Gian Paolo Fabris: un’epoca va ormai volgendo al termine

di Anna Irene Cesarano
Gian Paolo Fabris
Gian Paolo Fabris

“Un’epoca va ormai volgendo al termine” (Fabris, 2009, p.7). Così Gian Paolo Fabris, fine studioso dei fenomeni sociali, asserisce nel suo Societing. Il marketing nella società postmoderna, aggiungendo come sia proprio quell’epoca caratterizzata dalla fede nel progresso lineare, delle verità assolute, positivista, razionalista, tecno-centrica (cfr., Fabris, 2009).

“Lasciamo l’epoca delle certezze e delle ideologie e ci inoltriamo nella stagione del frammento, della pluralità, della volatilità, della molteplicità dei punti di vista per adottare nuove categorie del vivere sociale anche nel rispetto della diversità” (Ibidem, p.7).  Passaggio d’epoca, transizione d’epoca, iperbole? Secondo Fabris no. Queste espressioni che potremmo definire “enfatiche” (cfr., Fabris, 2009), arzigogolate, artificiose, rendono perfettamente l’idea di un cambiamento tanto rapido quanto pervasivo.

La modernità è al tramonto e si percepisce nel vivere quotidiano, “l’intensità del mutamento in atto, sull’impatto delle nuove tecnologie – soprattutto quelle informatiche sul mondo della produzione, della comunicazione, della quotidianità, che a dare conto di una realtà del tutto inedita che si disvela e va prendendo consistenza davanti ai nostri occhi” (Ivi, p.7). In tal senso ha rilevato lo studioso che non è un caso che come affresco della nuova società venga indicato il labirinto, giacché non possediamo ancora mappe dettagliate per inoltrarci nei meandri della nuova società o di una bussola che ci permetta di orientare il nostro percorso, che appare magmatico, confusivo, ambiguo, per trovare una via d’uscita o d’entrata (cfr., Fabris, 2009, p.8).

Come osserva acutamente Enzo Rullani (2007; cfr., Fabris, 2009, p.8), professore di Economia e gestione della conoscenza, la ricerca del “nuovo” che segna la transizione di secolo è un bisogno pratico, un’ansia intellettuale che registra la sensazione che abbiamo tutti di vivere un’epoca di discontinuità rispetto al paradigma classico che ha dominato fino al 1970, fungendo da modello di riferimento. La complessità e la turbolenza (cfr., Greespan, 2007; Fabris, 2009, p.8) caratterizzano la transizione d’epoca che stiamo vivendo, abbracciando tutti i sistemi da quello fisico a quello biologico, economico, sociale, culturale, politico.

Ma come afferma ancora una volta Fabris: “La complessità è difficile da definire e come termine evoca – a differenza della modernità […], un vissuto di cui istintivamente diffidare e da cui prendere le distanze. Forse perché è semanticamente prossima a complicazione: in realtà le differenze tra quest’ultima e la complessità sono molte e sostanziali […]”  (Fabris, 2009, p.8). Occorre a tal proposito per comprendere la complessità che ci circonda un approccio che sia sistemico, intersettoriale, inter (multi) disciplinare, dotandoci di strumenti complessi (cfr., Fabris, 2009). Complessità è sinonimo di varietà e variabilità, ovvero dinamicità, duttilità, adattabilità ad una molteplicità di contesti e circostanze, ma vuol dire anche discontinuità, non linearità, incertezza, indeterminazione. La complessità della società postmoderna può essere fonte di smarrimento, e per parafrasare le parole di Fabris (2009) non solo perché non la consideriamo come opportunità e potenziale ricchezza, ma, soprattutto perché non “catturiamo” i lineamenti della società nuova che il suo manifestarsi, anche in forme caotiche e turbolenti (apparentemente), va profilando.

Viviamo un momento di complessità senza precedenti, così come sostiene Mark C. Taylor (2005; Fabris, 2009, p.10), in un suo libro dal titolo emblematico Il momento della complessità. L’emergere di una cultura a rete; dove tutto si trasforma più rapidamente di quanto riusciamo a comprendere.

Ma risulta interessante e alquanto chiarificatrice a tal proposito la considerazione dello studioso, che in essa rileva al di là degli aspetti critici e problematici, straordinarie potenzialità di arricchimento, oltreché di crescita personale: “E’ una fase di transizione  da un ‘epoca che appariva stabile e sicura a un’altra in cui, come molti sperano tornerà l’equilibrio … Ma stabilità, sicurezza, equilibrio possono rivelarsi una delusione: nient’altro che vortici passeggeri in un flusso infinitamente complesso e turbolento … Nel mondo che sta emergendo la complessità è una condizione irriducibile quanto ineluttabile che, se da una parte genera confusione e incertezza, dall’altra ci offre, nelle attuali trasformazioni sociali, economiche, politiche e culturali, la possibilità di ripensare noi stessi in modo nuovo”.

Il mondo che a lungo abbiamo abitato, e nel quale la maggior parte di noi, riecheggiando Fabris (2009) è nata, cresciuta, ha studiato, insomma ha esperito la sua esistenza, ovvero quel mondo che abbiamo chiamato modernità “è ormai un fantasma” secondo Sergio Brancato (2014, p.9), illustre professore di Sociologia e storia dei media.  “Come tutti gli spettri, essa si agita ai lati del campo visivo, presente quanto già passata, riconoscibile ma perturbante, dunque non più familiare” (Ibidem, p.9).

Si è soliti considerare la modernità come un processo di secolarizzazione del mondo, allo stesso modo di come il progresso, parafrasando Christopher Lasch (1992), addirittura venisse concepito come una “sorta” di versione secolarizzata della fede cristiana nella provvidenza (cfr., Fabris, 2009). La ridefinizione dei rapporti di potere tra l’uomo e l’universo divino fa sì che si ponga in essere un nuovo paradigma di conoscenza per la legittimazione del sapere, una nuova identità sociale: la Scienza.

Scienza e Teologia terranno in mano le redini della produzione del sapere e dell’immaginario culturale e simbolico nel tempo moderno, proponendo ognuna la propria visione del mondo, il proprio sistema di rappresentazione e spiegazione dell’universo, producendo la propria “grande narrazione”.

“Si tratta, come nel caso del Mito, di strutture ordinative in grado di ricavare – a fronte della natura caotica dell’universo – un significato comprensibile all’esperienza del vivente” (Brancato, 2014, p.12). E saranno appunto proprio quelle narrazioni a perdere il loro spessore semantico, la loro ragione d’essere, il loro autentico valore.

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