Entusiasmo e narrazione

di Clementina Gily

La filosofia che sa riprendere abitudini maieutiche sa interrogare senza presumere di sapere. Il ‘900 ha dato spazio al mondo dell’uomo sacrificato dalla tendenza trascendente che ha eternato i valori, ma è andato troppo oltre denunciando i valori – che recupera con altri nomi, molto meno chiari. Sin da Platone ed Aristotele il desiderio di sapere logicamente ha teso a tutto definire, ma l’uomo non può farlo, se ha un futuro; Tari diceva Hegel malato di trascendenzofobia[1] perché non ammetteva il futuro nemmeno nell’ottica dell’arte. E’ qui però il giusto spazio per condurre la riflessione consigliata da Howard Gardner nel suo ultimo libro, quando dopo aver per tanto tempo parlato delle diverse forme della mente ha concentrato la sua attenzione su quel che consente di ridefinire tutto intero il mondo dell’uomo.[2] 

Dice che la filosofia dell’ultimo secolo si è compiuta senza fare quel che sempre fa la filosofia, cioè riprendere l’ottica dei valori e ridefinirli nella situazione dell’oggi. La storia contemporanea ha difficoltà per lo storico, argomentava Croce, perché mancanza la distanza che discrimina gli elementi essenziali e tutto si affida all’intuito; non perché c’è il problema, ovviamente, Croce è il teorico della storia che parte da un problema, da un interesse, da una domanda presente. La scelta è soggettiva nel presente, non ha le convalide del deposito della tradizione, del giudizio di tutti e del decorso degli eventi; una soggettività così importante che può essere piuttosto protagonista dell’arte, donde il suo dubbio giovanile se la storia fosse da intendere come scienza o come arte. Era il 1893, ma già nel 1902 e poi nel 1909 era convinto che la storia non è arte, perché l’arte non definisce e non afferma; conosce nel dettaglio e determina, ma si fa guidare dall’appena intravisto, dal senso, dall’intuito – che anche per Aristotele non obbedisce al principio di non contraddizione. Guida con la luce ma non dà giudizi scientifici.

Se la via della storia conserva la sua validità, va però seguito altrimenti il percorso del problema: oggi un protagonista della logica e delle scienze tutte, per la relazione di pensiero-soluzione che svela le nuove armonie del reale, dissolto dall’oggettività divina e trascendente, interpretato nella sua necessaria connessione al virtuale. Ci si interroga e ci si risponde a partire dal dubbio illuminato che medita la filosofia di domani, teoretica non trascendente ma perenne perché intende il senso triplice del tempo, passato, presente, futuro, e la diversità dell’orizzonte storico in questo triplice ordine di considerazioni. È il problema dell’esperienza nell’idealismo denunciato da De Ruggiero in una troppo breve parola, ragionando di pragmatismo e  Dewey. Idealismo e storicismo, Hegel e Croce, pensano la storia a partire dall’oggi, e costruiscono le loro storie. Ma la storia è anche futuro: di lì a poco infatti meditò la tesi di Azione e valore, in cui vedeva l’immanenza del valore nella ricostruzione che spinge alla storia ed alla nuova interpretazione.[3] Sembra cosa da poco, in realtà è la soluzione di un problema discusso sino allo stremo, cardine dell’opposizione Croce Gentile, su cui non possiamo che dire in breve la soluzione. La mobilità della storia vive tra i tempi della mente: parlare non più problema ma di valore è la traslitterazione del senso che consente di capire – sia problema che valore sono la soluzione ad affrontare un tema in modo generico, individuano il tema e null’altro; allora, la contraddizione che si mostra nel problema non rischia di confondersi con la dissonanza cognitiva, come definì Festinger quel mettersi a coerenza che ognuno fa per non sentirsi contraddittori,[4] o dal desiderio di convalida di proprie opinioni che spinge a cercare fonti storiche alternative alla tradizione: parlare di valore porta a capire come il tema sia essenziale. Come dice Dewey, la domanda estetica nasce da un problema di vita che si impone alla pari di un problema esistenziale, ne ha la forza d’impulso dell’evitare la morte e il fallimento – segue un valore nella sua soluzione immanente, l’interazione simbolica è il panorama che se lo si sa guardare svela.5 Parlare di valore toglie al problema la sua eccessiva immanenza, fa comprendere come sia una domanda essenziale, quella della filosofia che ha per protagonista la luce e il mistero, la filosofia dell’uomo.

Perciò è importante partire da una domanda chiara che può giungere a risposta, e riproporre il senso dei lemmi in uso, liberandoli dalle incrostazioni del passato nell’interpretazione verso il futuro: ed è qui il grande problema che la proposta del valore risolve: è il problema su cui si versarono fiumi d’inchiostro della differenza identità delle res gestae e dell’historia rerum gestarum, che si differenziano appunto per il valore, per la scelta – che non è solo passaggio alla pratica, all’azione, è anche ragionare su questa azione possibile, è ragionare di valori. La differenza sta tutta nel “se” che ha importanza solo nella parola in mente, nelle res gestae: la storia del presente e del futuro è la storia con i “se”. Solo la storia passata non ammette i “se”, le ipotesi alternative: è qui la verità dell’osservazione di De Ruggiero, la storia del presente è tutta un’angosciosa catena di “se” – non si sa nulla di certo, sul piatto ci sono solo le ipotesi e la più credibile non è detto sia quella che ha dinanzi a sé il futuro. Perciò Hayden White parlò a suo tempo di metastoria, una visione della storia animata dal problema che sa meditare i problemi urgenti che la storia propone e suggerire metodi di argomentazione – ad esempio rinnovò qualche anno fa a Napoli il confronto tra le ipotesi di Collingwood e Toynbee – ma ciò per afferrare il senso del mondo nuovo.[5]

È qui la risposta che dal punto di vista dell’estetica può argomentare cosa sia oggi il benessere del welfare, termini che, in breve, si possono esemplificare nell’opposizione di Croce e Stuart Mill, che mostra coordinate oggi non più proponibili. Le soluzioni che giocano tra ideale e reale davvero sono fuori posto in questo mondo d’oggi, così tormentato dalla nuova configurazione del reale/virtuale. Si dice che non sia cosa nuova, che l’uomo ha sempre avuto i termini dell’immaginario come possibilità di futuro ma anche di illusione – ma non è così. Il termine ‘illusione’ viene da in-lusio, che vuol dire entrata in gioco. L’ideale rischierebbe così di guadagnare una falsa attribuzione  di realtà all’immaginario – donde la preferenza di assicurare solidi punti del welfare invece di visioni metapolitiche. Altrimenti può darsi la triste conseguenza di diventare un sogno fuori della realtà: ma non è questo il gioco, che è dominio dell’immaginario, per vincere bisogna avere chiaro il percorso e saper agire con fede nella vittoria. Il segreto dell’in-lusio è proprio il dominio, l’azione sapiente e forte animata dalla volontà di vincere: il contrario dell’illusione.7

Il gioco comporta il dominio sulla virtualità, agire con l’immaginario e nell’immaginario con piena consapevolezza – guarda cioè al virtuale nel senso in cui esso è nel mondo d’oggi: non è vero che sia lo stesso di sempre. La virtualità ha costruito nel nostro mondo una vita alternativa che caratterizza tutti a loro modo, e che non può essere giudicata come un’illusione da cui guardarsi. Il mondo dell’immaginario oggi è nient’affatto virtuale, per molta parte della popolazione è più reale del reale – basta osservare la velocità con cui gli smart phone hanno conquistato i giovani e non, per capire come si siano velocemente realizzate le previsioni che parevano avveniristiche appena nel 2003.[6]  Nelle altre età dell’uomo, è facile vedere come i giovanissimi non sopportino di allontanarsi da cartoni e videogiochi, gli anziani dalla puntata dell’ultimo serial – tra cui va inclusa certo anche la politica spettacolo che vorrebbe dare a tutti l’impressione di assistere ad una democrazia ateniese e non ad un teatrino.

Come ottengono i media questo risultato? Con lo story telling, come oggi si dice, addormentando i dubbi con il solido tessuto di una storia alternativa fissa nei suoi metodi, un sogno che è più costante del reale. È la narrazione del mondo diretta dai broadcasting, solidamente in mano alla nuova aristocrazia, pessima come tutte le nuove aristocrazie prima della civilizzazione; stavolta però accade che i margini del silenzio siano duramente corrosi e che l’efficacia dei metodi si sia potenziata oltre misura. Aldous Huxley nel suo mondo nuovo, che definiva una selva bisognosa di coraggio, vedeva la formazione del popolo schiavo affidata da un lato alla manipolazione genetica, dall’altra all’ipnagogia la pedagogia della cura del sonno: lui la immaginava con la trasmissione in cuffia di proverbi che ammaestrano all’idea del benessere concessa alla loro vita schiava – è quel che i media hanno realizzato con molta efficacia, con il consenso entusiastico della gente, che finalmente è contenta del suo vivere possedendo il telecomando, che apparentemente  vince il negativo.

Solo che appunto parlare di ideale-reale qui non ha più senso alcuno. Ribattere l’ideale contro il mero appagamento dei bisogni è non comunicare nulla a chi vive nel mondo nuovo, che è il mondo della mente dissestato dall’inquinamento, per cui Morin ha parlato di nooecologia, Bateson di ecologia della mente. È un altro ambiente, un’altra esperienza, le funzioni della mente sono del tutto intersecate ad una realtà che risponde del tutto alle necessità, che uccide il desiderio non consumistico. Proprio dove non si può oltrepassare il limite, la malattia e la morte, scende il silenzio, si offre la chance della meditazione caritatevole – basta l’offerta di un sms per pacificare l’anima di chi sta lieto al televisore. In esso non c’è più la morte, Spencer Tracy e Gary Cooper offrono ancora la loro presenza a chi voglia rivederli, non c’è Ghost che mai veramente scompaia dalla nostra vita esperibile ed immersiva. È tutto un mondo ideale che ha i suoi valori sono impressi nei volti della folla, quale altra luce occorre per illuminare il futuro? Ecco il problema del benessere oggi, che richiede riflessione sul Welfare nel mondo. La risposta che è nei fatti, quella immanente nel problema, è quindi evidentemente: la cura narrativa è l’unica che può assicurare il welfare oggi. Basta riprendersi l’immaginario, abbandonando infine le folli ipotesi della scuola di Francoforte, che bastasse denunciare il problema, come fece Adorno, o proporre l’immaginazione al potere, come fece Marcuse. Bisogna riportare all’equilibrio il gioco del reale e dell’immaginario, nel senso del gioco che, argomentò Caillois, è termine da adottare nel senso della fisica. È uno spazio libero in un binario fisso, libertà e regola in equilibrio, dove la leva si muove solo se la misura è giusta – moto flessibile ben fermo in un campo d’azione. L’uomo va riportato nello spazio del suo vivere per avere il benessere della liberazione dalla depressione e dalla violenza praticata o virtuale che occupa tanta parte del vivere d’oggi – dove la battaglia femminile, per fare un caso attuale, è diventata il barbarismo del femminicidio, con una legge che le dichiara cittadine italiane protette da una legge che ne vieta l’omicidio – ma non erano già, cittadine, le donne? Non erano già tutelate dalla legge e dalle istituzioni? La morale della finanza è spietata anche più di Attila, arriva anche nei confessionali: l’uomo deve re-imparare a narrare la storia dell’uomo, che è una storia di limiti, è una storia che si fa con i se: è una storia di valori e di futuro come chance di civiltà e civilizzazione.

Il modo praticabile è cominciare dall’educazione, che non si limiti alla memoria del passato che è indispensabile come schema di orientamento dato dal sapere disciplinare, non come quantità di nozioni, oggi che il motore di ricerca chiarisce tutto, dai dubbi ortografici alla conoscenza dei contemporanei e della storia. Già un maestro di arte della memoria, dotatissimo, come Giordano Bruno, pensò la memoria futura, una macchina di ruote girevoli per trasformare la memoria in sapere significativo e competente, come oggi raccomanda alla scuola la direttiva europea sull’educazione. Una memoria che sappia trovare gli esempi giusti del passato possedendo le strutture essenziali alla ricerca. Ciò vuol dire sollecitare ricerche, accompagnare davvero gli allievi nel mondo nuovo insegnando loro a navigare con intelligenza negli oceani dell’intelligenza collettiva – un mostro infinito se non lo si sa dominare, che porta al naufragio. E poi, capito il senso della ricerca, trasformatala nel trovare, operazione difficile da fare con metodo sicuro. E  infine narrare.

Laboratori di scrittura della fisica, della matematica, della biologia, della storia e della filosofia sono la vera cura omeopatica del benessere nel mondo d’oggi dell’immaginazione incarcerata, l’ambiente ecologico in cui pensare i valori dell’oggi. Insegnare a comporre testi con fantasia, insegnando ad evitare la fantasticheria,[7] è il compito della scuola, per indicare a tutti la strada della riappropriazione del sé narrato.

Ciò si può solo con l’entusiasmo. Chiudo ricordando un’altra tappa essenziale del percorso, la convergenza di Francisco Varela nella identificazione del problema del ‘900, non aver saputo ripensare i valori, muovendo tra il nichilismo e il postmoderno. Varela parla di enattivo, di entusiasmo, di forza d’azione per la vita. Ciò raccomanda all’educazione partendo dalla sua competenza di biologo. Nel cervello, dice, non si trovano rappresentazioni ma automodificazioni. Non possiamo trovare gli spunti che l’ameba o l’insetto hanno avuto come impressione dal mondo da cui hanno ricavato la necessità di una automodificazione, ma l’enazione incarnata invece è documentata.[8] Essa spiega perché un organismo sopravvive facendo la storia con i se; molti sbagliano e muoiono, altri sopravvivono e tramandano, il cambiamento diventa stabile e progressivo, alla lunga crea un organo, una chiusura operativa per quella forma di vita e per noi: se l’organo finalmente raggiunto non viene adeguatamente sfruttato, se si continua ad agire come prima, l’automodificazione fallisce. Ma c’è chi si rende conto del passaggio, e inizia a servirsi dell’organo come un punto di partenza nuovo: ed ecco il nuovo progresso, la nuova automodificazione. È possibile pensare a questo processo realizzabile senza entusiasmo, senza generosità e rischio, senza volontà di superare l’indicibile sofferenza del rischio?

Di qui la domanda di Varela: come si può pensare di vivere in un mondo senza entusiasmo com’è quello del nichilismo? Chi riesce a mantenerlo agisce fuori della cultura, trova altri motivi, casomai la finanza, l’attività corsara, l’esibizionismo narcisista. Il saggio è triste, troppo triste per fare il salto, preferisce rimuginare una storia balocco. Perciò Varela ricorre all’altra tradizione indiana, non quella del niente di Nietzsche ma quella del Nulla, nella tradizione buddista Madhyamika di Nagarjuna.11 Il termine Nulla va scritto con la maiuscola perché è sinonimo del tutto non ancora presente e presente e passato; non è la critica e il martello che distruggono, è la direzione del futuro che disegna l’azione da compiere: al bando la melanconia. È un’illuminazione che converge con tanta parte della cultura odierna, che come sempre guida gli uomini di buona volontà, ma ha trovato la difficoltà del discredito della metafisica e non sa chiudere un punto di vista. Ma la chiusura operativa vale anche nel pensiero: se non c’è chiarezza sulla tradizione, se non la si chiude, il presente ed il futuro non nascono. Solo questo consente di mettere infine in soffitta il 900 e di iniziare il 2000 ormai già con un suo bagaglio alle spalle con  la forza che consenta di pensare i valori del mondo nuovo, reale/virtuale, dove tutto si squadra in un mondo diverso.

Insomma, la via del benessere è l’educare alla Fantastica, la scienza pensata da Holderlin per l’educazione dell’immaginario che influenzò le scritture pedagogiche di Gianni Rodari. Ma davvero la pedagogia è per bambini? O come leggeva il lemma Caillois è una paidìa cioè un’educazione all’animo fanciullo, quella chiara nei giochi di movimento, che sa il ridere argentino che coglie quando si vince una corsa? La forza della fantasia anima la poetic faculty, che per White è necessaria per costruire qualsiasi semplice ipotesi nella storia. Recuperare il senso del vivere, la sua bellezza e natura/physis, con un sapere fondato nell’opsis invece che nel theorein, la vista che sa vedere non solo la lontananza distante, come fanno gli occhi, ma immerge nell’ottica fisico psichica, tattile, che fa vivere nei mondi altri: l’immersione che è nello smart phone, nella televisione, nel cinema. Appunto dal cinema capirono Benjamin e Deleuze come sia cambiata la teoria dell’argomentazione e la logica del senso, i due grandi problemi dell’oggi.[9]

Il sapere estetico è una sfida accettata e promossa con l’approfondimento, con il ripensamento costruttivo, con l’apprensione di nuove tecniche in vista di un fine: è attivo di sua natura, è quella terza via tra pensiero e azione che Kant ha configurato nei problemi del fine, del bello e del sublime. Fu la partenza, che ha già avuto nei due secoli successivi molte conferme, precisazioni e riflessioni che l’hanno corroborata ma non infirmata nella sua giustezza. Mi limito ad indicare la via che ritengo più fruttuosa nell’iconic turn proposto dagli storici dell’arte che vogliono cambiare l’impostazione di Vasari, che nell’800 divenne la teoria del genio: partire cioè nel parlare d’arte dall’autore e dalle opere (che è anche la via di Hegel oggi ripresa da A.C. Danto – e prima da Gentile). La teoria romantica è oggi fuori corso, ma non nella storia dell’arte, che è strutturata ancora così; Belting invece parte dal sacro, ad esempio, seguendo il suggerimento dell’iconologia (Warburg, Gombrich, Panofsky) di partire invece dall’immagine, dalle sue categorie funzioni (Cassirer) che spiegano le modalità della sua conoscenza attiva e volta al fine. È questa ottica che spiega il valore sistematico dell’arte, che come in Kant non è una valutazione d’arte ma una critica della ragione – dedicata alla ragione sensibile, all’analogo rationis di Baumgarten – l’azione guidata dal valore, come l’arte dalla bellezza, che mostra come la luce si possa dire senza misticismi, educando al dettaglio su cui essa porta chiarezza, al rapporto vivo di mimesi e metessi.

La mimesi, fuori dell’arte e forse anche nell’arte: è la storia. Perciò Croce pose giustamente Vico a primo pensatore dell’estetica contemporanea. Una storia, però, come quella di Vico che si fa anche di mito: di immaginario, la storia con i se, con la cultura delle genti, con le degnità che ne emergono. Una storia che non si chiude nel passato ma che assiste alla vita e vive nell’orizzonte della situazione e della vita della comunità. Una storia che non manca mai l’orizzonte dei valori, se non vuole rimanere una semplice cronaca di quel che altri fanno e hanno fatto. La vita si fa di rischio, di azzardo, di coraggio e si vive con entusiasmo.


[1] A. Tari, Saggi di estetica e metafisica, B.Croce ed., Laterza, Bari 1911, pp.308.

[2] H. Gardner Verità, bellezza, bontà, Educare alle virtù nel ventunesimo secolo, Feltrinelli 2012.

[3] G. De Ruggiero, Introduzione, in J. Dewey, Ricostruzione filosofica, Laterza, Bari 1931 (1917) – l’esperienza ha il suo significato nel futuro. G. De Ruggiero, Azione e valore, in “Archivio della cultura italiana” 1942/4, pp.105-116.

[4] L. Festinger, H.W. Riecken, S. Schachter, When Prophecy Fails, Minneapolis,  Un. of Minnesota Press 1956. L. Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, G. Iacono ed., Angeli, Milano 1997   5 J. Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica, Palermo2007 (1932). pp. 63-70.

[5] H. White, Collingwood e Toynbee, Passi del pensiero inglese sulla storia, in C.Gily ed., Arte e formazione, cit., pp.1346. Per la Metahistory cfr. H. White, Forme di storia, Carocci, Roma 2006; Retorica e storia, Napoli, Guida 1978 e Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe (1973). 7 C.Gily, In-lusio. Il gioco come formazione estetica, Graus, Napoli 2002.

[6] Al tempo di una sperimentazione commissionata dalla FBNAI, la ricerca OSCOM dell’Università Federico II organizzò con più di duemila bambini delle scuole campane il Circuito dei media che promulgò la Carta di Lioni sull’opportunità di incrementare l’educazione ai media nelle scuole di ogni ordine e grado.

[7] E. Zolla, Storia del fantasticare, Bompiani, Torino 1964.

[8] F. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli1992 (91), pp. 141-208. H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano 1992. 11 Ivi, p. 284.

[9] Sono le tesi appena svolte in C.Gily, La didattica della bellezza. Dallo specchio allo schermo, in corso di stampa presso Rubbettino

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