Giorno: 17 Aprile 2016

Pedagogia e scienza: per un rapporto più diretto

di Franco Blezza [1]

teaserbox_22386358Sui rapporti tra la scienza e la materia pedagogica, intendendo il termine “scienza” in senso stretto cioè riferito alle scienze della natura e a quelle tra le scienze della cultura che vi siano ravvicinabili per metodo, si annoverano anche nel nostro paese ricerche numerose e notevoli, sia nelle tradizioni ottocentesche e del primo novecento, che nel dopoguerra.

Sono, invece, carenti i contributi diretti di studiosi italiani di formazione scientifica nel campo pedagogico. L’eccezione di Maria Montessori, se impedisce di fare regola, non può deviare l’attenzione dal Trend che è netto, ed è in controtendenza rispetto all’andamento su scala mondiale della ricerca pedagogica dell’ultimo se­colo. Si pensi a Claparède, a Decroly, a James, a Peirce, a Ferrière, a Dottrens, a Kerschensteiner, ai fondatori della Pedagogia Speciale, … Questa è una tematica che va posta sul piano più generale della ricerca nel settore, e dell’essenza della pedagogia.

Nel nostro paese, ancora oggi, l’apporto che gli uomini di scienza (intendendo formati alla cultura scientifica in senso stretto, e con esperienza di ricerca scientifica o del relativo esercizio professionale effettivamente condotta) recano alla materia pedagogica, o per lo meno all’educazione, va ricercato essenzialmente lungo tre direttrici: o lo sviluppo di alcune tra le scienze dell’educazione, magari in via ausiliaria (quando non proprio strumentale) rispetto alla riflessione pedagogica generale; o le didattiche speciali delle diverse discipline scientifiche, tecniche e logico-matematiche oppure di aree pluridisciplinari più comprensive; o le tecnologie per l’educazione e l’istruzione. Si tratta di tre campi particolari di ricerca pedagogica, a volte didattica, nei quali il contributo della scienza è necessario; lo sviluppo del terzo, e per certi aspetti anche del primo, soffre spesso della confusione tra scienza e tecnica, che nonostante tutto permane dal neoidealismo italiano, e tra tecnica e tecnologia che è invece più recente. Lo sviluppo, invece, delle didattica disciplinari e pluridisciplinari sulla scienza si configura spesso come una ghettizzazione, vale a dire come un evidente spreco di risorse di interesse generale in quanto tale. Tutti e tre questi riduzionismi conducono ad un impoverimento della ricerca pedagogica e della comunità che la sviluppa: tale apporto, in effetti, è recato a problematiche educative di fondo, e per queste è altamente significativo, pur se la potenziale generalità di tale contributo va presa e va letta attraverso una complessa e non agevole mediazione.

Viceversa, è ricca la casistica di riferimenti alla scienza da parte di Pedagogisti d’altra formazione: ma essi sono stati, e sono, fatti per lo più, in via non diretta, bensì attraverso la consultazione di opere divulgative, oppure di riflessioni filosofiche sulla scienza: sia storicamente che attualmente.

Il riferirsi ad opere divulgative, in sé, sarebbe anche positivo: ma se operato in via esclusiva, e senza la cultura specifica di fondo, ma presenta rischi molto gravi, e rimane ristretto entro limiti piuttosto angusti: è arduo fin l’immaginarsi, per questa via, un andar oltre aspetti particolari e cogliere la generalità dell’essenza scientifica in campo pedagogico. Spesso si mutuano solo Slogan e ci9tazioni decontestualizzate, senza alcuna consapevolezza della rispondenza o meno dell’impiego al contesto originario

Il ricorso a mediazioni filosofiche, ad esempio, presenta il limite di guardare alla scienza non come essa è, ma come la tratteggia uno studioso dall’esterno: ed è ben noto, ad esempio, come si oscilli, specie nell’epistemologia contemporanea, tra una deontologia che non serve a com­prendere la realtà della scienza, ed un relativismo storico che comunque coglie della scienza solo quegli aspetti che rientrano in schemi concet­tuali aprioristicamente prefissati dallo storico. Il fatto, poi, che non pochi epistemo­logi dell’ultimo secolo fossero di formazione scientifica (Mach, Duhem, Bachelard, Kuhn, Hahn, …), e che vi siano stati dei notevoli apporti filosofici da parte di eminenti uomini di scienza (Einstein, Bohr, Schrödinger, Born, Monod, …), se consentirebbe di migliorare la qualità del riferi­mento alla scienza da parte del pedagogista, comunque non ne modificherebbe il carattere indiretto e i limiti relativi.

In educazione, dove il realismo è deontologico, si pone dunque un problema d’opportunità di andare oltre qualunque tipo di mediazione, e di cogliere direttamente ed in via essenziale il contributo che la scienza può dare nel suo modo d’essere reale ed attuale. Un tale contributo vale per la delineazione di fondo della materia educativa, per una teoria generale della Pedagogia, che preferiamo non chiamarla “epistemologia” se prima non si sia dimostrato che la Pedagogia è effettivamente una “episteme; e vale altresì per la ricerca generale in ambito pedagogico. Esso dovrebbe portare a vedere le applicatività particolari (come quelle lungo le tre direttrici sopra richiamate), correttamente, come conseguenza delle istanze di fondo.

Il discorso sarebbe ovviamente lunghissimo, e alcuni aspetti li abbiamo sviluppati nei decenni, ad esempio in Educazione e scienza (SEI, Torino 1989), Didattica scientifica (Del Bianco, Udine 1994), Educazione 2000 (Pellegrini, Cosenza 1993) e poi Educazione XXI secolo (Pellegrini, Cosenza 2007). In questa sede ci limitiamo ad indicare, a titolo d’esempio, alcuni settori generali nei quali la proficuità di tale contributo appare con risalto maggiore:

  • la definizione dell’educazione in termini di evoluzione culturale cioè di peculiarità umana, e quindi congrui con le caratteristiche dell’uomo studiate dalle scienze della natura che comunque all’uomo si riferiscono;
  • la ridefinizione del rapporto tra la ricerca pe­dagogica che può riconoscersi nelle regole delle scienze empiriche, codificate e coltivate nelle scienze della natura, e la problematica educativa generale, sulla base degli sviluppi specifici che la scienza ha avuto a partire dalle rivoluzioni della fine del secolo scorso, cioè dal superamento “rivoluzionario” della scienza cosiddetta “classica”;
  • l’impiego in via essenzialistica nella materia educativa di strumenti concettuali elaborati dalla scienza contemporanea, e differenti da quelli della scienza fino all’ottocento, come ad esempio l’indeterminazione, la complementarità, il probabilismo, il relativismo, la complessità, la teoria dei sistemi, la teoria qualitativa, la catastrofe, la non decidibilità, la base casuale delle mutazioni e la conseguente sele­zione, e così via;
  • una metodologia della scienza che sia realisticamente proponibile per come la ricerca scientifico-naturalistica di base si va svolgendo in questi decenni, diversa dalla ricerca tecnica e da quella tecnologica, le quali a loro volta possono apportare contributi non meno importanti:
  • un’attenzione per i fini e la loro critica, che permetta di vedere come la natura e la tassonomia dei fini della scienza sia differente e a volte divaricante da quella della Pedagogia, e come anche sul piano della critica vi siano delle differenze essenziali.

Mentre simili contributi possono risultare di grande proficuità per l’evolversi dell’educazione, appare difficile fruirne senza competenze ed esperienze dirette e specifiche nei campi scientifici interessati. Visioni della scienza filosofiche o storiografiche possono servire a poco, quando non a sviare l’attenzione.

[1] P.O. Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali, Università “d’Annunzio”, Chieti

W FORMAZIONE Blezza Pedagogia e scienza per un rapporto più diretto

Luigi e Fausto Pirandello letti da Adriano Tilgher

di Federico Reccia
Luigi Pirandello e Fausto (a des.) ad Anticoli 1936
Luigi Pirandello e Fausto (a des.) ad Anticoli 1936

La criogenia è la scienza sorta da una branca della fisica che si occupa dello studio e dell’utilizzo delle bassissime temperature e che iberna i corpi morti con la speranza di farli tornare in vita in un momento successivo. Quando manteniamo noi stessi e i nostri amici congelati nella nostra mente (trattenendoci l’un l’altro alle nostre immagini mentali di ciò che eravamo piuttosto di ciò che siamo) stiamo forse facendo della criogenia psichica? Se manteniamo le nostre immagini, non più recenti, di noi e di altri, congelate, senza permettere che si “scongelino”, siamo forse limitati da ciò che era?

Si pretende libertà, il potere di essere persone rinnovate e conosciute per il nostro essere attuale, non per l’immagine storica impressa come un’icona nell’immaginario collettivo di conoscenti e pseudo-conoscenti: quel che si definisce ‘memoria’ naviga coniugando analogie che rinnovano il senso di quel che si dice. Come quella appena detta, tra il mondo della scienza, la criogenia, e quello di arti ed affetti: l’immaginario e la scienza seguono ognuno il proprio metodo anche analizzando lo stesso caso; partire dall’analisi o analogicamente – come fa l’ecfrastica quando racconta le figure in parole, come più in generale fa ogni storia, giova al confronto ed a liberare la memoria da quell’impressione di congelamento opprimente.

In un caso storico come quello che vorrei prendere in esame, l’analogia diventa esistenza, confine letterario, sistema delle arti e finanche filosofia: un padre e un figlio, Luigi Pirandello e il figlio Fausto – commediografo e letterato l’uno, pittore l’altro – ma entrambi cultori insieme di tutte queste arti – ponendo a mediare tra i due un lettore e critico, Adriano Tilgher. Motivo dell’esame, sta nella domanda di indagine sulla vita individuale e sociale, in relazione ai tanti sottosistemi sociali, economici, culturali, politici, religiosi di influenza sulla vita di ognuno. Fui illuminato dal pensiero di cercarle “in situ” nel passato italiano post-unitario e bellico cui il problema si era configurato nel corso degli studi: che presentava un chiaro esempio nello scrittore Luigi Pirandello, vulcano di idee siciliano, raccontato dall’ercolanense filosofo Adriano Tilgher – e convalidato dalle figure pittoriche di Fausto Pirandello. Tutti esprimenti la difficoltà dell’uomo contemporaneo a trovare orientamento, in un mondo che aliena, chiedendo di rinunciare ad una vita autentica per convenzioni sociali, conformismi e corbellerie, che omologano senza guadagno.

Così la memoria storia ricostruisce i limiti del problema in modo naturale; essi mostrano un aspetto delle creature magistralmente scolpite mostrandone la somiglianza nel problema, senza “improvvisarsi scultori” e scolpire forme e concetti.

Fausto Pirandello, ancor prima di “scoprire i pennelli”, compì al ritorno dalla fine della prima guerra mondiale un breve alunnato nello studio dello scultore Lipinsky; ma fin dal 1920 il coinvolgimento si dedica tutto alla pittura, che gli pare un approccio più congeniale e veritiero per la rappresentazione non mediata della realtà. Così subito trasgredì il consiglio paterno di dedicarsi alla scultura: al termine di una guerra si richiedono molte opere scultoree celebrative, per immortalare “le forme” della vittoria e della sconfitta. Ma in pittura Fausto Pirandello, uno dei più celebri figli di Luigi Pirandello e di Maria Antonietta Portulano, fu invece molto ‘paterno’, così attento all’individuo, alla sua angoscia di uomo solo, umiliato e offeso dall’urto con la vita. Sul carattere problematico e travagliato di Fausto Pirandello ebbe certo parte non secondaria il non facile rapporto col padre Luigi, testimoniato, tra pulsioni affettive e rifiuti nevrotici, dai documenti epistolari. Fausto scelse perciò di rappresentare la quotidianità dimessa della vita, in un realismo essenziale e disadorno che sostituisce alla bellezza delle forme la disarmonia dei corpi e sfocia nell’inestetico, nel brutto – non nell’anestetico. Sa colpire, come in altri campi faceva il padre, che per altro fu anche ben esercitato pittore.

Luigi Pirandello scrittore vagheggia una vita autentica, libera da ogni forma di costrizione sociale, e costruisce una visione onirica in scena teatrale, dove corpo e figure sono individui privi di legami oggettivi e solidi, che vorrebbero essere in società ma la loro analisi decostruente smonta in realtà i procedimenti con infinito distacco emotivo. La disgregazione dell’io è una sorta di liberazione che riconduce al puro fluire della vita nella disperazione dell’alienazione a sé.

L’arte dei Pirandello, padre e figlio, è così la stessa denuncia spietata e angosciosa della crisi; non s’interessano di cause sociali e morali, sono artisti, creano scene. La guida del filosofo Adriano Tilgher subito chiarì quanto fosse importante questo forte incipit novecentesco; una preveggenza chiara opposta al disconoscimento di altri, che intese l’attualità che ancora oggi si riconosce, la lucida coscienza del tempo in cui l’io è travolto dal caos di una vita in cui occorre “esistere” in qualche modo. Un micro-universo incomprensibile della società in cui tutto è relativo, la persona staccata dal personaggio è la molteplicità dei suoi gesti mutevoli, e non c’è una “forma” della vita, ciascuno è uno e centomila, cioè nessuno.

L’estetica della visione del mondo è per Luigi Pirandello “umoristica. L’umorismo è espressione dell’atto innaturale e grottesco che mette in scena il sintomo plurimo e contraddittorio della realtà. La successione caratteriale di piani consci ed inconsci permette il riconoscimento della porzione infelice e miseranda dell’uomo “ombrata” dal baluginio di comicità immediata. Una definizione di Pirandello, che può ampliarsi a tanta parte del 900. Un’estetica comica e straziata insieme.

*

Adriano Tilgher, si formò fuori delle accademie, fu giornalista e polemista, vicino a Croce ed ai suoi grandi amici e scolari, ma non perciò di pensiero storicistico, piuttosto aderì ad un pragmatismo senza precisa definizione, una sorta di “teoria pratica” che amò chiamare ‘casualismo criticò. La sua distanza dallo storicismo antiscientista è facile evincere dal fatto che Tilgher poneva al centro della scena filosofica e drammatica la scoperta della relatività, che vedeva quindi oltre il divenire hegeliano, ancora troppo vicino alla polemica con l’essere immobile per modificare la propria cultura. La crisi aperta dalla prima guerra mondiale lo spinse al pessimismo e alla rilettura di Leopardi,[1] la belligeranza e l’esplosione dei nazionalismi e razzismi mostravano chiara la direzione dell’approfondimento del disagio e del tragico. Il piano etico e filosofico concordano nell’inesistenza di una visione unica nella pluralità copiosissima di morali, nel fondo caotico della vita.

Nel 1922 Tilgher scrive gli Studi sul teatro contemporaneo, con la sua critica pirandelliana, in cui Tilgher vi riservò al drammaturgo siculo un saggio sulle teorie del neo-idealismo dialettico in Pirandello. Esponeva con le sue concezioni filosofiche la teoria dell’arte e del teatro e in specie dell’arte pirandelliana come antitesi fra Vita e Forma. Il classico binomio realtà-forma in teatro diviene persona-personaggio: l’attore, uomo precario come tutti, diviene ruolo affettato del personaggio, esso sì sottratto alla genericità dell’esistenza e fissato in maschera, «in una ostentata recita continua» che è spesso elevata: il mondo delle forme teatrali è paradossalmente più vero della vita! Donde la raccapricciante scoperta del nulla profondo, baratro in agguato sotto l’uomo – è la condizione dominante dei drammi pirandelliani. Accusato d’essere “critico filosofo” che adopera astratti enunciati, dimostra così d’intendere meglio e più di altri, giornalista militante, supera la caducità dello spettacolo e collegano Pirandello alla più avanzata cultura europea del primo Novecento: alla Vita è indispensabile riportarsi alla Forma ma non assimilarsi ad essa, ch’è puro pensiero.

[1] Anche se non sempre viene ricordato, Tilgher serbò amore sia per Leopardi quanto per l’affine lettura pessimistica di Schopenhauer che lo indussero a riservare al poeta e filosofo di Recanati il lavoro La filosofia di Leopardi (pubblicato nel 1940, appena un anno prima del suo decesso avvenuto a Roma nel 1941.

GF SAGGI Luigi e Fausto Pirandello letti da Adriano Tilgher