I francesismi nella lingua napoletana: considerazioni di un dialettofono

di Franco Lista

Il tema qui proposto è la trascrizione di una conversazione tenuta dall’autore sui francesismi nella lingua napoletana, tenuta all’Associazione culturale La Rotonda, il 24 gennaio 2019.

Vorrei iniziare con un aforisma che orienterà la mia conversazione più da dialettofono, ma molto, molto meno, da dialettologo. Una citazione per me d’obbligo, nell’assoluta consapevolezza della complessità della scienza linguistica: Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non oltrepassarli. L’arguta, intelligente riflessione è di un grande poeta e sommo erudito: Giacomo Leopardi. Anche in me, come in molti di voi, è presente quel “fenomeno” che i linguisti chiamano diglossia: l’acquisizione di due codici linguistici, il napoletano e l’italiano che ci consentono di pensare e di esprimerci volentieri in dialetto, riservando la lingua italiana ai momenti più ufficiali e, naturalmente, alle produzioni scritte.

Accade di parlare in italiano, traducendo il pensiero dal napoletano che è la verace, cosiddetta lingua madre. Si sa che la traduzione comporta sempre qualche approssimazione semantica, ed io di questo mi scuso anzitempo!

Tengo a sottolineare la forte importanza, presso di noi, del napoletano quale lingua madre e la mia autoconsapevolezza linguistica mi porta ad affermare l’assoluta inseparabilità della lingua dal pensiero.

In buona sostanza, anche qui si tratta del classico rapporto tra forma e contenuto, presente in tutte le attività espressive e comunicative, a prescindere dal tipo di linguaggio: verbale, scritto, visuale, gestuale, segnico, tattile e così via.

Nella storia della linguistica si assegna a Herder (filosofo e scrittore tedesco della seconda metà del Settecento) il merito di aver rilevato e indagato la stretta connessione tra pensiero e linguaggio.

Ma, a mio avviso, con maggiore sinteticità e pregnanza espressiva è stato un nostro conterraneo (lo possiamo considerare tale, anche se nato a Bordeaux nel 353) a estrinsecare questa essenziale e linguisticamente vitale connessione. Si tratta di San Paolino di Nola, la cui figura ricordiamo soprattutto per l’annuale Festa dei Gigli che si tiene a Nola, nel mese di giugno. Il dotto vescovo nolano (corrispondeva, peraltro, con Sant’Agostino e Sant’Ambrogio) si comporta – lo dico in modo scherzoso – come un emerito accademico di linguistica generale. Infatti, in una delle sue numerose lettere in latino, scrive: Sapor mentis in sermone gustatur. Vale a dire, Il sapore del pensiero si gusta nella parola. Ed è proprio quello che accade, certamente in modo più pervasivo di tante altre lingue, nel dialetto napoletano. Con maggiore intensità questa connessione, gustosa e saporita, tra pensiero e parola si manifesta quando la nostra autoconsapevolezza linguistica viene a essere stimolata da contatti con gente che parla una lingua straniera o un dialetto per noi incomprensibile. Il pensiero corre all’esilarante dialogo tra Totò, Peppino e il vigile urbano nella piazza del Duomo a Milano: una divertente parodia di carattere linguistico, di spiritoso spessore semantico, come solo il grande Totò sapeva fare!

Forse analoghe scenette possono aver avuto luogo a Napoli, nel periodo angioino e in quello murattiano. Ed ecco i francesismi nella lingua napoletana! I francesi hanno lasciato un’impronta forte in tutta Europa, se consideriamo l’arco temporale tra Settecento e Ottocento dove la lingua francese era la lingua della diplomazia, la lingua delle corti europee e delle classi colte. Una diffusione che è condizione e condizionamento linguistico del “secolo dei lumi”.

Soffermiamoci sui 178 anni della presenza francese a Napoli, ossia quando gli Angioini fecero seguito agli Svevi e trasferirono a Napoli la capitale (1266-1435) e il periodo napoleonico, fino al rientro del Borbone col trattato di Calasanza (1806-1815): un arco di tempo nel quale i francesismi furono accolti nella parlata napoletana e ben adottati e adattati, attraverso quella “rotondità” fonetica, soprattutto vocalica che la distingue.

Certo, la lingua napoletana è lingua vocalica, non consonantica come i dialetti del nord o la lingua tedesca. Nel napoletano le consonanti sono ridotte; pensiamo – solo per fare un esempio – al loro abbattimento a favore di vocali. Prendiamo in considerazione la lettera g. Allora Agostino diventa Austine; ragù diventa rraù; friggere diventa frìjere; fragola diventa fràula.

Non a caso l’ottimo librettista Lorenzo Da Ponte scrisse per la prodigiosa musica di Mozart utilizzando la bella lingua vocalica che è il nostro italiano e vennero fuori opere straordinarie come Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte. Mozart, peraltro, considerava la voce umana come il migliore strumento musicale.

Torniamo ai francesismi, ovviamente con qualche limitato esempio di termini più in uso e alla loro inclusione nel napoletano:

acheter (comperare, acquistare) diventa accattà.

après (dopo) diventa appriésse.

arranger (adattarsi) diventa arrangià.

bleu (blu) diventa bblù.

breloque (ciondolo) diventa brillocco.

boîte (scatola) diventa buàtta.

bouteille (bottiglia) diventa buttéglia.

chance (possibilità) diventa canzo.

chanteuse (cantante e ballerina) diventa sciantósa.

chou-chou (tesoro) sciusciù.

enserrer (rinserrare) diventa ‘nzerrà.

entretien (conversazione) diventa ‘ntrattiene.

èpingle (spilla) diventa spìngula.

gâteau (sformato) diventa gattò.

malheur (malasorte) diventa malóra.

maman (mamma) diventa mammà.

rage (rabbia) diventa arràggia.

sans faşon (senza maniera) diventa sanfasò.

serviette (tovagliolo) diventa sarviètta.

sparadrap (cerotto) diventa sparatrappo.

tire-bouchon (cavatappi) diventa tìrabbusciò.

toupet (ciuffo) diventa tuppe.

 

Succede che nell’individuare e classificare i francesismi (e così pure accade con le altre parole di provenienza straniera), ormai interiorizzati nella nostra parlata, finiamo col vedere molte forzature e approssimazioni da parte di alcuni autori.

Non è mia intenzione portare esempi ed esercitare critiche: piuttosto riflettere sulla qualità musicale del napoletano che rende tale anche le parole importate. La fluidità, la vocalità, le indeterminatezze, gli echi delle finali mai completamente mute assimilano il napoletano alla musica e come tale arriva dentro di noi, naturalmente, semplicemente.

Melchior Grimm scrisse una bellissima riflessione a proposito di chi reputava l’indeterminatezza quale caratteristica negativa, un vero punto di debolezza della musica. Al contrario, la riteneva un punto di forza del linguaggio musicale, poiché – scrisse – la musica, senza passare per la mente, arriva direttamente al cuore. E di musica Grimm se ne intendeva, corrispondeva nientedimeno con Mozart; le sue riflessioni apparivano (siamo nella seconda metà del Settecento) sulla sua gazzetta letteraria, Corrispondance Letteraire, che circolava in Europa.

All’inizio di questa conversazione ho citato Herder, a proposito del nesso tra lingua e pensiero; aggiungo che lo stesso Herder amplia la sua riflessione, definendo “intimo” il rapporto tra la lingua e le caratteristiche della gente che usa quella lingua.

L’altro studioso e iniziatore della linguistica moderna, Wilhelm von Humbold, approfondisce la questione individuando in ogni lingua una peculiare struttura, tipica, distintiva, tale da condizionare il modo di pensare e di esprimersi dei portatori di quel sistema linguistico.

Così accade per la lingua napoletana e per noi napoletani. Ecco il tipico modo di riflettere e di parlare, laddove la musicalità della parola si accompagna all’inscindibile ed efficace gestualità, a una mimica intensamente espressiva. Una sorta di intersensorialità, dove parola, mimica, gesto, cioè udito, vista e tatto si fondono e si confondono. I napoletani mentre parlano si toccano. Totò, in un memorabile sketch parlava di “tocco” e “ritocco”!

Un materiale, dunque, comunicativo, polidimensionale, intersensoriale che crea un sistema linguistico complesso, difficilmente registrabile nella sua totale interezza espressiva. Sarà questa una delle ragioni, assieme a quelle più strettamente linguistiche, che crea difficoltà alla codificazione in forma scritta della lingua napoletana?

Personalmente, credo che un fondo di verità nell’interrogativo ci sia. Infatti, così scrivevo in una precedente occasione e in modo paradossale: “… a meno di non ricorrere a un improbabile quanto complicato ‘pentagramma’ che possa restituire la molteplicità dei messaggi sensoriali e cogliere la particolare struttura di linguaggio espressivo, carico – come direbbe Berardinelli – di polline poetico”.

Humbold, oltre ad affermare la tipicità di ogni struttura linguistica, considerava anche come tale tipicità condizioni sia il pensiero che le modalità espressive del soggetto parlante.

Ed è quello che accade ai napoletani, laddove il rapporto del sé col mondo, la singolare mentalità, la particolare concezione esistenziale (la weltanschauung, direbbero i tedeschi), discendono da questo legame con la lingua. Lingua ricca di espressività che spesso dà luogo a una sorta di totalità emozionale per creatività e metaforicità, rendendola per questo incline alla trasmissione di messaggi tanto ineffabili quanto poetici.

Concluderei questa conversazione, così come ho fatto in apertura, con una efficace citazione; questa volta di von Humbold: La lingua di un popolo è il suo spirito, il suo spirito è la sua lingua”

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