Invictus

di Vincenzo Curion

Recentemente la squadra Sudafricana degli Springboks è tornata sulle pagine di cronaca perché è venuto a mancare Chester Williams, unico giocatore di colore della squadra che, nel 1995, compì un’impresa straordinaria arrivando a vincere la coppa del Mondo contro gli All Blacks, la squadra pluripremiata di Jonah Lomu, a Johannesburg, davanti a Nelson Mandela, primo Presidente di colore del Sud Africa, eletto appena un anno prima. Il giocatore, stroncato da un infarto a soli 49 anni, era molto noto e rappresentava un simbolo per tutta la comunità nera che, nonostante il regime segregazionista sia stato formalmente abolito, ancora porta le cicatrici di decenni di sofferenze e di oppressione. Recenti drammatici fatti di cronaca, testimoniano purtroppo una certa recrudescenza del fenomeno razzista, che non è stato del tutto eradicato, malgrado i grandi sforzi, prima con Mandela, poi con i suoi predecessori, per creare una nazione multietnica e coesa.

Basti pensare che proprio il rugby, lo sport “nazionale” su cui Mandela fece leva per portare distensione in seno alla comunità, continua a restare uno sport quasi solo per bianchi. Quando nel primo di tre test match contro l’Inghilterra in programma all’Ellis Park di Johannesburg il 9 giugno 2018, la fascia di capitano della nazionale degli Springboks andò a Siya Kolisi, flanker di 26 anni, si parlò di caduta di un tabù per il rugby sudafricano. Per la prima volta, in 126 anni di storia, un giocatore di colore a guida della squadra.  Nonostante in Sudafrica il regime di apartheid sia stato abolito nel 1994, la nomina a capitano di Kolisi fece scalpore. Del resto, malgrado i 25 anni dalla vittoria di Johannesburg, gli sport tutti, compreso il rugby ancora stentano ad essere vissuti e praticati assieme. A tal proposito anche la Federazione nazionale di Rugby, nel tentativo di favorire una maggiore apertura si è impegnata, approvando un piano quinquennale all’insegna della discriminazione positiva. L’obiettivo è che nel 2019 almeno la metà dei giocatori dei campionati professionistici siano di colore.

L’impresa del 1995 fu raccontata nel libro Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation, dal giornalista John Carlin. Dal volume di Carlin, fu poi tratto un gradevole film che seppe ben rappresentare, non la storia del neopresidente Nelson Mandela, premio Nobel per la pace nel 1993 a tre anni dalla scarcerazione avvenuta l’11 febbraio 1990, bensì la forza d’animo che Madiba,– il nome di Mandela all’interno della tribù di appartenenza-, seppe infondere ai giocatori della squadra degli Springboks, i quali, malgrado le ataviche antipatie che suscitavano nella comunità di colore che li vedeva come simbolo della minoranza opprimente bianca, scesero in campo per rappresentare una nazione, che era “nata” solo con le elezioni del 1994 che avevano visto una schiacciante vittoria, 62%, dell’African National Congress, partito guidato proprio da Nelson Mandela, scarcerato nel 1990 dopo 27 anni di prigionia per le sue posizioni proprio anti apartheid.

Il film inizia in Sudafrica, dopo le prime elezioni aperte a tutti i cittadini di qualunque razza, e l’insediamento di Nelson Mandela come presidente. Entrato in carica, Mandela, si pone prioritariamente l’obiettivo di riappacificare la popolazione del paese, ancora divisa dall’odio fra i neri e i bianchi. Il regista Clint Eastwood, fa partire il suo racconto a poche settimane prima della terza edizione dei Campionati del Mondo di Rugby, tenutisi in Sudafrica proprio per celebrare la fine dell’Apartheid e la riammissione, nelle competizioni mondiali, della nazionale di rugby sudafricana, estromessa da circa un decennio, proprio per il regime razzista del Paese. La rappresentanza nazionale non godeva di grande fama. La squadra non partecipava da tempo a tornei di rilievo contro le altre rappresentanze più blasonate, ma si limitava a rassegne e tour nei paesi dell’emisfero australe, sempre segnate da scontri e manifestazioni di protesta perché, a detta dei manifestanti, squadra rappresentante di un paese razzista. Inoltre è reduce da una lunga serie di sconfitte. L’inizio del film lascia presagire che gli Springboks andranno a malapena incontro a un buon piazzamento, ma nulla di più. Contrariamente a questa opinione comune, Mandela si interessa in prima persona delle sorti della squadra, augurandosi che un’eventuale vittoria contribuisca a rafforzare l’orgoglio nazionale e lo spirito di unità del paese. L’impresa appare quanto mai incerta. La squadra sudafricana era sempre stata sostenuta fortemente dalla minoranza bianca, laddove la maggioranza nera, aveva sempre tifato contro, proprio perché non la sentiva propria.

Fermamente convinto della propria idea, il neo Presidente entra in contatto con il capitano François Pienaar, facendogli capire l’importanza politica della incombente competizione sportiva. Questa frequentazione fra Pienaar e Mandela, dove l’ex prigioniero fa continuamente leva sull’importanza della motivazione, sull’importanza di fortificare lo spirito per essere pronti all’azione, dà origine a una serie di eventi che rafforzano il morale degli Springboks e li conducono in un fortunato cammino nella Coppa del Mondo, fino all’incontro finale contro i temibili All Blacks. Questi ultimi, noti in tutto il mondo per la Haka, la danza tribale mahori con cui aprono ogni loro incontro, partivano favoriti per le numerose vittorie accumulate negli anni precedenti.  I neozelandesi malgrado alcuni problemi, mantennero fede alle aspettative fino al termine dei supplementari, cedendo ai padroni di casa solo nei tempi supplementari. Dopo un ultima meta disputata, gli Springboks riuscirono ad alzare al cielo il trofeo. Il successo del team divenne motivo di riavvicinamento della popolazione nera alla popolazione bianca e fece sì che un altro passo avanti nel processo d’integrazione fosse compiuto.

Il film deve il titolo ad una poesia Invictus, scritta da William Ernest Henley che Mandela, interpretato da un sobrio e misurato Morgan Freeman, racconta fosse solito ripetersi per incoraggiarsi durante le dure giornate di lavori forzati e di isolamento a cui era costretto negli anni di prigionia. Henley, che visse una vita segnata da una gravissima forma di tubercolosi ossea che lo costrinse prima ad una amputazione e che poi lo condusse alla morte a soli 53 anni, seppe affrontare la propria condizione con grande coraggio riuscendo anche a praticare il lavoro di giornalista a Londra. Malgrado numerose pause dall’attività, dovute all’avanzare della malattia, seppe comunque vivere attivamente i suoi anni. Amico di Stevenson che si ispirò alla sua figura per il personaggio di Long John Silver ne L’isola del tesoro, scrisse Invictus durante un suo ricovero in ospedale, testimonianza della sua strenua volontà di non cedere alle avversità della sua condizione. I versi della poesia sono un forte messaggio di coraggio ed uno sprono a restare tenacemente al comando della propria anima, proprio come accadde a Mandela.

Pienaar, il capitano interpretato da Matt Damon, che fino ad allora non aveva pensato con impegno a motivare i suoi compagni di squadra, subisce il carisma del neo eletto, e si lascia convincere non solo a prestare maggiore attenzione al suo proprio aspetto emotivo ed all’aspetto emotivo di tutta la squadra, ma anche a recarsi assieme a tutti gli altri giocatori, a visitare il campo dove Mandela era stato prigioniero. Questa iniziativa rafforza il valore delle coraggiose parole di cui Mandela si serve per far sentire la squadra parte di un progetto più grande. La declamazione della poesia di Henley, già di per sé molto evocativa e energica, acquista così un valore molto più grande e potente, proprio perché Mandela, ha patito sofferenze analoghe a quelle dell’autore per via delle sue idee anti apartheid.

Dal profondo della notte che mi avvolge,

Nera come un pozzo da un estremo all’altro,

Ringrazio qualunque dio ci sia

Per la mia anima invincibile.

Nella stretta morsa delle avversità

Non mi sono tirato indietro né ho gridato.

Sotto i colpi avversi della sorte

Il mio capo sanguina, ma non si china.

Oltre questo luogo di rabbia e lacrime

Incombe solo l’orrore della fine.

Eppure la minaccia degli anni

Mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto stretta sia la porta,

Quanto impietosa sia la vita,

Io sono il padrone del mio destino:

Io sono il capitano della mia anima.

L’apartheid –dal boero, “separazione” –, il regime segregazionista, che costò non poche vittime e che causò diversi problemi allo stato Sudafricano, si affermò gradatamente durante il secondo dopoguerra con l’entrata in vigore di una serie di leggi che negavano ogni diritto politico, sociale ed economico ai neri.  Tuttavia elementi di segregazione razziale erano già presenti nel Sudafrica fin dall’inizio del XVII con i boeri, i primi colonizzatori di origine olandese da sempre favorevoli ad una politica razzistica che si stabilirono all’epoca nella zona del Capo di Buona Speranza, lasciandola per spostarsi nell’entroterra sottraendosi al dominio britannico e creare nella seconda metà dell’Ottocento, le repubbliche autonome dello Stato Libero dell’Orange e del Transvaal.

Solo con la fuoriuscita dal Commonwealth nel 1961 e con la presidenza di Hendrik Frensch Verwoerd dal 1958 al 1966, questi elementi sfociarono in un sistema organico e pratico denominato “apartheid”, che significa “separazione”. Fu proprio Verwoerd, interessato a trovare una giustificazione filosofica teorica ad un vagheggiato sviluppo armonico separato delle etnie residenti in Sudafrica, e che per il suo lavoro è di fatto considerato l’”artefice dell’apartheid”, a teorizzare e attuare praticamente il sistema governativo. Convinto sostenitore della supremazia boera che, secondo la sua visione, era fondatrice dello Stato Sudafricano, l’ex psicologo e sociologo, il 31 maggio 1961 proclamò la Repubblica del Sudafrica, dopo che i territori, che avevano avuto l’indipendenza dalla Corona Inglese nel 1931, divenendo dominion nel quadro del Commonwealth con il nome di Unione Sudafricana, furono estromessi dall’organizzazione britannica proprio per via delle leggi razziali.  Solo grazie a Mandela ed alla sua strenua lotta non violenta, alla sensibilizzazione crescente dell’opinione pubblica internazionale, il regime razzista fu abolito e dal 1994 lo Stato Africano si impegna con grandi risorse per creare coesione tra le varie etnie che lo abitano.

Bibliografia e Sitografia

PDF https://drive.google.com/file/d/1b8F5Wh2k1NbBx7jioUzXMKto7ZIPPTih/view?usp=sharing