Luigi e Fausto Pirandello letti da Adriano Tilgher

di Federico Reccia
Luigi Pirandello e Fausto (a des.) ad Anticoli 1936
Luigi Pirandello e Fausto (a des.) ad Anticoli 1936

La criogenia è la scienza sorta da una branca della fisica che si occupa dello studio e dell’utilizzo delle bassissime temperature e che iberna i corpi morti con la speranza di farli tornare in vita in un momento successivo. Quando manteniamo noi stessi e i nostri amici congelati nella nostra mente (trattenendoci l’un l’altro alle nostre immagini mentali di ciò che eravamo piuttosto di ciò che siamo) stiamo forse facendo della criogenia psichica? Se manteniamo le nostre immagini, non più recenti, di noi e di altri, congelate, senza permettere che si “scongelino”, siamo forse limitati da ciò che era?

Si pretende libertà, il potere di essere persone rinnovate e conosciute per il nostro essere attuale, non per l’immagine storica impressa come un’icona nell’immaginario collettivo di conoscenti e pseudo-conoscenti: quel che si definisce ‘memoria’ naviga coniugando analogie che rinnovano il senso di quel che si dice. Come quella appena detta, tra il mondo della scienza, la criogenia, e quello di arti ed affetti: l’immaginario e la scienza seguono ognuno il proprio metodo anche analizzando lo stesso caso; partire dall’analisi o analogicamente – come fa l’ecfrastica quando racconta le figure in parole, come più in generale fa ogni storia, giova al confronto ed a liberare la memoria da quell’impressione di congelamento opprimente.

In un caso storico come quello che vorrei prendere in esame, l’analogia diventa esistenza, confine letterario, sistema delle arti e finanche filosofia: un padre e un figlio, Luigi Pirandello e il figlio Fausto – commediografo e letterato l’uno, pittore l’altro – ma entrambi cultori insieme di tutte queste arti – ponendo a mediare tra i due un lettore e critico, Adriano Tilgher. Motivo dell’esame, sta nella domanda di indagine sulla vita individuale e sociale, in relazione ai tanti sottosistemi sociali, economici, culturali, politici, religiosi di influenza sulla vita di ognuno. Fui illuminato dal pensiero di cercarle “in situ” nel passato italiano post-unitario e bellico cui il problema si era configurato nel corso degli studi: che presentava un chiaro esempio nello scrittore Luigi Pirandello, vulcano di idee siciliano, raccontato dall’ercolanense filosofo Adriano Tilgher – e convalidato dalle figure pittoriche di Fausto Pirandello. Tutti esprimenti la difficoltà dell’uomo contemporaneo a trovare orientamento, in un mondo che aliena, chiedendo di rinunciare ad una vita autentica per convenzioni sociali, conformismi e corbellerie, che omologano senza guadagno.

Così la memoria storia ricostruisce i limiti del problema in modo naturale; essi mostrano un aspetto delle creature magistralmente scolpite mostrandone la somiglianza nel problema, senza “improvvisarsi scultori” e scolpire forme e concetti.

Fausto Pirandello, ancor prima di “scoprire i pennelli”, compì al ritorno dalla fine della prima guerra mondiale un breve alunnato nello studio dello scultore Lipinsky; ma fin dal 1920 il coinvolgimento si dedica tutto alla pittura, che gli pare un approccio più congeniale e veritiero per la rappresentazione non mediata della realtà. Così subito trasgredì il consiglio paterno di dedicarsi alla scultura: al termine di una guerra si richiedono molte opere scultoree celebrative, per immortalare “le forme” della vittoria e della sconfitta. Ma in pittura Fausto Pirandello, uno dei più celebri figli di Luigi Pirandello e di Maria Antonietta Portulano, fu invece molto ‘paterno’, così attento all’individuo, alla sua angoscia di uomo solo, umiliato e offeso dall’urto con la vita. Sul carattere problematico e travagliato di Fausto Pirandello ebbe certo parte non secondaria il non facile rapporto col padre Luigi, testimoniato, tra pulsioni affettive e rifiuti nevrotici, dai documenti epistolari. Fausto scelse perciò di rappresentare la quotidianità dimessa della vita, in un realismo essenziale e disadorno che sostituisce alla bellezza delle forme la disarmonia dei corpi e sfocia nell’inestetico, nel brutto – non nell’anestetico. Sa colpire, come in altri campi faceva il padre, che per altro fu anche ben esercitato pittore.

Luigi Pirandello scrittore vagheggia una vita autentica, libera da ogni forma di costrizione sociale, e costruisce una visione onirica in scena teatrale, dove corpo e figure sono individui privi di legami oggettivi e solidi, che vorrebbero essere in società ma la loro analisi decostruente smonta in realtà i procedimenti con infinito distacco emotivo. La disgregazione dell’io è una sorta di liberazione che riconduce al puro fluire della vita nella disperazione dell’alienazione a sé.

L’arte dei Pirandello, padre e figlio, è così la stessa denuncia spietata e angosciosa della crisi; non s’interessano di cause sociali e morali, sono artisti, creano scene. La guida del filosofo Adriano Tilgher subito chiarì quanto fosse importante questo forte incipit novecentesco; una preveggenza chiara opposta al disconoscimento di altri, che intese l’attualità che ancora oggi si riconosce, la lucida coscienza del tempo in cui l’io è travolto dal caos di una vita in cui occorre “esistere” in qualche modo. Un micro-universo incomprensibile della società in cui tutto è relativo, la persona staccata dal personaggio è la molteplicità dei suoi gesti mutevoli, e non c’è una “forma” della vita, ciascuno è uno e centomila, cioè nessuno.

L’estetica della visione del mondo è per Luigi Pirandello “umoristica. L’umorismo è espressione dell’atto innaturale e grottesco che mette in scena il sintomo plurimo e contraddittorio della realtà. La successione caratteriale di piani consci ed inconsci permette il riconoscimento della porzione infelice e miseranda dell’uomo “ombrata” dal baluginio di comicità immediata. Una definizione di Pirandello, che può ampliarsi a tanta parte del 900. Un’estetica comica e straziata insieme.

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Adriano Tilgher, si formò fuori delle accademie, fu giornalista e polemista, vicino a Croce ed ai suoi grandi amici e scolari, ma non perciò di pensiero storicistico, piuttosto aderì ad un pragmatismo senza precisa definizione, una sorta di “teoria pratica” che amò chiamare ‘casualismo criticò. La sua distanza dallo storicismo antiscientista è facile evincere dal fatto che Tilgher poneva al centro della scena filosofica e drammatica la scoperta della relatività, che vedeva quindi oltre il divenire hegeliano, ancora troppo vicino alla polemica con l’essere immobile per modificare la propria cultura. La crisi aperta dalla prima guerra mondiale lo spinse al pessimismo e alla rilettura di Leopardi,[1] la belligeranza e l’esplosione dei nazionalismi e razzismi mostravano chiara la direzione dell’approfondimento del disagio e del tragico. Il piano etico e filosofico concordano nell’inesistenza di una visione unica nella pluralità copiosissima di morali, nel fondo caotico della vita.

Nel 1922 Tilgher scrive gli Studi sul teatro contemporaneo, con la sua critica pirandelliana, in cui Tilgher vi riservò al drammaturgo siculo un saggio sulle teorie del neo-idealismo dialettico in Pirandello. Esponeva con le sue concezioni filosofiche la teoria dell’arte e del teatro e in specie dell’arte pirandelliana come antitesi fra Vita e Forma. Il classico binomio realtà-forma in teatro diviene persona-personaggio: l’attore, uomo precario come tutti, diviene ruolo affettato del personaggio, esso sì sottratto alla genericità dell’esistenza e fissato in maschera, «in una ostentata recita continua» che è spesso elevata: il mondo delle forme teatrali è paradossalmente più vero della vita! Donde la raccapricciante scoperta del nulla profondo, baratro in agguato sotto l’uomo – è la condizione dominante dei drammi pirandelliani. Accusato d’essere “critico filosofo” che adopera astratti enunciati, dimostra così d’intendere meglio e più di altri, giornalista militante, supera la caducità dello spettacolo e collegano Pirandello alla più avanzata cultura europea del primo Novecento: alla Vita è indispensabile riportarsi alla Forma ma non assimilarsi ad essa, ch’è puro pensiero.

[1] Anche se non sempre viene ricordato, Tilgher serbò amore sia per Leopardi quanto per l’affine lettura pessimistica di Schopenhauer che lo indussero a riservare al poeta e filosofo di Recanati il lavoro La filosofia di Leopardi (pubblicato nel 1940, appena un anno prima del suo decesso avvenuto a Roma nel 1941.

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