Roccotelli a Castel dell’Ovo

di C. Gily Reda
Michele Roccotelli - Capri
Michele Roccotelli – Capri

(dal catalogo) Luminescenze e finestre valgono per Roccotelli a far entrare il colore della vita quotidiana nella tela. Restituisce lo sguardo di una giornata felice, una di quelle in cui il mondo sembra degno della definizione di Leibniz: che questo sia il migliore dei mondi possibile – e non c’è un Voltaire a gridare “svegliati!” a Candide.

Ma non è un ingenuo l’artista, come non era ingenuo Leibniz. Il male del mondo, il buio, sono realtà cui purtroppo nessuno può trovare scappatoie; l’ansia è la prima caratteristica del sentire dell’uomo, forse del vivente in ogni sua forma, il suo modo d’intendere il pericolo e fare che la paura invece di bloccare stimoli l’ingegno. E nasce il coraggio, il sapere che la prima guida dell’uomo è l’armonia, la speranza; e soprattutto che essa non è una illusione ma una in-lusio, un’entrata in gioco, cui attingere la forza di rischiare per voler vincere.

E tutto ciò è colore, la forza immediata e bruta che non è brutale, che sa vincere senza offendere. Tra le categorie dell’arte, le forme che guidano creazione e giudizio, è la più efficace per dire sentimenti e trovare condivisione, comuni ad autore e lettori, la più ammaliante è di certo il colore. Perché l’arte giunge al massimo quando parla chiaro senza parole, celebra l’empatia come una forma di comunione, liturgica nel suo andare per tappe riconosciute che sono come una lingua in costante evoluzione, come tutte: il colore è la consistenza universale fatta percezione pure, non richiede cultura in parole per essere avvertita, non serve decodificazione, s’impone.

Ma se si pensa a Gauguin, ai Fauves, a Vermeer, tutti così celebri per i loro colori, s’intende che qui tutto è diverso. E quindi anche qui bisogna ragionare per capire quel che l’artista ha agito dando corpo ai colori. L’artista cerca quella ‘verità’ che non si condivide se non quando la forma è diventata comune anche agli altri nell’Opera o nell’opera – donde il frequente pessimo carattere che si giustificava con le sorpassate teorie del genio naturale: perché è una verità da creare, un sublime incondivisibile, una percezione formale esuberante che prende corpo determinato solo attraverso un’attenta composizione nella lingua del bello, ch’è invece storica, mutevole, universale, personale. Ma occorre far sì che essa mantenga quel preciso equilibrio di empatia, analogia, percettività, selettività…

Perciò non c’è il tentativo di scrivere luci e ombre attraverso forti contrasti di colore anche a costo di danneggiare la linea percettiva per dare pieno spazio al colore. Quando Roccotelli vuole dire colore in senso infinito, sceglie le ‘sillabe’ dell’astratto, non le camuffa in ‘parole’ definite. Quando introduce una figura invece il tratto è preciso, non si scompone all’occhio in contrasti forti, si disegna d’essere come centro d’attenzione ma interpreta la parte dello sfondo: perché è piccolissima e tutto il resto è così colorato di solleone da sfavillarla – ed è esso il protagonista. Mentre se descrivessimo il quadro in parole diremmo: “una piccola barca dondola al sole, nel tripudio di uno sguardo infiammato dal caldo e da un cuore che canta l’allegria” – non solo perché vede la barca, ma immagina di dondolare su di essa dopo aver sentito il mare, e sulla pelle si spande la dolcezza del mare e del sole, la sua vita così calda da rendere sufficiente il presente per godere la luce. Se i cubisti avevano scoperto la visione simultanea, lui dà voce al presente continuo, al quotidiano come speranza.

Così Roccotelli ci restituisce l’estate dei ragazzi, quando un giorno di vacanza è immergersi in un mondo di volontà di creare vita, con l’amore, con i progetti, con l’idea di un futuro da realizzare: il quadro è l’opera in cui annegare per un attimo e risentire lo spazio condiviso che l’artista rivela. E il colore di Roccotelli è l’immersione nel mio proprio sguardo quotidiano felice, che non è certo la luce di tutti i pittori del colore. Se ricorda i fauve, i selvaggi: lui è il buon selvaggio di Rousseau, dal mare del sogno di oggi, che è sguardo. Così il centro dell’attenzione è ben definito e il resto è empatia, perché è il contorno, la cornice, che Simmel esaltò, è l’organicità dell’essere intorno al foco dell’attenzione – che ha però il protagonismo dell’azione. Riconosco il mio sguardo bambino, in un giorno d’estate, frugale, semplice, felice di vivere.

Lo cerchiamo invano nel selfie, o anche nell’obbiettivo: quest’esplosione di vita bidimensionale, che invita alla riflessione l’astante, resta privilegio del pittore. La tecnica, la capacità di dare forma, l’estetica, il significato – tutto è importante: ma l’essenziale è percepire la vita nel il sublime e saperla dire nella lingua del bello senza annegarla in una vita subacquea da schermo, tanto da comunicare la vibrazione senza annullare la critica.

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