se stessa che è una nuova Orgia, insensata ed impudica, spensierata e cattivante, che chiede bagni di sangue più ancora che di vino, per sentire ancora un po’ del dimenticato gusto della vita.

Scrivere tanto più che una ricerca è la bandiera del filosofo semiologo, che ha raggiunto la sua conclusione: la verità non si raggiunge con “il sogno della scienza, che di essere ve ne sia poco, concentrato e dicibile, E=mc2. Errore. Per salvarsi sin dall’inizio dell’eternità è necessario volere che ci sia un essere a vanvera. Come un serpente annodato da un marinaio alcoolizzato. Inestricabile. Inventare, forsennatamente inventare, senza badare ai nessi, da non riuscire più a fare un riassunto. Un semplice gioco a staffetta tra emblemi, ma che dica l’altro, senza sosta. Scomporre il mondo in una sarabanda di anagrammi a catena”(p.416).

Ma affabulare si può senza un senso? Dai files di Bembo deriva solo l’angoscia del leggere, una gran confusione per nulla – o meglio per niente. Perché il nulla è una cosa seria, dicono gli orientali, è il tutto da cui viene ogni cosa, il mistero fecondo, che però ovviamente non può essere rivelato da Satan, né dal Pendolo di un aut aut che non sa costruire. Andando sempre avanti per questa via non si trova che il mixage, come appunto accade nello story telling. I grandi narratori sanno esprimere l’unità, il loro vero, una sola parola racchiude il senso di un’opera filosofica, diceva qualcuno, è la chiave d’oro per capire. Quando Arimane, il nemico di Zarathustra, si asside potente nel suo odierno trono, rivela nel silenzio il suo nome, il vuoto del senso di mille parole.

Il nichilismo così si ripropone all’interno del linguaggio, nella perdita di senso della parola: non resta che offrire sacrifici a Mitra o a Baal. Marte più che Dioniso domina la nuova faccia del niente.

 

[1] Eco, Ruschdie e dintorni, in “Il Cristallo”, XXXII, 1990, 2, pp.59-66 – Umberto Eco mi inviò un libretto che pubblicava per gli amici. Qui ne riprendo il tema: ma il libro chiave per me, oltre ai filosofici, è La Misteriosa fiamma della regina Luana, in cui Eco riflette da par suo sull’immagine.

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